La Mamma del sole avvolta nel suo mantello di oscurità
Pubblichiamo le pagine iniziali del romanzo “Il cammino lento dell’ombra“, l’opera narrativa di Bachisio Bandinu che da questo venerdì sarà in edicola con La Nuova a 7,50 euro oltre il prezzo del quotidiano per la collana Scrittori di Sardegna* * *di BACHISIO BANDINU (nella foto)
L’ombra… l’ombra… Che cos’è quest’ombra che ti segue nel sentiero fino a scomparire nella curva del monte?Era la domanda inquieta di Talla, la chiaroveggente, che assisteva al parto e leggeva tracce del destino, scrutando il tempo a venire.Nell’intervallo tra il sentiero della notte e l’apertura del giorno, Frantziscu ascoltava voci che risuonavano con una cadenza di racconto che sembrava avviasse una lunga storia e invece soffocava in frasi spezzate.- Sei nato in nome del padre, dal grembo della madre… un corpicino mascherato in mezzo a sangue e liquido torbido, esposto alla violenza della luce… un respiro d’ombra ma subito un’ebbrezza luminosa. La voce veniva da una zona oscura e subito rivelava, come sullo schermo, la figura della nonna. Il volto segnato da una profonda piega della bocca, con lo sguardo che scrutava orizzonti lontani, del passato e del futuro. Le parole si alzavano come spirali di vento e risuonavano a intermittenza. Poi una pausa come se il racconto dipendesse da un respiro affannoso:- La donna esperta ha sussurrato: non respira. E dà un colpo sulla porta dell’anima per dare l’alito… ed ecco il pianto, il battito e il ritmo della vita…La voce della nonna insisteva con tono di preghiera.- Si è scatenata la lotta intorno al tuo corpo e alla tua anima tra le forze del bene e del male, possa tu essere benefatato. Mutava la scena e vibrava una voce mascherata da un velo d’angoscia:- La Mamma del sole, appena passato il ponte, ti ha gettato addosso il suo alito che segna per tutta la vita… invano nella vasca dell’orto hai fatto il rito dell’acqua per liberarti dall’ombra del suo manto. Frantziscu sentiva queste voci fluttuare in un’aria persa ed echeggiare con toni differenti che associava a colori, all’azzurro e al verde, al rosso e al nero. Brani dell’infanzia comparivano e sparivano lasciando una scia di presagi.Gli sembrava strano che parole e immagini del passato, per qualche incantesimo, lo avessero sorpassato nel cammino della vita e ora gli stavano davanti chiedendo ragione del piede e del passo nel procedere. Nella pienezza del risveglio Frantziscu avvertiva l’urgenza di alzarsi dal letto e buttare nella scrittura spezzoni di racconto, anche solo qualche frase sospesa, magari una sola parola che insisteva. Una scrittura in pura perdita. Scriveva secondo il ritmo dei frammenti, ma già avvertiva in lontananza il flusso di una storia che premeva per condensarsi in racconto continuo. Allora sollevava lo sguardo per uscire da questa sembianza senza tempo e prendere contatto con la realtà che lo circondava. Proiettava lo sguardo fuori dalla finestra: la linea di un palazzo tagliava in diagonale il Duomo di Milano e divideva la piazza dove gente multicolore s’era riunita, già dal mattino, per festeggiare la propria solitudine, con fogge e linguaggi che rimarcavano una irrimediabile lontananza. Poi lo sguardo si ritirava sui fogli di una scrittura frettolosa che ricomponeva in una cartella su cui aveva scritto: Profezia.
Frantziscu viveva a Milano ormai da quindici anni. Vi era giunto, appena dopo la laurea, per frequentare la Scuo-la Superiore di Comunicazioni Sociali e prendere il diploma di cinema e di televisione. Sbalzato dal tempo riposato del suo paese della Sardegna interna, sperimentava il ritmo rivoluzionario della fine degli anni Sessanta nella capitale lombarda.La decisione di andare in Continente non aveva un motivo preciso. Forse era il vivere nell’isola a suscitare il fantasma del viaggio quando l’orlo terra-mare da confine invalicabile si apre a prospettive liberanti e il mare mostra un altrove di promessa e di avventura.
Gli sembrava di essere lui stesso isola e di provare un sentimento di orfanità che invocava un ricongiungimento. Il primo anno d’insegnamento nel Liceo scientifico del suo paese scorreva nell’indifferenza di una normalità quotidiana, a venticinque anni si prospettava un destino tracciato sul percorso di quei cento metri che separavano la casa dalla scuola. Sennonché un’inquietudine s’insinuava come una corrente sotterranea, senza poterla attribuire a eventi specifici, un’amarezza che a conclusione della giornata sentiva in gola come sensazione fisica. Era un sentimento di provvisorietà e di sospensione, pur nello scorrere di un tempo lungo e disteso, nella staticità di un luogo sempre riconfermato. Immaginava un altrove che seppure indefinito fosse capace di aprire prospettive a nuove esperienze. Così gli accadeva di sorprendersi a fissare un punto vuoto, lontano, come preso da incantamento. Viveva un tempo velato.L’arrivo a Milano fu un osanna. La città e il suo ritmo lo esaltavano e quasi lo stordiva la frenesia della gente in movimento verso una meta. Gli pareva che le persone avessero un compito preciso e urgente, tutte animate da un progetto e con in mente un programma. Lo sconvolgeva questo teatro della velocità perché veniva da un paese dove le giornate erano estenuate e il tempo confermava se stesso, animato soltanto dal calendario delle feste e dal ritmo delle stagioni. In città non c’erano tempi morti, la vita era in presa diretta ed egli si sentiva immerso nel flusso del fare, del programmare. Anche il camminare per le strade gli dava la sensazione di novità e il medesimo percorso non diventava abitudine. Nel suo paese i lastroni di granito che coprono il corso principale avevano incorporato il tempo. Nell’infinito andirivieni della passeggiata si consumava un moto apparente, nell’eterna ripetizione di passi e discorsi, di giudizi e di silenzi. In città (…) aveva la sensazione che la matassa della sua vita si sbrogliasse. Tutti in cammino, spinti da un impegno, come se si avesse un motivo solido per vivere. Una folla anonima, ma ciascuno aveva un’intenzione e tutti insieme formavano una società operosa. Anche Frantziscu entrava nel fluire delle cose. Non si sentiva gli occhi addosso, gli sguardi s’incontravano senza lanciare giudizi. La città spazzava via i vapori delle sue abituali elucubrazioni e le nebbie del risentimento. Si mischiava a migliaia di persone che non conosceva, eppure avvertiva che si stava insieme nel grande palcoscenico della città. (…) Un tempo che non lasciava scorie.
In: La Nuova Sardegna, 10 novembre 2020