L’esuberanza dei giovani contro la resistenza degli anziani, di Paolo Di Stefano

L’articolo è di due mesi orsono. Se poco poco ci si avesse pensato, non saremmo nella presente situazione.

In marzo, nel pieno (vuoto) del confinamento, «la Lettura» aveva deciso di sentire l’umore di diversi intellettuali (un sociologo, uno psichiatra, una psicoanalista, un neuroscienziato, un critico letterario esperto di Leopardi). Siamo tornati da alcuni di loro per capire cos’è cambiato dopo sei mesi. Coinvolgendo anche una protagonista della poesia contemporanea e un filosofo, studioso del Medioevo e teorico della metafisica vegetale.

SALVATORE NATOLI — Nella fase del lockdown il primo sentimento, che tutto sommato ne ha determinato la riuscita, è stata la paura. Quindi, anche grazie a una notevole riserva di risorse, è prevalso lo spirito di responsabilità e il meccanismo difensivo per sé stessi e per gli altri: la paura è di per sé paralizzante e non ha bisogno di elementi coattivi. Poi si è entrati nella fase problematica dell’attesa impaziente, ha cominciato a svilupparsi la grande incertezza sul futuro: il lavoro, l’economia, le scuole… si aprono o non si aprono… e se si aprono, come si aprono? E il virus torna o non torna? La paura non è cessata ma la gente ha cominciato a capire che può essere gestita, addomesticata, anche perché la medicina ha avuto qualche successo terapeutico. Si è aggiunta poi la fase delle richieste di protezione da parte di vari settori, con le caratteristiche proprie dell’emergenza: se dobbiamo stare fermi, come facciamo a campare? Per quel che ha potuto, la politica ha dato risposte di tipo protettivo, creando ovvie scontentezze sulle quantità e sui tempi, e sviluppando forme di sottile nevrosi e di confusione.

Nelle ultime settimane l’attesa si è fatta ancora più sinistra: pareva che il contagio si allentasse anche per merito del lockdown e immediatamente la gente è ripartita, è uscita, alcuni con cautela, altri con spregiudicatezza. Invece… In Italia abbiamo reagito diversamente che altrove?

EUGENIO BORGNA — Dal mio punto di vista, vorrei considerare la reazione italiana muovendo dalla risposta della sanità dinanzi a un evento così sconvolgente. Mentre la territorializzazione della medicina ha consentito, in particolare alla Germania e alla Francia, di reagire con più immediatezza, in Italia l’orientamento dominante è stato quello incentrato sugli ospedali. La risposta migliore, da noi, è stata invece quella della psichiatria, grazie alla rivoluzione basagliana: leggendo alcune riviste tedesche, si capisce che le conseguenze in Germania sono state molto più gravi. Non oso immaginare cosa sarebbe avvenuto in Italia se ci fossero stati ancora ospedali psichiatrici come quello di Milano e di Roma, con migliaia di pazienti murati vivi.

 

SALVATORE NATOLI — Di fatto l’Europa ha mimato l’Italia, si è allineata persino la Gran Bretagna quando le cose si sono messe male… In Brasile e negli Stati Uniti l’ideologia di fondo è stata quella della selezione naturale: l’attenzione alle vite che si perdono e la protezione è stata secondaria rispetto ai processi economici, pensando che le cose si sarebbero aggiustate da sole. Ma l’esito è stato fallimentare anche sul piano politico. L’altra cosa importante è che lo sanno anche i bambini che c’è stata una selezione sulla base delle diseguaglianze: anche da noi il lockdown l’hanno patito molto di più i poveri e il ceto medio impoverito, perché un conto è avere spazi ampi in cui vivere, altra cosa è abitare in piccoli appartamenti, dove le distanze sono minime. E se parliamo delle attività commerciali, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: il piccolo bar è andato in crisi, mentre chi aveva più risorse aveva anche più riserve… La differenza abissale, anche a livello di mortalità, è stata tra ricchi e poveri. Non ne siamo ancora usciti, ma intanto qualcosa è mutato nei comportamenti e nella mentalità?

EMANUELE COCCIA — Credo, come per ogni pandemia, che i cambiamenti siano avvenuti su un piano inconscio e che ci vorranno anni per osservarne le conseguenze. Mi sembra che siano due le cose più toccate. Ci siamo trovati su scala planetaria, murati in casa, senza più accesso allo spazio pubblico. La città è da un giorno all’altro diventata fuori legge, spazio proibito. È naturale che l’opposizione tra città e casa, tra spazio pubblico e privato cambierà radicalmente nei prossimi decenni: la pandemia ha accelerato un processo già in corso. Un altro cambiamento profondo, associato anche al nuovo regime climatico, è la fine del pregiudizio teologico che vede il pianeta come qualcosa che sia naturalmente destinato ad accoglierci, una casa ospitale, fatta perché l’uomo possa vivere in via tendenzialmente eterna.

SIMONA ARGENTIERI — Per il mio metro di valutazione sei mesi non sono tanti, non bastano per individuare vere trasformazioni individuali e collettive. Trovo semmai conferma di quanto ho sostenuto a suo tempo: non si cambia così facilmente a fronte degli eventi della realtà esterna e non ho mai dato credito alla profezia che il dramma della pandemia ci avrebbe resi più responsabili e più buoni. Una solida struttura della personalità non si costruisce nell’emergenza, ma in tempo di pace. Tanto più che siamo arrivati impreparati, condizionati dai tratti tipici della nostra cultura: l’intolleranza alla frustrazione, l’insofferenza di fronte a ogni limite posto ai nostri desideri (vissuti come «diritti»); il piccolo egoismo quotidiano; il narcisismo… Che cosa ne è venuto fuori?

SIMONA ARGENTIERI — Credo che da ciò derivi l’attuale diffuso sentimento di delusione. La maggior parte di noi, durante la tregua estiva di minore diffusione del virus, si era illusa che il peggio fosse ormai alle spalle, che fossimo prossimi alla soluzione salvifica del vaccino. Poco conta, rispetto alla forza del desiderio, che più e più volte la scienza ci avesse messo in guardia. Nella immensa mole di informazioni circolanti, ciascuno tende a cogliere e a trattenere nella mente ciò che conferma i suoi convincimenti.

ANTONIO PRETE — Il confinamento, certo, ha intaccato le forme del vivere sociale, fondate sull’incontro, la relazione, la corporeità, come ha messo in questione riti e forme della compassione: pensiamo all’importanza della presenza dinanzi all’altro, della carezza, della tenerezza, insomma della prossimità, che è principio del riconoscimento dell’altro, e di sé attraverso l’altro, attraverso la presenza fisica dell’altro. Dinanzi a questo, occorre trovare di volta in volta un nuovo equilibrio, anche se difficile, tra la necessità di rispettare le libertà individuali e la necessità di provvedere alla salute pubblica. In ogni caso, un principio morale oggi è non rimuovere quel tragico che si è mostrato con il dolore di moltissimi e continua a mostrarsi in molte parti del mondo. Dallo sguardo su quel tragico dovrebbero muovere tutte le scelte e le analisi. Triste è vedere come nell’imperversare della tragedia nelle Americhe, in India e altrove, si sia attenuata la sensibilità per la sofferenza che è nel mondo, concentrando ciascuno l’attenzione al proprio Paese.

CHANDRA L. CANDIANI — In generale vedo il tentativo di ripetere quello che c’era prima, di fare ritorno alla cosiddetta normalità e di fingere che sia finito tutto. Non sento una riflessione seria sulla connessione tra la comparsa del virus e la situazione ambientale, la nostra responsabilità di un modo di vivere che ha ridotto la natura a un fondo da cui attingere eternamente e non un sistema vivente con cui collaborare, da custodire e proteggere. Non vedo nemmeno il desiderio di rendere la propria vita più quieta e rivolta a quello che conta o alla domanda di cosa sia quello che davvero conta. Vedo il mimo della vita di prima, la prepotenza di prima, l’ambizione, la falsa sicurezza, l’incuranza verso gli altri. La forza delle abitudini ha finito o finirà per prevalere su ogni prospettiva, non tanto di rivoluzione ma di correzione di rotta?

ANTONIO PRETE — La tendenza che vedo affiorare è quella dell’oblio, dimenticare ciò che è successo: il senso della finitudine e del dolore che c’è nel mondo non viene elaborato. Questa pandemia potrebbe insegnare che non bisogna distrarsi, non bisogna allontanare lo sguardo dal dolore, perché ci porta sotto gli occhi la sofferenza. Anche manifestazioni sociali come la spensieratezza dei giovani, la ripresa dei costumi e della socialità precedente come se nulla fosse, la smania estiva di ritrovarsi nella folla, sono tutti fenomeni che segnalano la dominanza dell’oblio, soprattutto nei giovani: si sa che il giovane tende per ragioni di età a rimuovere, a vivere la propria vitalità e le proprie esperienze come sempre, senza l’ombra di quel che è accaduto.

Si capisce il bisogno di un compenso generazionale alla solitudine sofferta durante il confinamento, ma il comportamento andrebbe comunque commisurato alla necessità di osservare le misure per evitare che venga abolito l’imperativo categorico kantiano. Il principio della responsabilità. Se si giustifica con il fatto generazionale, si rischia di arrivare a un’attenuazione di quel principio morale che consiste nel preoccuparsi anche degli altri.

SALVATORE NATOLI — Direi che l’eventuale cambiamento nei comportamenti dipende dalla formazione dei soggetti, che coinvolge, appunto, la responsabilità. C’è chi anche dopo il lockdown si è sentito ancora responsabile, altri erano desiderosi di una libera uscita specialmente nelle fasce giovanili, anche perché i giovani erano stati i meno colpiti. Un fenomeno importante è stata la sparizione, o meglio il ridimensionamento, degli anziani: è stata questa la grande perdita.

LA LETTURA 6 settembre 2020

 

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