L’inganno veritiero, di Mauro Bonazzi
La grande tragedia antica sbriciola l’ambizione della filosofia di definire il bene e il male. Con i suoi intrecci inverosimili svela l’irrazionalità della vita e ci libera dalle illusioni.
«Che cosa devo fare?», è la domanda, più spesso un grido, che risuona in tante tragedie, e mai così intensamente come nell’Orestea di Eschilo, mentre Oreste guarda l’amico Pilade, disperato, la spada sguainata davanti alla madre che chiede pietà. Scene estreme, dominate da passioni furibonde, che spingono a gesti inconsulti. Per questo Platone, pur subendone il fascino, affermerà che non ci può essere posto per queste tragedie in una città ben governata: perché sono diseducative, perché producono una visione distorta di quello che siamo, della realtà in cui viviamo. È il solito scontro tra tragedia e filosofia, «un antico conflitto» si legge nella Repubblica, che Simon Critchley ricostruisce nel suo ultimo libro A lezione dagli antichi, da poco tradotto per Mondadori.
Chi avrà ragione? Ne era consapevole anche Friedrich Nietzsche, giovane professore a Basilea, mentre pubblicava il suo primo libro, nel 1872. La nascita della tragedia parla di apollineo e dionisiaco, del fondo oscuro, orribile, su cui poggia l’esistenza umana; e critica Socrate, il filosofo, per aver corrotto tutto.
Ma anche Nietzsche, persino lui, era troppo affascinato da questi Greci per capirli completamente.
L’ambizione della filosofia è chiara. Il mondo appare caotico, ma non può essere abbandonato al caso. La filosofia è la ricerca dell’ordine che sta dietro al caos apparente. A questo serve la nostra intelligenza, a ricomporre l’armonia: la realtà ha una struttura razionale (in greco: logos), un senso, che la nostra ragione (in greco: logos) è in grado di comprendere. C’è un rapporto stabile, certo, tra noi e la realtà, che possiamo cogliere ragionando correttamente. Non è una conoscenza solo teorica: comprendendo le cose come sono, sapremo anche dove stanno il bene e il male. È l’ambizione della filosofia, ed è anche la promessa della religione (Dio, il creatore di tutte le cose, l’arbitro del bene e del male). È un pensiero di cui siamo in fondo convinti tutti: ci deve essere un significato in quello che ci accade, una distinzione tra il bene e il male.
La tragedia mostra che la realtà è un’altra. Non c’è ordine, non c’è senso nel mondo in cui viviamo. Ci troviamo in un universo indifferente, che non è fatto per noi — che sfugge al nostro controllo e che ci risulta comprensibile solo in parte. Questo ha imparato Edipo alla fine delle sue peripezie. Credeva di potere tutto con la forza della sua intelligenza; ha scoperto che brancolava nel buio e non poteva niente (Sofocle, Edipo re). Ma alla fine gli dei, lontani e silenziosi, lo salvano (Sofocle, Edipo a Colono). Perché?
Del resto, come fare ordine? Con le parole, naturalmente. È usando bene le parole che diamo forma e significato a ciò che ci circonda. Ma le parole sono ambigue, possono essere manipolate. Come nell’Orestea di Eschilo, in cui tutti pretendono di essere dalla parte della ragione e del giusto. Tutti, in fondo, hanno una qualche ragione da far valere. Il risultato? Clitennestra per vendicare la figlia Ifigenia uccide il marito Agamennone, e Oreste, per vendicare il padre Agamennone, uccide Clitennestra, sua madre. Impazzirà, incapace di sopportare il peso di quello che ha fatto, comprensibilmente. Apollo e Atena però lo salveranno. Perché? Del resto, basta un buon ragionamento a prevalere? Nelle Troiane di Euripide Menelao riconosce la validità delle parole di Ecuba, ma alla fine decide di salvare Elena, arbitrariamente. Inutile chiedersi perché. Il mondo è violento, il potere della ragione limitato, i confini del bene e del male troppo spesso sfumano fino a diventare indistinguibili.
Aveva ragione Platone: sono storie estreme, e forse pericolose. Ma parlano della nostra condizione, e del nostro problema, che è quello dell’azione. Per il filosofo che conosce il Bene, per il credente che segue i precetti divini, il problema non si pone quasi. Sanno che cosa è bene e quindi devono metterlo in pratica. Nelle tragedie è tutto diverso: in un mondo opaco, questi eroi, incerti e privi di punti di riferimento, non sanno dove andare, come decidere, in che modo comportarsi — «Che cosa devo fare?». Sono fragili, vulnerabili. Ma alla fine scelgono comunque di agire, anche a costo di sbagliare. Perché è solo in questo modo che possono rivendicare la loro dignità, dare un senso a quello che sono, reclamare una libertà di cui forse neppure godono. Perché facciamo quello che facciamo? Gli eroi delle tragedie non sono mai la soluzione, sono il problema. Ma intanto vivono. Sono come noi.
Polemizzando contro le interpretazioni neoclassicheggianti, Nietzsche aveva capito molto. Ma anche lui, in fondo, sognava una Grecia ideale, capace di sublimare l’assurdo e l’orrore della nostra condizione in una forma d’arte superiore, quella della tragedia appunto, in cui dolore (il dionisiaco) e compostezza (l’apollineo) trovano un inatteso equilibrio. E così gli era sfuggita la grandezza di Euripide, che Aristotele definiva «il più tragico». Per Nietzsche Euripide, l’allievo di Socrate, era colui che aveva affondato la tragedia, riservando troppa importanza alla ragione, illuso che si potesse spiegare tutto.
Ma Euripide è altro: con le sue trame contorte, i suoi personaggi sempre pronti a cavillare, e una voluta mancanza di grandezza, è quello che meglio di tutti ha saputo mostrare l’assurdo della condizione umana.
Vero, le sue storie s’infilano spesso in situazioni di stallo per venire risolte da interventi inverosimili: nella Medea la protagonista eponima, dopo aver massacrato i figli, compare trionfante sul carro del dio Sole, pronta a fuggire verso Atene, manco fosse Guerre stellari; nell’Oreste incontriamo un terzetto che ricorda i Clash di
London’s burning con Oreste (sempre lui) che sta per sgozzare Ermione, figlia di Elena, mentre Pilade ed Elettra minacciano di appiccare il fuoco al palazzo di Menelao — e sono tutti bloccati da Apollo… L’elenco potrebbe continuare. Non è detto però che Euripide non sapesse che cosa stava facendo o fosse incapace di padroneggiare le sue storie: e se questi espedienti inverosimili fossero da imputare non a difetti di composizione, bensì al desiderio di mostrare l’infondatezza del desiderio di conciliazione, del bisogno che ognuno di noi prova di vedere una ricomposizione razionale delle vicende nostre e altrui? Non sono così razionali le nostre vite.
Euripide è stato spesso accusato di essere un ateo mascherato. Ma forse è soltanto un esponente fedele del politeismo antico, consapevole della distanza che ci separa dagli dèi: sono lontani gli dèi, incomprensibili, diversamente da quanto pretendono i filosofi; non ci amano né si prendono cura di noi, come affermano invece i monoteisti; fanno semplicemente accadere ciò che noi non potevamo neppure immaginare: viviamo in un mondo che riusciamo a decifrare solo in parte, come si diceva. Aveva ragione il classicista inglese Bernard Knox: «Euripide è nato per non vivere mai in pace con sé stesso e per impedire di farlo anche al resto dell’umanità». Del resto, non è che Sofocle e Eschilo siano meno ambigui ed enigmatici. Oreste, in Eschilo, sarà assolto dalla città, ma rimane pur sempre l’assassino di sua madre e il traditore della memoria di sua sorella Ifigenia (si noti, due donne: non è un caso). Ha trionfato il bene? E davvero l’Antigone di Sofocle, la sorella del terrorista, così piena di disprezzo per le leggi della città, può rappresentare la nostra coscienza morale? Non raccontano storie edificanti questi poeti, né offrono rassicurazioni o conforto — anzi. E lì è la grandezza della tragedia, nella capacità di guardare in faccia la nostra realtà in tutta la sua sfuggente complessità.
Che cosa ricavano, allora, da queste rappresentazioni il lettore e lo spettatore? Forse aveva ragione Gorgia, uno dei protagonisti del libro di Critchley: è solo un inganno la tragedia, con le sue storie inverosimili ed esagerate. Ma è un inganno capace di liberarci dalle nostre illusioni moralistiche, rivelandoci così per quello che siamo nella nostra miseria — davvero pensiamo di sapere, di conoscere il bene e il male? — e nella nostra grandezza — sarà, ma intanto non rinunciamo alla vita e non ci arrendiamo. Agire, anche se la realtà sfugge alla nostra capacità di controllo e il rischio dell’errore è sempre presente: non c’è niente di più umano. È vero, è un inganno la tragedia, ma è un inganno in cui «chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare è più sapiente di chi non si lascia ingannare».
LA LETTURA, 9 AGOSTO 2020