Lo specchio cinese, di Maurizio Scampari
La consapevolezza di appartenere a una civiltà dal glorioso passato è parte integrante dell’identità di ogni cinese ed è alla base del sentimento di orgoglio nazionale. Unisce in un comune patriottismo i cinesi del continente e le sempre più numerose comunità all’estero.
La storia e la cultura sono state viste dai letterati confuciani per oltre due millenni come il «corretto bilanciamento di passato e presente»: riflettendo gli avvenimenti in modo oggettivo, svolgono una funzione educativa fondamentale perché offrono esempi di comportamento individuale e sociale
«Trasmetto, non creo; credo negli antichi e apprezzo la loro cultura» è una delle massime più note di Confucio (551-479 a.C.), volta a esaltare il patrimonio di conoscenze e di valori accumulato nel corso dei secoli, modello di civiltà al quale guardare con rispetto e ammirazione al fine di porsi in una linea di continuità. Quest’affermazione va integrata con una seconda: «Solo chi comprende a fondo il nuovo sulla base di un’attenta analisi di quanto è già noto è degno di diventare un maestro», che evidenzia lo spirito con cui il Saggio guardava al passato, fonte di conoscenza per comprendere appieno il presente.
La storia e la cultura sono state viste dai letterati confuciani, che hanno dominato la scena intellettuale cinese per oltre due millenni, come il «corretto bilanciamento di passato e presente», per usare le parole di Xunzi (III secolo a.C.), e sono il punto di partenza del percorso di crescita che ogni individuo deve intraprendere per elevare la propria persona. Ancor oggi la storia e le tradizioni sono per i cinesi fonte d’ispirazione, lo «specchio» ( jian) che, riflettendo gli avvenimenti in modo nitido e oggettivo, scevro da interpretazioni soggettive, svolge una funzione educativa fondamentale, fornendo esempi di comportamento individuale e sociale da emulare o, al contrario, da evitare.
I Classici sono il distillato della sapienza dei saggi sovrani del passato e del valore esemplare delle loro gesta, «offrono — ha affermato Xunzi — a chiunque li legga una visione completa del futuro, rappresentano una sicurezza per diecimila generazioni a venire; la loro influenza è immensa, il loro valore è notevole, i loro effetti benefici arrivano ovunque. (…) Cosa mai potrebbe recar maggior godimento al nostro intelletto?». L’opera per la quale Confucio riteneva sarebbe stato maggiormente ricordato non è una delle tante collezioni di precetti e aneddoti che mettono in risalto la sua statura morale, ma il Chunqiu («Primavere e autunni»), una cronistoria degli eventi succedutisi a Lu, suo paese natio, tra il 722 e il 481 a.C. Scritto in uno stile sobrio, al grande sinologo francese Édouard Chavannes (1865-1918) parve «un’arida storia priva di anima», mentre per i cinesi ha rappresentato una costante fonte di riflessione. A lungo considerato opera del Maestro, la sua influenza sulla storiografia cinese è stata immensa, avendo i suoi esegeti ritenuto che nell’essenzialità di quelle parole si celassero i princìpi più elevati del suo magistero. Il successo del Chunqiu si deve anche ai suoi commentari, il più lungo dei quali, lo Zuozhuan («Commentario di Zuo»), compilato tra il IV e il III secolo a.C. in uno stile narrativo accurato e vivido, può essere considerato l’archetipo di un genere letterario che ha portato alla nascita del romanzo storico e della storiografia.
La tradizione annalistica «delle primavere e degli autunni» non ebbe mai fine, ma ciò che maggiormente ha caratterizzato la produzione storica cinese, rendendola un unicum, sono le cosiddette Storie dinastiche ( Ershisi shi): un corpus di 24 storie che non ha pari nel patrimonio di altre grandi civiltà (25 se si considera anche quella relativa all’ultima dinastia imperiale redatta a inizio Novecento), compilato nell’arco di oltre 21 secoli, costituito da oltre 40 milioni di caratteri, con quasi 350 mila personaggi citati e 30 mila biografie. Ogni nuova dinastia redigeva la storia della precedente sulla base di resoconti e documenti ufficiali, spesso riservati, secondo un processo che si fece sempre più specializzato e burocratizzato, volto a trasmettere alla posterità un sentimento di appartenenza a una grande civiltà, le cui origini si perdevano nella notte dei tempi. Per i cinesi quest’opera monumentale rappresenta la Storia, ed è così che sono soliti chiamarla: Shi, che significa appunto «storia».
Tutto ebbe inizio nel 91 a.C., anno in cui l’astrologo di corte Sima Qian (145-86? a.C.) completò il lavoro iniziato dal padre, anche lui astrologo di corte: lo Shiji («Memorie di uno storico»), la prima narrazione concepita come storia universale del mondo, che per i cinesi dell’epoca si identificava con la propria civiltà, venendo considerate «barbare» le popolazioni al di fuori dei confini imperiali, di cui ben poco sapevano. Sima Qian utilizzò ogni trattato e documento che riuscì a reperire, ma fece ricorso anche a fonti orali, che verificò e integrò con sue osservazioni personali ricavate dai viaggi di studio che condusse in diversi luoghi dell’impero. Fissò un metodo e fornì un modello che furono seguiti, con opportuni adattamenti, per oltre due millenni. La pubblicazione dello Shiji svolse un ruolo politico importante, poiché dotò la nuova dinastia di uno strumento di legittimazione che, lungo un’interminabile sequenza di avvicendamenti dinastici, la legava ai padri fondatori della civiltà.
Col tempo la figura dello storico, così come l’aveva intesa Sima Qian, andò mutando, identificandosi sempre più con quella dell’erudito in grado di coniugare molteplici discipline e di assumere in prima persona, se necessario, responsabilità di governo. Nel 1084 vide la luce lo Zizhi tongjian («Lo specchio che riflette la storia quale ausilio per l’arte di governo»), un lavoro imponente di quasi due milioni di caratteri, nel quale il suo autore, Sima Guan (1019-1086), diretto discendente di Sima Qian, propose una lettura innovativa della storia, che andava ben oltre la riproposizione minuziosa e l’analisi degli avvenimenti, ponendo a loro commento sottili questioni inerenti alla natura umana e all’arte di governo. Quest’opera ispirò a lungo le menti più brillanti, come Zhu Xi (1130-1200) e Wang Fuzhi (1619-1692), che seppero coniugare storia, letteratura, pensiero filosofico, arte di governo e impegno politico.
Nel corso dei secoli la metafora dello «specchio» è rimasta centrale nella riflessione storiografica, anche se spesso è difficile rintracciare una fedeltà a tale principio, come nel caso di quella che può essere considerata la più importante «storia generale della Cina moderna», Zhongguo tongshi (1989-1999, edizione rivista 2004), oltre 12 milioni di caratteri, per la cui realizzazione sono stati coinvolti più di 500 studiosi sotto la direzione di Bai Shouyi (1909-2000): uno sforzo corale imponente, che ricostruisce i fatti fino al 1949, ma risente fortemente dell’influenza del pensiero marxista-leninista. L’ideologia e il clima politico hanno condizionato altri recenti lavori. La valorizzazione della tradizione e delle dottrine politiche del passato da parte del leader Xi Jinping non è esente da reinterpretazioni e adattamenti, funzionali agli obiettivi strategici della nuova classe dirigente.
Per il periodo più antico una novità rilevante, che pone le basi per un’aggiornata valutazione storica, è rappresentata dalle numerose scoperte archeologiche, che stanno fornendo una gran mole di manufatti, manoscritti e dati inediti che consentono di integrare le nostre conoscenze con il rigore dell’evidenza archeologica, questa sì «specchio» fedele della realtà delle epoche alle quali risalgono i reperti, imponendo una revisione, in taluni casi radicale, di concezioni e convinzioni che sembravano acquisite. La consapevolezza di appartenere a una civiltà dal glorioso passato è parte integrante dell’identità di ogni cinese ed è alla base del sentimento di orgoglio nazionale. Unisce in un comune patriottismo i cinesi del continente e le sempre più numerose comunità all’estero.
LA LETTURA, 2 AGOSTO 2020