Mariangela Gualtieri alle origini della poesia, di Marco Missiroli
Mariangela Gualtieri abita in un casale tra i colli di Cesena, protetto da una spalla di promontorio e da un giardino senza steccati. Si arriva da una stradina di ghiaia che sfocia nell’aia della poetessa. Il navigatore satellitare non identifica il luogo e per raggiungerlo bisogna seguire indicazioni che Gualtieri trasmette con cura: una chiesa, le buchette rosse della posta, tenere la destra lasciando una via bella che si vorrebbe proseguire. Il giardino è costellato dalle scenografie create dal marito Cesare Ronconi per il loro prossimo spettacolo, in sottofondo un brano di Akira Rabelais si integra al canto delle cicale. L’intervista è avvenuta via posta elettronica («Voglio essere precisa»), con l’incontro di persona che completa la conversazione durata quasi tre settimane.
A un certo punto, mentre ci accomodiamo nel grande tavolo arancione sotto il portico, Gualtieri racconta di quando lavorava in uno studio di architettura,
«Ero giovanissima, avevamo questa sede un po’ fuori da Cesena, gli orari canonici e una vita stretta. Un giorno sono uscita dall’ufficio, ero stanchissima, e nel portone principale ho notato che c’era la chiave. Li ho chiusi tutti dentro. Poi sono corsa via, liberata, saltellavo».
Un saltello come rottura. Roberto Bolaño lo chiamava punto di nascita, da cui scaturiscono liberazioni e una possibile poetica. Quando gli chiesero quale fosse il suo, lui disse di una gallina che si ritrovò vicino al letto, una mattina della sua infanzia. Lei ha un punto di nascita per eccellenza?
«Forse è in una notte d’infanzia che non ho dimenticato. Sono nel mio letto e prima di addormentarmi penso la parola sempre. La penso così intensamente che comincio a sudare freddo, terrorizzata.
«La mia immagine-madre credo sia un buio immenso, come lo si avverte da piccoli, denso e popolato, e dal buio quell’unica parola che germina, da sola, senza niente altro: sempre, sempre. Io la penetravo e lei si inabissava, portandomi via. Non svegliai mia sorella che dormiva nel letto accanto. Di certo sentii la gravità di quel momento, anche se ero una bambina molto semplice.
«Poi sono passati molti anni prima che cominciassi a scrivere. Ricordo benissimo come e quando è arrivato il primo verso. Ero appena uscita da una malattia che non mi aveva fatto dormire per quaranta giorni. Non avevo mai provato una simile prostrazione. In quello stato arrivò l’impellenza di scrivere, con la strana certezza di non avere niente di mio da dire».
Impellenza di scrivere e l’impressione di non avere nulla da dire: è un’abrasione che poteva portare al silenzio. E invece come andò? Come si mosse l’atto creativo?
«Ero già in un silenzio espressivo che durava da tutta la vita e che dovevo rompere per nascere, per non soffocare dentro il mio guscio. Cominciai inconsapevolmente con un’invocazione, proprio come i miei maestri, con quei primi versi di Antenata: “Parlami che/ io ascolto, parlami che/ mi metto seduta e ascolto,/ metto una mano sull’altra/ parlami e ascolto”. Non sapevo a chi fossero rivolti quei versi, ma c’era una forte consonanza con i morti. Gli stessi morti che nella mia infanzia sentivo presenti dietro ogni porta chiusa, dentro ogni stanza vuota, adesso erano lì, non più spaventosi come allora, ma soccorrevoli e miti. Quello strano paesaggio era connotato al femminile. Da lì quel titolo: Antenata. Dopo quell’invocazione, dopo quell’atto di fede nel niente, è arrivata una fiumana di parole che ho accolto e messo sul foglio».
Connotazione al femminile: mi sembra sia uno dei suoi nervi poetici.
«Quando qualcuno dice che sono tempi brutti, non posso fare a meno di pensare che come donna non avrei voluto vivere in nessun’altra epoca.
«Apparteniamo a una specie che ha tenuto inespressa la propria parte femminile per millenni, l’ha zittita, rinchiusa, bastonata, ignorando l’enorme massa di dolore e disarmonia che questa compressione violenta ha generato. Ignorando ancora oggi l’entità di ciò che, come specie, abbiamo perduto. Ora l’energia femminile, sia pure in una piccola parte di mondo, può avere espressione e io voglio credere che questo farà la differenza. Il mio babbo, da buon romagnolo e anticlericale, diceva che la donna è la prova che Dio esiste».
A proposito di Dio: a un certo punto chiesero a Wisława Szymborska se pregasse. Lei fece un appunto all’intervistatore: «Pregare, oltre a comporre versi, intende?». La poesia come atto religioso, non solo spirituale.
«Ho scritto che “forse la gioia è la preghiera più alta”, e ne sono convinta. Ma c’è un pensiero che ho trovato nel famoso discorso di Paul Celan e che da anni mi accompagna, un pensiero che Celan riprende da Benjamin, che a sua volta lo riprende da Malebranche (anche Adorno entra in questa catena di consegne): “L’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima”.
«La poesia, quasi precipitando da un atto di attenzione plenaria, è questo tipo di preghiera: l’io è accucciato e lascia finalmente spazio a qualcosa che parla e che ha tutta l’aria di venire da fuori, spontaneo, benché lo si sia atteso fino quasi allo sfinimento, alla nevrosi; inspiegabile e gratuito, benché ci si prepari per tutta la vita».
La parola «gioia», il suono «gioia»: rispetto alla sua storia personale e artistica assume un significato capitale.
«Un tema immenso, quello della gioia, certo legato all’infanzia, al gioco, alla pienezza del corpo che si arrampica o nuota, ma anche a Eros e alla scrittura, alla potenza di non pensare, al fare inteso come poiein, strappare al non essere, e dunque alla parola poetica. Sul piano personale la gioia è un accadimento che scoppia improvviso, non annunciato, e riguarda la consonanza fra me e tutto il resto. Ha una durata minima ma quando accade è una potenza vivificante, un’iniezione di leggerezza e dunque necessariamente legata a una sospensione del pensiero. Sul piano artistico è in una apertura, uno spalancamento a una forza pneumatica che pare soffiarci addosso, dettare, rispetto alla quale ci si spalanca, abitando la propria attenzione plenaria e insieme la propria nullità».
Walt Whitman raccontava quanto la sua poesia nascesse dal paradosso: una chiusura verso il creato e l’essere spalancato improvvisamente verso lo stesso creato. Disse che questa morsa da cui era invaso trovava risoluzione nella terra. Nella materia, nella natura. Nel «corpo naturale». Mi sembra sia uno stato vivificante — e produttivo — che forse le possa appartenere.
«Sì, certo, anche se, restando in area anglosassone di quel periodo, prediligo Gerard Hopkins ed Emily Dickinson. Credo che questo paradosso sia costitutivo dell’umano che sempre si contrappone, o pensa di contrapporsi, alla natura, e il cosiddetto creato vorremmo dominarlo, sottometterlo. In quanto donna, penso di essere più natura — mi si conceda questa semplificazione — con questa cavità al centro del mio corpo, predisposta per accogliere un nato della terra. Intendo più connessa alla terra, alla luna e al cielo, e anche a forze ctonie, forze che stanno prima e dopo la regola della ragione, così necessaria e magnifica, quest’ultima, ma anche così ingabbiante e separativa. Forse tutta la poesia nasce da questo paradosso, e lo risolve, come parola energetica nata in uno strappo della ragione, eppure ragionante, come punto in cui la parola è più vicina alla natura, perché il silenzio che la poesia tiene in sé è natura».
È per il corpo, che scaturisce il suo sentimento per il teatro?
«È difficile parlare di un grande amore, di due grandi amori, perché tutta la mia esperienza teatrale nasce e cresce con Cesare Ronconi, regista, mio maestro e mio sposo. Mi fa piacere che questa sua domanda inizi dal corpo. Fin da principio i miei versi sono nati per essere detti da precisi corpi di attrici e di attori che erano lì ad aspettarli, corpi sempre molto vivi, molto espressivi. La particolare scrittura scenica di Cesare non parte dal testo. Il suo lavoro prende forma dentro un unico giro di forze che vede crescere tutto insieme, come unico organismo multiforme. Così mi viene chiesto di cominciare a scrivere più o meno quando cominciamo a provare , e questo fa un’enorme differenza. In teatro, ogni mio verso, appena scritto, viene provato nella sua potenza orale, viene misurata la sua gittata, se casca ai piedi dell’attore o invece può percorrere un lungo tragitto e depositarsi nel cuore degli astanti.
«In questa lunga scuola di oralità, di collaudo dell’incanto fonico del verso, sono chiamata da anni dal mio regista a tenere bassa la lingua, pur tenendo alto l’argomento, e in questo la lezione di Dante è una miniera inesauribile e rigenerante».
Cesare Ronconi. E Milo De Angelis. Quali altre fondamenta?
«Due maieuti formidabili. Milo apparve, portato da un amico comune, durante le prove del nostro terzo spettacolo. Stavamo cercando poche parole da scrivere su lunghi cartigli che venivano srotolati in scena. Erano le prime parole che entravano nel nostro teatro, fino ad allora pressoché silenzioso. Milo ci consegnò pochi versi di Paul Celan e suoi. Fu un capogiro. L’irrompere nelle nostre vite di una lingua stellare, una lingua che arrivava da un altro mondo, ci abbagliava e si rivelava.
«Da lì in poi ci sarebbero stati solo versi nel nostro teatro. Quello con Milo De Angelis fu per me l’incontro con un maestro che avrei a dir poco amato per tutta la vita. Con lui ideammo una Scuola di Poesia, insolita per quei tempi, e lì incontrai i maggiori poeti italiani — Luzi, Bigongiari, Conte, Fortini, Loi, Cucchi, Sicari e altri. Ricordo la giornata passata con Fortini che mi parlò ininterrottamente per ore, con un’energia verbale che, verso le due di notte quando ci salutammo, era ancora vispissima.
«Ma soprattutto l’incontro con Franco Loi che tuttora mi è amico e guida. È a Milo che dopo qualche anno consegnai i miei primi versi alla sua severità millimetrica, al suo tribunale potrei dire. E così nacque Antenata, in una collana da lui diretta presso Nicola Crocetti e con prefazione dello stesso Franco Loi».
E prima di questi incontri, prima di tutti.
«La lingua delle mie nonne, due vecchie con le quali ho trascorso la mia infanzia. I miei genitori lavoravano bestialmente ogni giorno dell’anno, quasi ogni ora del giorno e io sono cresciuta in strada e con queste due nonne di tipologia opposta, una orchessa e una fatina sdentata. Il loro era un italiano — lingua imposta da mia madre — autogenerato dal dialetto, e dunque una lingua sgangherata, piena di invenzioni linguistiche, a volte con qualche terzina dantesca a memoria. Una lingua solenne e buffa che poi nei momenti ad alta intensità tornava dialetto, il nostro magnifico, spalancato e tenero dialetto romagnolo. Non ho mai più sentito una lingua così vicina alle potenze arcaiche della parola, così viva, sorprendente e a suo modo esatta, anche se allora me ne vergognavo. Ne ho nostalgia, come di una patria perduta».
Mi dica allora della nostra Romagna.
«La Romagna, con il suo dialetto, arriva nella mia scrittura ogni volta che voglio rompere la lingua. Nelle imprecazioni oppure nel racconto di eccessi del corpo, o anche con i suoi diminutivi e vezzeggiativi tenerissimi e buffi quando c’è un discorso all’infanzia o sull’infanzia. In questi casi mi carico addosso le mie nonne e scrivo con loro in questa lingua spalancata e ruvida nella quale uscire si dice sempre scapé, vino si dice e’ bé, il bere. E poi c’è Pascoli su di me, il Pascoli del ritratto a Maria, delle voci di tenebra azzurra o di Giugurta che a volte mi chiedo se l’ho letto o se l’ho visto tanto si incendia nella mia memoria».
E in prosa, che cosa legge?
«Domanda intima e inesauribile, come se lei mi chiedesse da chi sono stata baciata, sedotta e addirittura ingravidata. Preferisco dirle cosa ho letto in quarantena, in quello strano tempo sospeso che sembrava fatto apposta per leggere e rileggere. Il mio sconclusionato elenco comincia con l’amato Jonathan Safran Foer, con Molto forte, incredibilmente vicino che mi era a suo tempo scappato. Poi Francesco Guglieri, Leggere la terra e il cielo e qui mi sono avventurata in alcuni libri di cui l’autore parla con un fervore contagioso, tanto da indurti appunto a varie altre letture, per finire poi con Quammen che dopo un inizio entusiasmante, circa a metà libro è entrato in stallo e per ora è rimasto lì, fra i libri non portati a termine. Da tempo ormai frequento la letteratura scientifica con passione, ma ultimamente mi sono accorta che forse mi affliggono cosmogonie così deserte e gelide. Non posso stare in un universo senza miti e simboli di energie che pur essendo impastate con la mia vita la trascendono. Mi sono poi risollevata con tre autori cari — Carlo Ossola, Eugenio Borgna ed Emanuele Trevi — tre intelligenze raffinate e miti».
È vero del dizionario di italiano?
«Una delle mie letture preferite. Ne posseggo vari e a volte passo serate saltando da una parola all’altra. Ma non per cercare termini astrusi, piuttosto per precisare parole che conosco, vederle risplendere nella sintetica definizione del dizionario, o illuminate dal loro etimo, venire più vicine. Oppure annoto termini che tanto mi ricordano la lingua delle nonne, termini non comuni ma semplici e sorprendenti, al limite del gergale».
Liturgia di lettura. E liturgia di scrittura: come lavora, Mariangela Gualtieri?
«In genere studio e scrivo stando seduta a terra, su un grande tappeto, in una stanza di casa mia quasi vuota. L’inverno scorso, con il mio nipotino abbiamo scoperto non lontano da casa una quercia con un grosso ramo comodo e ben raggiungibile e alcune poesie le ho scritte sulla quercia. Poi, passato il freddo, sono arrivate le formiche e non è più stato possibile. A volte mi alzo la notte e scrivo, ma può accadere in ogni momento. La condizione che prediligo è essere sola, con la certezza che nessuno verrà a interrompermi. Scrivo a mano su grandi fogli, ma ho sempre con me un quaderno dello stesso tipo di carta, un quaderno che cucio io stessa con ago, filo e copertina rigida, e che ha una precisa misura, come un luogo in cui sono a mio agio. Sul quaderno annoto di tutto e quando sono in viaggio è su quello che scrivo i versi. Faccio quello che forse fa chiunque abbia un rapporto intenso con la parola: si è sempre all’erta con l’orecchio e si ha questo taccuino preziosissimo. Perderlo sarebbe la perdita di un tesoro».
Parole e questo nostro tempo presente: come cambia la sua poetica, a partire dalla lingua, se racconta l’oggi?
«Questo presente è il più assillante che io abbia vissuto. Vuole entrare in ogni verso che scrivo e mi inchioda alla contingenza, mi inchioda a Kronos.
«Ma la poesia, che pure deve appartenere al proprio tempo, è sempre anche anacronistica, inattuale, non si fa logorare dal dente di Kronos, vive al di là di quello, e deve attraversarlo incolume. Ho trovato difficoltà a contenere l’urgenza che sento di portare soccorso con i miei versi. Mi pare di stare in un mondo di affamati e assetati di parole e avverto l’impotenza di avere così poco da dare. Avverto una mancanza di parole guida, e ne sono affamata anch’io.
«Ora ho deposto ogni volontà di dire e mi sto riprendendo. Sono in un certo senso tornata a casa, cioè tornata alla mia poetica, ma sono stata fino a pochi giorni fa in una inquietudine che non provavo da tempo, in una stanchezza e deserto di me che mi ha spaventata e che per di più ritrovavo e ritrovo in tutte le persone che ho intorno. Mi è tornato in mente La so
cietà della stanchezza di Byung-Chul Han, quando in modo lapidario dice che un eccesso di prestazioni porta all’infarto dell’anima. Ma ora la mia animella è tornata. E con lei il grande risplendere e il grande tenebrare del mondo».
LA LETTURA, 19 LUGLIO 2020