Sa lota ‘e Pratobello, di Franca Menneas, presentato da Marco Piras-Keller

Sa lota ‘e Pratobello. La lotta di un popolo in difesa del proprio territorio, Ed. Domus de Janas, 2019 (Marco Piras-Keller)

Il 20 maggio 1969, manifesti affissi nei bar impongono ai pastori di Orgosolo (NU) di sgomberare, entro il 20 giugno, i pascoli del terreno comunale perché in quei terreni migliaia di soldati dell’Esercito italiano dovranno condurre esercitazioni belliche. ll territorio del centro barbaricino conta 8500 ettari, in buona parte pascoli (su Cumonale) che il Comune affitta ai pastori a prezzi molto più bassi di quelli praticati dai privati. Una risorsa decisiva per la sopravvivenza dell’economia pastorale di Orgosolo il cui patrimonio ovino, al tempo, conta circa 40’000 capi.

Pratobello è una località a sette chilometri dal paese. Negli anni ’50, probabilmente con l’idea di rendere più difficile la vita ai ‘banditi’ popolando la campagna – il fenomeno del banditismo sarà un tema amato da quotidiani e rotocalchi, soprattutto nel decennio successivo – si era abbozzato una sorta di villaggio con tanto di caserma e chiesa, per costi di 700-800 milioni di lire, rimasto poi disabitato e lasciato all’abbandono.  Probabilmente ora si individua questo aborto di villaggio fantasma come nucleo da rivitalizzare in funzione di una presenza fissa dell’esercito, per ospitare famiglie di militari, con una spesa prevista di ulteriori 180 milioni.

Fatti tutti i conti – e riducendo la cosa all’essenziale – per chi non la conosca, la vicenda della lotta di Pratobello è la mobilitazione di tutta la comunità di un paese che ha contrastato con successo il progetto dello Stato italiano di trasformare i pascoli comunali in un poligono di esercitazioni belliche permanente.

Mobilitazione e lotta fatte di assemblee in piazza, partecipate da centinaia, fino a duemila presenze nella giornata cruciale del 21 giugno, di documenti ciclostilati, di dibattiti, azioni da ‘guerriglia rurale non violenta’. Alcune fotografie, tra le numerose a corredo del testo, mostrano uomini e donne con i figli presi per mano, a piedi o con mezzi motorizzati, in marcia verso i luoghi destinati alle esercitazioni. Mobilitazione contro uno stato lontano, prevaricatore, ma adesso vicino, rappresentato da migliaia di soldati armati e equipaggiati per le manovre: da un lato, meno di 5000 abitanti di Orgosolo, compresi i neonati, dall’altra tutto l’apparato statale e migliaia di soldati.

L’autrice, Franca Menneas, di Orgosolo, scrive il suo resoconto “provando ad andare oltre la narrazione […] che se n’è fatta fino ad ora, sfatandone il mito e restituendo la cronaca di quel che è stato”: la gente ha agito per salvaguardare il proprio territorio, la propria base di sussistenza materiale e, insieme, continuare a godere di quel contesto naturale, cornice per la propria esistenza quotidiana. Chi porrà la lotta su basi decisamente politico-ideologiche, mirando oltre la congiuntura del momento, e che animerà la mobilitazione, è il Circolo giovanile di Orgosolo, non di soli giovani, che si costituisce nell’aprile 1967, e nel novembre del ’68, in occasione della lotta contro l’idea governativa di creare un Parco del Gennargentu, proclamerà La Repubblica di Orgosolo. Scrive a questo proposito Eliseo Spiga (La sardità come Utopia. Note di un cospiratore, CUEC 2006 pp. 53-54)

“Le quattro giornate di Orgosolo rappresentano la manifestazione di spirito comunitario più importante degli ultimi trentacinque anni, se non di tutto il dopoguerra. Furono quattro giorni di assemblee popolari, svoltesi nei locali del comune dai quali erano stati sloggiati Sindaco, Giunta e Consiglio comunali, di scioperi, di cortei, e di altre iniziative. Dallo spirito comunitario scaturivano naturalmente l’antiautoritarismo radicale che evocava i principi di una nuova democrazia e l’affermazione dei valori di giustizia che attaccavano direttamente il vigente regime proprietario della terra e delle altre risorse. L’affitto dei terreni a pascolo, in primo luogo, ma anche il pericolo di grandi espropri rappresentato dal primo progetto di Parco del Gennargentu”.

Certamente, il Circolo divenne, in quegli anni della seconda metà degli anni ’60 del 900, la voce critica di rilevamento e denuncia dei problemi di Orgosolo, riguardanti anche il rapporto con gli industriali caseari, l’economia pastorale in generale, ma anche i temi della scuola, la disoccupazione, le infrastrutture del paese, la condizione femminile e altro ancora. Per il Circolo, la Lotta di Pratobello assume anche il senso di una lotta anticolonialista e antimilitarista contro la massiccia militarizzazione della Sardegna e le servitù militari.

La prima grande battaglia sulla spinta del Circolo, contro il progetto del Parco, nominalmente “a protezione di Fauna flora e erbe officinali” coinvolgerà gran parte dei comuni della provincia di Nuoro. Il progetto viene individuato dalla popolazione, e dal Circolo in particolare, come l’ennesimo attacco al mondo pastorale, e concepito come una sorta di riserva indiana, “a protezione dei mufloni ma contro gli uomini”. Siamo, si è detto, in epoca di fioritura del ‘banditismo sardo’, e si cerca un modo praticabile per togliere la terra e l’erba sotto i piedi a pecore e a pastori: all’economia pastorale, infine. Il Parco è l’idea meno cruenta ma, in fondo, la più ‘intelligente’ ideata fino ad allora per stanare i banditi; assai più garbata rispetto alle proposte comparse su giornali e riviste settoriali italiane: usare i lanciafiamme, i gas, come fece l’Esercito italiano nella guerra coloniale in Africa, ricorrere alle tattiche utilizzate dalla Whermacht nazista contro la lotta partigiana o al Napalm come in Vietnam.

Un’idea fissa degli occupanti di turno, già dai tempi dei romani, quando il Console Marcus Pomponio Matho, nel 231 a. Ch., promosse la repressione di alcuni gruppi indigeni della Sardegna, ricorrendo, come arma strategica alle ‘unità cinofile legionarie’ con i feroci cani molossi ausiliari. Roma, a un certo punto, pensò che era troppo dispendioso intestardirsi a sterminare i resistenti. Si preferì circondarli di un cordone di isolamento così come l’Imperatore Adriano, non interessato a sottomettere i Picti (che non sono quelli di Bravehearth), ma a impedirne le bardane nelle terre acquisite dai Romani nella Britannia, provò a confinarli dall’altra parte del Vallo di Adriano, una muraglia con fortificazioni di oltre 100 chilometri (II sec. d. Ch), provando a stabilire un saldo confine alle terre conquistate all’Impero.

Cresciuta a Orgosolo, Franca Menneas ha vissuto il racconto dei fatti di Pratobello attraverso le immagini fotografate, i filmati, le testimonianze scritte del tempo e le interviste da lei fatte a chi ai fatti era presente. E, certamente, il resoconto che ne risulta è il più ampio e completo di quell’episodio di storia sarda, tra quelli proposti fino a oggi. Con ciò, l’Autrice adempie al suo desiderio e intento, dichiarato nell’introduzione, di rinsaldare la memoria di quei fatti, documentandoli, di metterli a disposizione delle giovani generazioni di Orgosolo e del grande pubblico in genere che quei fatti non conosce.

Senza andare indietro nei secoli e millenni, dove ci porta il quadro storico della Sardegna che l’autrice traccia – dai Fenici in poi, una storia di conquiste e di assedio continuo, e che ha nell’ Editto delle chiudende savoiardo del 1832 un episodio chiave per l’assetto della proprietà dei terreni, che è all’origine di molto del malessere del centro della Sardegna e non solo – nel 1931 si registra un importante episodio a difesa del Cumonale. Il podestà e altri dipendenti dell’amministrazione progettano una sorta di permuta per cui i migliori pascoli sarebbero andati al Demanio statale (salvo successiva alienazione, più o meno sottobanco, a signorotti locali); in cambio il Comune avrebbe ricevuto terreni poveri infruttiferi, accidentati. Quella volta si resero protagoniste le donne che entrarono nel Municipio, cacciarono gli amministratori e ci si chiusero dentro per tre giorni. Mussolini ordinò arresti, confino, ma, intanto, la permuta-truffa non si fece.

Parallelamente al quadro storico, l’Autrice dà conto degli studi  socio-antropologici che hanno interessato Orgosolo e la Sardegna, a partire dagli studi etnocentrici (o, senza badare troppo alle forme della correttezza politica, da dirsi ‘razzisti’) di Niceforo e Lombroso (il sardo ‘necessariamente’ delinque: la tendenza è insita nella sua etnia e la forma del cranio ne è segno e prova evidente). Il contributo più serio di studio della società orgolese è il pregevole lavoro di ricerca sul campo, degli anni ’50, dell’antropologo Franco Cagnetta, del quale lavoro Menneas fornisce un ampio resoconto. L’antropologo, oltre a andare alla ricerca dei tratti distintivi della comunità, delle regole che ne guidano le relazioni interne, delle condizioni storiche che hanno determinato la situazione del tempo, individua ritardi e inadempienze gravi oltre a numerosi abusi nella presenza dello Stato in quel territorio. I resoconti a stampa dell’inchiesta di Cagnetta, pubblicati prima in francese, appena comparvero in italiano vennero sequestrati su denuncia dell’allora Ministro dell’Interno Scelba. La questione divenne oggetto addirittura di dibattito parlamentare che portò al dissequestro della pubblicazione.

Degli stessi anni, importante anch’essa per la conoscenza delle dinamiche comunitarie, in specifico quanto ai contrasti e conflitti intracomunitari, è La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, del giurista Antonio Pigliaru.

Ancora dopo lo studio di Cagnetta, il quale auspica un approccio da parte dello Stato alla condizione di malessere sociale barbaricino, diverso da quello fino a allora praticato, compaiono altre proposte di soluzione, come detto: gas venefici, lanciafiamme, napalm. La presenza umana nel centro della Sardegna, in particolare quella dei pastori, è vista e descritta, talvolta, come una infestazione da insetti nocivi, perlomeno fastidiosi, dunque da disinfestare, quale che sia il modo. Fortunatamente giudicati non praticabili quelli più cruenti e venefici, si prospettano metodi più garbati: l’istituzione di un parco, prima, e fallito quello, la collocazione di un poligono di tiro permanente dell’Esercito.

Dunque, seguendo il limpido racconto tracciato dall’Autrice e avvicinandoci al centro della vicenda Pratobello, che avrà il suo apice tra maggio e giugno 1969, la situazione comincia a riscaldarsi già a Aprile, quando si era avuta notizia del programma di esercitazioni. È il Circolo che si incarica, con la distribuzione di mille volantini ciclostilati, di informare la popolazione e di convocare assemblee. Le esercitazioni vengono percepite da tanti come vendetta dello Stato per l’opposizione alla creazione del Parco.

Ciò che torna ripetutamente nei volantini, nei resoconti delle assemblee – di tali documenti e dei resoconti della stampa, l’Autrice fornisce un’ampia riproduzione – è l’accusa alla Regione Sardegna, all’Esercito, allo Stato, che tutto si faccia senza consultare la popolazione toccata dai progetti. La preoccupazione maggiore del Circolo è proprio che ogni cosa che riguardi Orgosolo, ogni prospettiva di cambiamento dello status esistente debba essere oggetto di consultazione con la popolazione.

Sotto la guida del Circolo, si studiano, in riunioni e assemblee, i modi per opporsi alle esercitazioni. Partiti e sindacati si muovono con circospezione, puntando soprattutto al confronto istituzionale e a una mediazione. Tale che sindacalisti e partiti vengono, a più riprese, accusati nelle assemblee e nei documenti del Circolo, di rinnegare la volontà popolare. La popolazione non ha delegato alcuno a rappresentarla e rappresenta sé stessa con la le proprie decisioni prese nelle assemblee.  Per la prima volta, in Orgosolo, nelle assemblee cominciano a comparire e a parlare anche le donne.

Mentre ciò avviene a Orgosolo, le amministrazioni dei comuni vicini e la Regione, lungi dal solidarizzare con Orgosolo, danno il benvenuto all’esercito. Una gran massa di militari rappresenta un’opportunità di guadagno (attività commerciali, locazioni, servizi vari). L’autrice, sempre al fine di non mitizzare ‘la lotta’, non solo fa riferimento all’isolamento di Orgosolo, ma anche a divisioni all’interno della comunità paesana. Per contro, è interessante notare, come, pure, capita quando siano in gioco certe questioni, cadono i netti confini ideologici e partitici, altrimenti non si capirebbe perché Orgosolo, da sempre democristiana, abbia reagito in maniera piuttosto compatta e maggioritaria al Progetto Pratobello promosso da un governo democristiano.

Le giornate della Lotta

Nella descrizione delle giornate di lotta, l’Autrice si attiene alla cronaca dei fatti, così come registrati nelle testimonianze del tempo, e alle interviste da lei condotte di fonti che vissero in diretta quelle giornate. Pur senza indulgere al romanzesco, alla retorica ‘populista’ o alla mitizzazione, fa un limpido resoconto capace, comunque, di dare al testo un ritmo ‘narrativo’ catturante. 

Già dall’alba, gran parte della popolazione, compresi bambini al seguito dei genitori, con mezzi motorizzati e a piedi, si riversa nelle campagne destinate alle esercitazioni. Le forze dell’ordine mettono in atto blocchi, sbarrano le strade, eseguono dei fermi ma risultano impotenti a fermare le centinaia di dimostranti che riescono a superare o aggirare gli sbarramenti e a disperdersi nella campagna, rendendo impossibili i tiri e le manovre. Vengono sabotati anche chilometri di fili per i collegamenti telefonici dei reparti dell’esercito. Chi occupa i campi viene braccato dai militari, ma i paesani, esperti del territorio, hanno buon gioco a sfuggire alla cattura. Le giovani per la prima volta indossano i pantaloni, per meglio muoversi sul terreno.  In una giornata vengono fermate 600 persone e costrette entro uno schieramento di militari, una sorta di campo di detenzione all’aperto. Da questo campo di concentramento sui generis alle donne viene concesso di uscire ma il rifiuto è generale perché si è coscienti che la presenza delle donne diventa una garanzia per gli uomini, per evitare confronti fisici e possibili usi e abusi della forza. C’è anche spazio per confronti dialettici tra orgolesi e militari, come mostra anche la documentazione fotografica, e non manca, tra questi, chi mostra di comprendere i motivi della protesta.

La sera si ritorna in paese, pronti per l’assemblea in piazza, per tirare le somme della giornata di lotta e decidere la strategia per l’indomani. La popolazione viene informata sugli spostamenti dei soldati, riceve avvisi e segnali di adunata per mezzo del banditore del comune e quando al banditore comunale viene proibita tale funzione, la chiamata alla mobilitazione avviene attraverso altoparlanti che rimandano la musica de su ballu tundu.

 

Gli esiti della Lotta

In quei giorni, la rivolta di Orgosolo viene presentata dai principali organi di stampa dell’Isola come l’azione fomentata da esagitati insensati, e si chiedono, addirittura, “se Orgosolo sia in Cina o in Sardegna”. Naturalmente, alla luce dei citati metodi invocati da qualcuno sulla stampa ‘nazionale’ per stanare i banditi, gli stessi giornali non si erano chiesti, volta per volta, se Orgosolo e la Barbagia fossero in Eritrea, fossero oggetto di rappresaglie naziste in una guerra partigiana, o fossero abitati da Vietcong da stanare con Napalm e lanciafiamme, invece che nell’Italia del boom economico.

Nessuna solidarietà dalle amministrazioni dei comuni vicini o dalla Regione, si è detto. Solo alcuni intellettuali, soprattutto dell’area dell’allora Circolo Città e Campagna firmano un documento di solidarietà con la lotta di Orgosolo e, a titolo personale, il senatore Emilio Lussu manifesta con un telegramma il suo sostegno contro la “provocazione colonialista” che riporta “al periodo fascista”. Non mancarono neppure singole persone di comuni vicini che parteciparono alla mobilitazione: rimane memoria di un camionista di Mamoiada che col suo mezzo traghettava a monte carichi di orgolesi, facendo la spola tra paese e campagna. Tanti che vollero essere presenti, arrivando da altri comuni e zone, incapparono nei blocchi stradali disposti dalle forze dell’ordine e impediti di arrivare sul ‘teatro di guerra’.

Tutti capiscono, gli orgolesi per primi, che una tale mobilitazione non può durare a lungo; bisogna badare alle greggi per la conservazione delle quali si conduce la lotta. Le pecore devono mangiare e essere munte ogni giorno, tanto per rimanere sul reale. L’invio a Roma di una delegazione di parlamentari, rappresentanti di partiti ma anche di pastori e di un membro del Circolo, sembra, a un certo punto, una proposta ragionevole. Gli accordi che scaturiscono dall’incontro soddisfano solo in parte ma sono già un risultato importante: intanto, il Cumonale rimarrà proprietà della comunità e non finirà al Demanio dello Stato; viene data l’assicurazione che non ci sarà una presenza stabile dell’esercito ma solo temporanea con, in più, una drastica riduzione dell’area interessata alle manovre; verranno concessi ai pastori indennizzi più adeguati di quelli precedentemente proposti, valutati e stabiliti mediante consultazione con i pastori; l’approvvigionamento per la truppa, per quanto stazionerà in loco, verrà fornita da Orgosolo. Vengono costituite quattro commissioni deputate a verificare il rispetto degli accordi sui singoli punti.

Il Circolo vede nell’intesa, accettata dai più, un’occasione perduta per condurre una battaglia ideale che uscisse dai confini di Orgosolo e che mettesse in discussione la massiccia occupazione militare in tutta la Sardegna e, contestualmente, per promuovere una crescita della coscienza politica, superando la pura contingenza ‘materiale’.  Ma, vista la necessità di accudire le greggi, sarebbe stato impossibile, salvo cambiare completamente metodi e strategie, condurre la lotta a oltranza.

Restano gli strascichi giudiziari, le denunce, i processi per decine di partecipanti ai ‘moti’, riguardanti anche la diffusione di volantini senza autorizzazione. Alla fine il tutto si concluderà con assoluzioni.

Che cosa rimane di Pratobello ?

Se l’obiettivo dello Stato era quello di militarizzare il territorio, di dare un colpo all’economia pastorale, obiettivo pervicacemente inseguito da tutti gli eserciti di occupazione, a partire dai Romani, ebbene, questo obiettivo non fu raggiunto. La lotta degli orgolesi oltre a conseguire l’obiettivo della salvaguardia del territorio, si rivelerà “un momento fondamentale per il paese, perché determinerà dei cambiamenti destinati a ridefinire la fisionomia e i comportamenti sociali di tutta la comunità”. È la prima occasione nella quale la comunità comincia a riflettere seriamente sulla propria condizione in quanto comunità, sui servizi e sulle infrastrutture, sui problemi del lavoro, sulla scuola, sui valori che essa trasmette e su quelli che dovrebbe trasmettere; si comincia a sentire la necessità di interessarsi e vigilare sull’amministrazione della cosa pubblica; si acquisisce la coscienza che la comunità unita ha una grande forza. Una considerazione speciale, che occupa molte pagine, viene riservata alla condizione femminile: “Le donne hanno sempre avuto un ruolo attivo all’interno della società per assicurare il bene comune, ma fino ad allora non avevano mai avuto un ruolo politico nella gestione della cosa pubblica: la politica era un compito riservato solo ed esclusivamente al genere maschile”. Lungi dal volere essere una nota di colore: da allora, le donne cominciarono a scegliere se e quando portare i pantaloni o le sottane. Anche i numerosi murales, al di là del giudizio estetico che se ne può dare, rimangono un’importante testimonianza della lotta, quelli del tempo e quelli realizzati negli anni a seguire.

Uno degli strascichi fu il trasferimento a altra sede dell’insegnante Del Casino, animatore del Circolo e autore dei primi murales di Orgosolo. Alcuni altri animatori, insegnanti precari, furono licenziati. Ciò che dimostra che anche lo Stato ha e applica un proprio Codice della vendetta e di ritorsione.

 

A partire dall’occupazione romana, dunque, il filo conduttore è sempre lo stesso, un perenne stato di assedio delle zone centrali dell’Isola, forse economicamente di scarso interesse per gli assedianti di turno ma con una presenza umana fastidiosa difficile da eliminare o da disperdere. Erano più interessati ai porti, base per i commerci, i Fenici; ai minerali, al grano e alla posizione strategico militare i Romani; a sudditi da tassare i Catalani e gli Aragonesi, nonché ancora a minerali. E, infine, i Savoia, anch‘essi a sudditi da tassare, alle risorse minerarie da sfruttare, a ampliare i ristretti confini del Regno.

L’obiettivo di inserire un elemento dirompente nel territorio e nell’economia pastorale è stato meglio raggiunto, almeno in parte e non tanto e solo per Orgosolo, con l’assurdo impianto petrolifero di Ottana, economicamente fallimentare, cui fa opportunamente riferimento la Menneas. Ottana fu frutto dell’indagine parlamentare della Commissione Medici, guarda caso istituita poco dopo Pratobello. La commissione dichiara ‘onestamente’ che individua nella struttura economica pastorale del Centro Sardegna un ostacolo allo sviluppo ‘civile’ e un terreno fertile per la criminalità; e dunque bisogna in qualche modo scalzarla. Il golpe di Ottana, uno studio egregio di Giovanni Columbu (Edito dalla Facoltà di Architettura di Milano, 1975), fornisce un’esemplare analisi e documentazione su quest’altra vicenda. A proposito di Ottana, ma non solo, Antonello Satta (Voci dal sottosuolo: Barbagia. Jacka Book 1991) parla di “fabbriche costruite a bocca di bandito, con il proposito dichiarato di trasformare o uccidere la vecchia cultura agropastorale”. Né ci attardiamo a spiegare la bellissima metafora.

Ancora fresche nella memoria sono le proteste mediante dolorosi sversamenti sul terreno di fiumi di prezioso latte ovino da parte dei pastori, costretti a cederlo alle aziende di trasformazione a prezzi da fame.

Franca Menneas, di Orgosolo (NU), laureata all’Università di Bologna in Storia contemporanea (2004), collabora con il regista Guido Chiesa alla sceneggiatura di Lavorare con lentezza (2003). Consegue un Master in Economia No profit e Cooperazione internazionale all’Università di Ferrara e, trasferitasi a Londra, per tre anni collabora con ONG impegnate in progetti di educazione e di integrazione. Dal 2010 vive e lavora a Bologna. Impegnata come attivista di Amnesty International, collabora alle attività del Circolo Sardegna, centro dei sardi di fuori, dell’Emilia Romagna. Nel 2015 ha pubblicato per Pendragon Omicidio Francesco Lorusso: una storia di Giustizia negata, una rivisitazione del periodo di agitazioni studentesche a Bologna che portarono all’uccisione dello studente Francesco Lorusso e al Movimento del ‘77.

 

 

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