PIERO MARRAS: «Canto la mia terra ribaltando i cliché»

Dal Teatro Menhir del Parco dei Suoni riolese, sabato sera, Piero Marras ha salutato l’estate 2020 con un concerto ad alta intensità, di quelli destinati a rimanere a lungo nel cuore dei presenti, di quelli che regalano emozioni forti e suscitano innumerevoli spunti di riflessione. “Il mio canto libero”, il titolo del cartellone proposto dal direttore artistico di Rete Sinis Ivo Zoncu, è stato la costante degli eventi andati in scena per oltre un mese dal suggestivo palco del Parco dei Suoni. Spettacoli teatrali, appuntamenti letterari, musica e canzoni d’autore.

Come i testi di Piero Marras, tutti uniti da un unico filo conduttore: la libertà. Il cantautore nuorese, oltre quarant’anni di carriera all’attivo, ha dedicato la prima parte del concerto a “Storie liberate”. Si tratta di un lavoro nato dalla collaborazione dell’artista con il direttore del parco dell’Asinara Vittorio Gazale. Contiene le storie di alcuni detenuti (sardi e della penisola) ristretti nelle colonie penali isolane portate alla luce da una certosina attività di ricerca d’archivio, guidata da Gazale, durato circa tre anni.

La collaborazione tra Piero Marras e Vittorio Gazale ha portato alla realizzazione di un cofanetto contenente due cd con 17 brani inediti (in limba e in italiano) e due libri (editi da Carlo Delfino), firmati da Gazale. «L’uomo non è il suo errore…», ha detto dal palco Piero Marras dialogando con Vittorio Gazale, mutuando una frase di don Oreste Benzi riferita alla funzione che devono avere le carceri, quindi ha aggiunto: «… e il carcere deve servire a rieducare non solo a reprimere e punire».

È seguito poi il concerto che ha dato spazio ai pezzi classici e a quelli meno noti del cantautore nuorese.

Con Piero Marras sono saliti sul palco alcuni dei suoi “Compagni di strada” storici. Come Roberto Deidda (chitarra), Paolo Cocco (basso) e la new entry Alessandro Garau (batteria), musicisti con i quali Marras ha condiviso un percorso artistico lungo più di quarant’anni.

«Forse non ho avuto il massimo – dice l’interessato -, ma sono contento così. La cosa che mi inorgoglisce di più è essere fermato per strada da persone che mi stringono la mano e mi dicono: lo sa che sono cresciuto con le sue canzoni? Conquistarsi la stima delle persone nel posto in cui si abita è difficilissimo: io mi sento stimato e questo vale molto di più della fama o della ricchezza. Sono riuscito a vivere di musica scrivendo quello che mi piaceva scrivere, forse inaugurando un mestiere che veniva considerato un hobby. Poi, le occasioni ce le hai se vivi all’interno del mondo in cui si esse presentano, non hai margini. Se fai una scelta diversa, che comprende tutti quei valori non negoziabili, come la famiglia e la tua terra, sai che farai quello che ti piace fare e sarai sereno. Io ho scelto di vivere qui e di privilegiare i miei valori, e questo mi rende sereno».

Piero Marras ha vissuto da protagonista il periodo cosiddetto “cantautorale”. Quello delle varie scuole: romana, milanese, napoletana, parlando della Sardegna.

«Ho cantato la mia terra in maniera un po’ disincantata – dice -, forse anche sarcastica, sconvolgendo e capovolgendo lo stereotipo dell’isola e del sardo, che veniva visto come un individuo molto serio, schietto e sincero ma troppo introverso. Io, con le mie canzoni, ho cercato di dargli un’immagine diversa rispetto a quello stereotipo».

La scelta, per un cantautore sardo, di scrivere canzoni in lingua italiana, anche se trattavano temi legati all’isola, negli anni Ottanta poteva sembrare azzardata, invece, grazie alla bontà dei testi e alla caparbietà per Piero Marras si è rivelata vincente. Nel 1980 nasce “Stazzi Uniti”, uno dei dischi più amati dal suo pubblico. Al suo interno c’erano brani, come quello che dà il titolo al disco, che denunciavano la presenza delle basi militari della Nato in Sardegna o, con “Caro Caronte”, la difficoltà per i sardi di uscire o rientrare nell’isola.

Temi che alimentavano le discussioni negli ambienti studenteschi universitari in quegli anni e trovavano sponda in quelli di qualche partito politico, che li usava per scopi elettorali e poi li dimenticava.

«Caro Caronte è attuale oggi come lo era allora – sottolinea Piero -. Non capisco quale sia la ragione per cui i sardi non debbano godere realmente della continuità territoriale, come avviene per chi vive nella penisola»

.I compagni di viaggio di Piero Marras in quegli anni sono stati diversi, e lui li ricorda tutti con piacere.

«Ho avuto la fortuna di incontrare grandi musicisti – dice -. In Sardegna, a dispetto del numero esiguo di abitanti, c’erano autentici talenti. Ricordo Tore Corazza, grande batterista di Ozieri, che con me fece parte del gruppo 2001. Io e lui ci siamo ritrovati in mondovisione perché Tore faceva parte dell’orchestra di Renato Serio quando cantai davanti a Giovanni Paolo II, in vaticano, con Dionne Warwick. Ma ci sono stati molti altri musicisti di grande livello, come Franco Montalbano, Ciccio Solinas (che non c’è più), Francesco Soggiu, Pierfrancesco Loche, Paolo Cocco e Roberto Deidda. Gli ultimi due, con Alessandro Garau, al Parco dei Suoni, hanno ripercorso, attraverso una quindicina di brani, i primi quarant’anni di musica d’autore che hanno caratterizzato la splendida carriera di Piero Marras.

La Nuova Sardegna, 14 settembre 2020

 

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