IL DIBATTITO SULLA RIFORMA DELLA SANITÀ IN SARDEGNA: ALCUNE CONSIDERAZIONI CRITICHE, di Mario Budroni e Antonio Saba
Premessa – Modelli di riferimento del sistema sanitario in Sardegna – La legge di riforma approvata in Consiglio regionale – Proposte per una riorganizzazione e un’equa distribuzione dei compiti fra territorio e ospedale – Conclusioni.
Nella foto: il vecchio Ospedale Civile, dell’Annunziata, in Sassari.
Premessa. Martedì 1 settembre è stata votata a maggioranza, dal Consiglio regionale della Sardegna, la legge di riforma della Sanità che ne ridisegna la struttura e abroga nel frattempo la precedente. Si rispetta cosi la tradizione che vede ciascuna maggioranza di governo votarsi la propria legge escludendo, di fatto, una qualsivoglia continuità normativa e garantendo così un impatto – negativo – sull’utenza e sugli operatori sanitari che, con scadenza fissa, devono rivedere i loro riferimenti assistenziali, i primi e la dirigenza, i secondi. La riforma segna il passaggio dall’ATS (Azienda Tutela della Salute) all’ARES (Agenzia Regionale Sanitaria).
Modelli di riferimento del sistema sanitario in Sardegna. La prima è mutuata dalla Lombardia, una regione con 10.060.574 abitanti, dove furono istituite otto ATS che comprendevano vasti territori con numero di abitanti molto diverso fino ad arrivare all’ATS di Milano, città metropolitana, con 3.400.000 abitanti. Il modello lombardo è pensato per favorire l’ingresso dei privati nel servizio sanitario. Il primo effetto di questa riforma è stato la creazione di un mercato della sanità, in cui la regione regola i servizi affidando l’erogazione ad aziende pubbliche e private, in concorrenza tra loro. La funzione di erogazione è stata separata dalle altre in modo che potesse essere contesa dai privati e affidata sempre di più ad essi. Il ruolo della Regione diventa quello di committente che acquista servizi da erogatori pubblici e privati, tutti considerati su un piano di parità. Le ATS diventano aziende gestite in modo manageriale e i privati gestiscono i servizi con l’unico obiettivo del profitto. Il secondo effetto è che la sanità lombarda diventa ospedalocentrica. I privati che contendono i servizi sono di solito ospedali e quindi questi diventano il nocciolo attorno al quale si sviluppa la riforma della sanità lombarda. Le strutture pubbliche tendono a non erogare direttamente servizi al cittadino e ridimensionano le attività di prevenzione. Le ATS si occupano degli erogatori negoziando le condizioni di servizio con i gestori pubblici e privati e li pagano per conto della Regione. Le ATS perdono le funzioni di servizi territoriali assumendo quella di centro amministrativo del sistema.
I punti di forza di questo modello di sanità sono l’alta professionalità raggiunta negli ospedali con grande capacità di attrazione a livello nazionale e la non commistione tra pubblico e privato con l’assenza di conflitto d’interesse dei medici che avviene invece nel resto del paese. Il punto di debolezza è la quasi totale assenza di servizi territoriali che si è evidenziato tragicamente nel corso della fase acuta dell’epidemia Covid-Sars2. L’ARES è invece mutuata dal Veneto, dove le funzioni attribuite all’ARES sono volte dall’Azienda zero e sono le principali attività di gestione tecnico-amministrativa su scala regionale principalmente di committenza, di gestione degli appalti, del personale delle ASL e di omogeneizzazione dei bilanci.
Il Veneto ha 4.907.704 abitanti, sei province, una città metropolitana e nove USSL che coprono in media un territorio con mezzo milione di abitanti. Per quanto riguarda gli ospedali ci sono tre centri d’eccellenza, un ospedale hub per provincia con un bacino d’utenza di circa 700.000 abitanti, dove sono collocate tutte le specialità ospedaliere con garanzia di risposta per le medio-alte specialità e di supporto per la rete degli ospedali definiti spoke, tarati ognuno per fornire assistenza a una popolazione di circa 200 mila abitanti ciascuno. Gli elementi cardine del nuovo modello assistenziale sono le forme di raggruppamento complesse delle cure primarie (garantite dai medici di medicina generale) e le strutture di ricovero intermedie (Ospedali di Comunità, Unità Riabilitative Territoriali e Hospice per malati terminali). Punto di forza del modello è sicuramente l’integrazione tra ospedale e territorio; punto di debolezza il ritardo nella riorganizzazione del territorio. La Lombardia ha una densità abitativa di 426 abitanti per Kmq, il Veneto ha una densità di 268/Kmq e la Sardegna di 69/Kmq. Questo dato da solo dovrebbe far riflettere sulla difficoltà di importare modelli di gestione difficilmente compatibili.
La legge di riforma approvata in Consiglio regionale. La legge prevede: l’agenzia regionale per la sanità (ARES), tre aziende ospedaliere, un’azienda per l’emergenza e otto ASL. Due di queste, Cagliari e Sassari, includono metà della popolazione dell’isola, le restanti avranno un bacino d’utenza medio di poco superiore a 100.000 abitanti. Una frammentazione del genere non ha nessuna utilità dal punto di vista sanitario ma è segnale dell’incapacità della politica di gestire i campanilismi e dell’intromissione della stessa nella gestione non solo amministrativa ma anche tecnica delle ASL.
La precedente riforma era caratterizzata da una chiara centralizzazione della governance e quella appena promulgata vorrebbe decentrarla. Se la prima aspirava a “efficientare” il sistema pur nel rispetto dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), la seconda vorrebbe “avvicinare” ai cittadini governo e servizi. La lettura del corposo articolato (48 articoli) evidenzia la volontà di modifica dell’intero sistema con chiari riferimenti ad altre esperienze regionali – vedi il Veneto – ma con oscuri presagi sulle ricadute che avrà sull’utenza, soprattutto in termini di modifica degli indicatori d’impatto sanitario. Indicatori, per citarne solo alcuni, che già da qualche tempo marcano deficit: alimentazione scorretta e aumento dell’obesità, inadeguata attività fisica, ridotte coperture di alcune vaccinazioni, screening oncologici inadeguati nell’entità e nei tempi. È nota l’eccedenza delle malattie non trasmissibili che riducono la vita in buona salute negli over sessantacinque anni, così come l’eccesso di mortalità per tumore nella nostra popolazione. Non si capisce come l’ARES di nuova istituzione possa migliorare, più della vecchia ATS, gli indicatori di salute, o l’eccessiva migrazione sanitaria per patologie chirurgiche e mediche, verso altre Regioni più performanti in termini di efficacia e quindi di risultati.
Dubitiamo che la presenza in loco dei nuovi/vecchi otto direttori generali, sanitari, amministrativi (sono 24) – ognuno con il proprio pigmalione – possano migliorare le attività distrettuali di assistenza territoriale, storicamente carenti per la mancata adesione a una visione non ospedalizzata dell’assistenza e la conseguente mancata crescita in sensibilità, culturale e professionale degli operatori. L’inversione di questa tendenza dovrebbe avvenire coniugando verbi come quelli più volte ripetuti (coordinare, integrare, coinvolgere) che gli operatori leggono ormai da decenni e che, almeno da noi, restano vuoti per mancanza dei meccanismi operativi che ne favoriscano l’attuazione. Non è esplicitato come la vicinanza alla gente dei direttori e dei loro politici di riferimento dovrebbe facilitare la chiusura dei piccoli ospedali, notoriamente inefficienti, o la loro riconversione, peraltro annunciata, ma mai decisamente attivata anche nel recente passato. Verrebbe spontaneo dubitare, se prendiamo atto di una forte disoccupazione e della mancanza di alternative produttive all’azienda salute che spesso, nei nostri territori, è la più importante, se non l’unica fonte di lavoro e di reddito sicuro. La tendenza della legge a potenziare la volontà dei territori – di dimensioni e popolazione esigua, se si escludono i centri di Cagliari e di Sassari – rischia di impregnare di “localismo” responsabilità e funzioni che richiedono alte professionalità, esperienze consolidate e adeguata autorevolezza. Rischia altresì di esaltare il rapporto, spesso di sudditanza, tra l’organo politico e le direzioni ASSL, tarando in basso scelte tecniche e prospettive.
È grave e rilevante la mancata proposta di omogeneizzazione, tra le varie ASSL, dei LEA già ora non rispettata dalla Regione Sardegna nella maggior parte delle misure indicate dal Ministero. Non viene proposta una soluzione per la sempre più iniqua e asimmetrica accessibilità ai servizi sanitari, più favorevole agli utenti delle ASSL più grandi. L’affermazione più volta ribadita di “voler introdurre qualità, una medicina più vicina ai cittadini con la collaborazione degli enti locali” rischia di rimanere una semplice enunciazione d’intenti.
Proposte per una riorganizzazione e un’equa distribuzione dei compiti fra territorio e ospedale. Il decreto ministeriale n° 70 del 02/04/2015 indica la dotazione di posti letto rispetto alla popolazione residente che dovrebbe essere di 3,7 posti letto per 1000 abitanti, comprendendo anche quelli per lungodegenti (0,7/1000 ab.). Il numero dei posti letto e degli ospedali rispetto al passato è diminuito in Italia e altri paesi europei non solo per frenare la crescita della spesa sanitaria, ma perché si è modificato il bisogno di salute della popolazione. In tutta Europa la popolazione è invecchiata e il bisogno di cure è soprattutto legato a malattie croniche che in buona parte possono essere seguite fuori dall’ospedale con ottimi risultati e minor impegno organizzativo. Rispetto a questo parametro la Sardegna si è lentamente allineata e oggi possiamo dire che esistono un lieve eccesso dei posti letto per acuti rispetto ai lungodegenti e una disomogeneità nella distribuzione geografica degli stessi. Esistono indicatori utilizzati a livello nazionale e internazionale per capire il buon funzionamento o meno degli ospedali. Sono disponibili diversi indicatori ma ci possiamo fermare ai quattro più rilevanti che sono: il tasso di ospedalizzazione, la degenza media, l’Indice Comparativo di Performance (ICP) e l’Indice Case-Mix (ICM). In tutti gli ospedali dell’isola non sono conformi agli standard accettati a livello nazionale. Di conseguenza si ha un numero elevato di ricoveri inappropriati.
La prima cosa da fare dovrebbe essere alleggerire l’ospedale dai pazienti lungodegenti e non autosufficienti che dovrebbero trovare ricovero in strutture territoriali. Il secondo problema riguarda le visite ambulatoriali: attualmente svolte in ospedale per la quasi totalità, dovrebbero essere demandate in buona parte ai medici del territorio. L’ospedale dovrebbe quindi dedicarsi a migliorare la qualità dei servizi anche attraverso corsi di formazione continua del personale. Dovrebbe differenziare l’attività in modo complementare per evitare doppioni, avere bacini d’utenza adeguati e offrire risposta a tutti i bisogni di salute della popolazione. Sarebbe molto utile l’informatizzazione sia a livello d’ospedale sia di territorio e avere disponibile la cartella elettronica in modo che ciascun medico che visita un paziente abbia a disposizione tutta la storia clinica. Attualmente l’attività degli operatori sanitari del territorio è gravata da un peso eccessivo d’incombenze burocratiche e da una tendenza a demandare all’ospedale la gestione dei pazienti.
Anche attività di prevenzione classicamente da svolgere nel territorio sono svolte a livello ospedaliero. Mi riferisco agli screening dei tumori della mammella, della cervice e del colon, per non dire poi dell’ospedalizzazione domiciliare, un ossimoro inventato per chi sa quali fini. Il problema del territorio è di prendersi in carico i pazienti, riportare a unità tutti i pareri che si accumulano dopo numerose visite specialistiche e parziali, assumersi la responsabilità dei percorsi diagnostici e dei piani terapeutici degli stessi pazienti. Per fare questo bisogna che i medici del territorio interrompano il lavoro solitario e inizino a lavorare in gruppo in modo da avere un confronto continuo sul lavoro, abbiano accesso diretto a tutti gli esami necessari per arrivare alla diagnosi e aumentino gli orari degli ambulatori sino a organizzarsi per rispondere alle richieste 24 ore su 24.
Conclusioni. Nell’articolo 1 della riforma regionale è detto che i Livelli Essenziali d’Assistenza (LEA) devono essere conseguiti ma non c’è nessun accenno alla misurazione; il responsabile del distretto ha il compito di raccordare il lavoro di medici di famiglia, pediatri di libera scelta e degli specialisti territoriali (art. 25) ma non ha nessuna autorità di proporre una riorganizzazione sulla base dei bisogni di salute. Temiamo quindi che l’assistenza territoriale resterà fossilizzata nell’attuale situazione. Per quanto riguarda gli ospedali non troviamo nessun accenno a una differenziazione o specializzazione degli ospedali per una miglior offerta dei servizi e una maggior qualità degli stessi. In compenso c’è un’attenzione eccessiva per il controllo politico dell’ARES: nomina del direttore generale da parte della Giunta su proposta dell’assessore, attingendo a un elenco regionale; il raggiungimento degli obiettivi è valutato dalla Regione sentiti i comitati territoriali per le ASL e la conferenza Regione-Enti Locali per le altre aziende.
L’atto aziendale, che regola le competenze e l’organizzazione delle aziende, è redatto dal direttore generale, deve poi acquisire il parere della conferenza territoriale, seguire gli indirizzi deliberati in Commissione sanità del Consiglio regionale ed essere approvato infine dalla Giunta regionale. L’ARES infine non è un’agenzia ma una struttura sovraordinata che, di fatto, ha un controllo amministrativo sulle altre aziende per le quali ha le funzioni di committenza, di gestione delle procedure di selezione del personale, gestione delle competenze economiche, gestione della situazione contributiva dello stesso, gestione dei servizi tecnici per la valutazione delle tecnologie sanitarie Health Technology Assessment (HTA); omogeneizzazione dei bilanci e gestione del patrimonio.
Allo stesso tempo, viene scritto che le ASL hanno personalità giuridica pubblica e autonomia organizzativa, amministrativa, tecnica, patrimoniale, contabile e di gestione. È presumibile che ci saranno serie difficoltà a definire i contenziosi di competenza tra ARES e aziende, soprattutto quelle ospedaliere. È detto che questa riforma riguarda la governance e che in seguito sarà affrontata la riorganizzazione degli ospedali e della medicina del territorio. Il modello organizzativo è importante ma è uno strumento che funziona bene se le persone che lo utilizzano hanno competenze e le cose da fare sono chiare e ben definite. Le priorità, quindi, dovrebbero essere ribaltate: prima definire le cose da fare, poi individuare e preparare il personale e infine riorganizzare le strutture. L’impressione più forte che resta alla fine della lettura di questa di legge di riforma è un’attenzione prevalente alla gestione politica dei servizi, ma nessuna preoccupazione per risolvere le molte criticità della sanità sarda. Il mancato approfondimento della ricerca di un percorso sardo per l’organizzazione sanitaria – e il trasferimento acritico di modelli di altre realtà diverse dalla nostra – presagiscono risultati non confortanti per la nostra sanità.
***Il dott. Mario Budroni è un medico epidemiologo, già responsabile del Servizio epidemiologico di Sassari. Il dottt. Antonio Saba è stato direttore del Servizio di igiene e sanità pubblica dell’ASL di Olbia.