Scoprirsi creta nelle mani del Creatore, di Emanuele Trevi
Nelle opere dei mistici cristiani si stagliano tutti i paradossi dell’incontro fra umano e divino.
«Così son sommersa in questo amore, tanto che altro non posso più comprendere che tutto amore, il quale liquefà tutte le midolle dell’anima e del corpo, che alcuna volta mi sento come se il corpo fusse fatto di pasta».
Trascrivo queste righe dall’ultima delle milleseicento pagine della Mistica cristiana diretta da Francesco Zambon: il primo di tre volumi di un’opera che, una volta portata a termine, promette di diventare un punto di riferimento insostituibile nella conoscenza del capitolo più affascinante e controverso della nostra storia spirituale, lungo un arco di tempo che va dal cristianesimo delle origini ai nostri giorni.
C’è da dire che nessun tipo di scrittura come quella mistica sembra adattarsi in modo così gratificante alle sistemazioni antologiche. Basterà ricordare quel vero scrigno di sapienza che sono I mistici dell’Occidente di Elémire Zolla (1963), ma anche lavori più specifici come le Scrittrici mistiche italiane di Claudio Leonardi e Giovanni Pozzi (1988).
Questa disponibilità alla frammentazione dipende forse dal fatto che la letteratura mistica si fonda sempre sul presupposto che il suo argomento centrale, ovvero il bruciante e vertiginoso contatto diretto tra l’umano e il divino, per sua natura è ineffabile, fuori dalla portata di qualsiasi linguaggio e di qualsiasi raffigurazione. E dunque, a meno di non nutrire interessi strettamente specialistici, un testo intero difficilmente «dirà» di più di un singolo capitolo o di un frammento ben selezionato.
Si tratta in ogni caso di tracce scritte di un’esperienza che non può, per definizione, essere compresa e spiegata ai propri simili nemmeno da chi la vive in prima persona. Anche nel caso fantascientifico di una mente in grado di leggere tutti i testi mistici composti nella storia umana, si troverebbe sempre di fronte a questo vuoto centrale.
Volendo ridurre la questione all’assurdo, si potrebbe anche affermare che nelle poche righe che ho citato all’inizio di questo articolo c’è tutto, come una foglia è in grado di raccontarci nel suo complesso la specie di albero a cui appartiene.
A confidarci la sua esperienza, che la riduce a una «pasta» lavorata da dita incomprensibili e trascendenti, come quelle di un fornaio metafisico, è Caterina Fieschi, nobile genovese nata verso la metà del Quattrocento, e già venerata in vita, come spesso accadeva, da una cerchia di seguaci. Non è infrequente, nella tradizione mistica, che alla scrittura vera e propria si sostituisca la dettatura, così che questi «verbali» dell’estasi ci donano quasi la sensazione del soffio della viva voce. Quanto all’italiano, ai tempi della santa genovese in tutt’Europa le lingue moderne hanno ormai da tempo soppiantato il latino nell’espressione dell’avventura mistica. Così come, a quell’epoca, è normale che sia una donna a parlare di sé, e nei modi di una testimonianza assolutamente personale.
Ma per arrivare a questa fisionomia moderna dell’esperienza mistica, il cammino è stato più lungo di quanto si potesse pensare, e bisogna leggere la bellissima introduzione di Zambon per comprendere tutte le fasi che conducono dalla più pura e astratta speculazione teologica dei primi secoli del cristianesimo al trionfo della soggettività che caratterizza le figure, ben più popolari, di una Caterina da Siena, di un Giovanni della Croce, di una Teresa di Avila, capaci non solo di accamparsi nell’immaginario popolare, ma di sedurre anche spiriti del tutto estranei alla tradizione cristiana e ai suoi dogmi.
È abbastanza comprensibile la simpatia che ispirano i mistici moderni, non fosse altro per il sospetto e l’avversione che, almeno nella fase iniziale della loro esistenza, hanno sempre suscitato nelle autorità ecclesiastiche, per non parlare delle loro famiglie e degli ambienti di appartenenza.
Se quest’ingenua esaltazione della libertà e della solitudine del mistico ha le sue ragioni e la sua dignità, non possiamo però dimenticare che il tema dell’inconoscibilità del divino, e dei limiti della ragione e del linguaggio umani, non è affatto moderno ma appartiene alle stesse Scritture. Non è forse una specie di «caligine» impenetrabile allo sguardo la forma in cui Dio appare a Mosè sul Sinai, come racconta il Libro dell’Esodo?
Fin dalle sue più remote origini, la speculazione cristiana si è interrogata sull’abisso che separa il Creatore dalle sue creature, e dunque sull’insufficienza dell’umano, che non consiste solo nella sua fatale propensione al peccato, ma in un ostacolo cognitivo che è intrinseco alla natura mortale.
Viene subito in mente il titolo di uno dei testi più affascinanti della letteratura mistica di tutti i tempi, La nube della non conoscenza, composto da un anonimo scrittore inglese del Trecento. È lì, in questa Cloude of Unknowyng che si svolge tutta intera la nostra esistenza, e non c’è illuminismo, non c’è orgoglio tecnologico che possa farci presumere che le cose, dai tempi delle prime comunità cristiane, siano veramente cambiate. Mutano solo, semmai, le manifestazioni dell’Incomprensibile, in un continuo accavallarsi di fugaci illuminazioni e puntuali frustrazioni. In questo senso, la mistica può essere considerata, nel suo complesso, una grande antropologia, una scienza del limite che innerva, via via che la secolarizzazione intacca e avvizzisce ogni idea di trascendenza, le più consapevoli e innovative esperienze artistiche della modernità.
Non è un caso che Zambon, ben consapevole di questa metamorfosi del religioso nell’estetico, concluda il suo saggio con la citazione di un grande lirico, Paul Celan, che si chiede quale sia la rivelazione più pressante e necessaria della poesia di oggi. Ebbene, afferma Celan, non si tratta di un particolare contenuto o visione del mondo, ma di «una forte inclinazione ad ammutolire».
Parole che rendono evidente, nel crollo di ogni certezza e nell’offuscarsi di ogni stella polare, l’ormai compiuta e irreversibile coincidenza del mistico e dell’artista.
LA LETTURA, 26 LUGLIO 2020