La spada che viaggiò cinquemila anni da Trebisonda a Venezia, di Annchiara Sacchi
La spada era esposta con altri oggetti «medievali» — calici, ornamenti, croci —, in una teca del Museo di San Lazzaro degli Armeni. Uno sguardo più o meno interessato e poi via, avanti veloci con la visita al monastero, unico edificio di questa piccola isola della laguna di Venezia, casa madre dell’ordine dei Mechitaristi che ogni giorno, alle 15.25, si apre a curiosi, studiosi e turisti. Tra questi, una domenica pomeriggio del novembre 2017, c’era anche Vittoria Dall’Armellina, dottoranda in Archeologia all’Università Ca’ Foscari. «Rimasi subito colpita da quella piccola arma in metallo» (è lunga 39,4 centimetri, pesa circa un chilo). La forma, le dimensioni. Le dicevano qualcosa, le ricordavano qualcosa. Medievale? «Non mi sembra, pensai». Quella giovane studiosa aveva ragione. La sua intuizione si è rivelata formidabile, la spada è ben più vecchia e ben più preziosa: risale circa al 3000 avanti Cristo, ha cinquemila anni ed è tra le più antiche al mondo.
C’è da dire che l’occhio di Vittoria era allenato. Da studentessa aveva comparato i ritrovamenti delle tombe guerriere del Caucaso, dell’Anatolia, dell’Egeo nell’Età del Bronzo (3000-1200 a. C.), da laureanda aveva studiato lo sviluppo delle spade nel Vicino Oriente antico. E quella conservata nell’isola di San Lazzaro degli Armeni era tanto, troppo simile ad alcune armi risalenti a circa cinquemila anni fa rinvenute all’interno del Palazzo Reale di Arslantepe, in Anatolia Orientale. «In effetti sono pressoché identiche». Unica differenza: le nove armi di Arslantepe, famosissime e ritenute le più antiche giunte fino a noi (circa 3000 a. C.), sono decorate in argento, mentre quella veneziana è liscia. Altra somiglianza: «Il “nostro” reperto è a prima vista accostabile anche alla spada del Museo di Tokat, in Turchia, della stessa tipologia delle altre nove, proveniente dalla regione di Sivas, l’antica Sebaste». Meglio indagare.
Vittoria è partita da una domanda semplice, rivolta ai monaci di San Lazzaro: «Scusate, sapete niente di questa spada?». Risposta: «È qui da sempre». E sì, «la fotografi pure, ma non più di uno scatto». Era solo l’inizio.
Appurato che l’arma non era registrata nel catalogo delle antichità vicino orientali del museo di San Lazzaro, e dopo un consulto con Elena Rova, professoressa di Ca’ Foscari e tutor del dottorato, Vittoria Dall’Armellina ha chiesto ai monaci armeni di potere fare analizzare il reperto: trattandosi di un oggetto in metallo, era impossibile ottenere una datazione con il carbonio 14, bisognava estrarre un campione. Dunque, serviva un permesso speciale: direttamente dall’arcieparca di Costantinopoli, Lévon Boghos Zékiyan (ex docente dell’ateneo veneziano). Autorizzazione concessa. E una grande emozione: «Quando finalmente ho visto la spada fuori dalla teca, appoggiata su un drappo rosso».
Ci vogliono tempo, tenacia, pazienza per portare a termine certi progetti (in questo caso la conclusione è arrivata dopo più di due anni dalla prima visita della dottoranda a San Lazzaro). Tanto più se si ha a che fare con una spada di cui si ignora il viaggio (perché è arrivata a Venezia?), la provenienza (da dove viene e a chi era appartenuta?), la funzione (decorativa o bellica?). Rebus difficile da risolvere, ma in questa storia entra in gioco un altro investigatore: padre Serafino Jamourlian, monaco del monastero, autore di una scoperta fondamentale nel corso dell’indagine.
Consultando gli archivi del monastero «e per puro caso, mentre cercavo tutt’altro, ho trovato una busta», racconta Serafino a Vittoria. All’interno, un bigliettino ingiallito, logoro, scritto in armeno. È del 16 marzo 2019 la mail che il monaco invia alla giovane studiosa: «Forse ho scovato un indizio sulla spada». Una nuova strada da percorrere per la dottoranda, in quella fase un po’ scoraggiata. «Era il testo di accompagnamento all’arma!», racconta entusiasta. Tradotto dall’armeno, il biglietto dice così: «Il signor Yervant Khorasandjian, che abitava a Trebisonda, manda in regalo aPa dr eGhevontAlis han, tramite Padre M in asNurik han, monaco Mechitarista, fondatore e direttore del Collegio Mechitarista di Trebisonda, una spada di bronzo, ritrovata nei pressi di Trebisonda, e precisamente a Kavak».
Dunque, considerando che padre Ghevont (Leonzio), filologo, poeta, esperto di letteratura armena, intellettuale amico di John Ruskin, morì nel 1901 e che tra 1859 e 1861 diresse il collegio Mechitarista di Parigi, possiamo dire che la spada arrivò in Laguna nella seconda metà del XIX secolo portata dal mercante d’arte e collezionista Yervant Khorasandjian che l’aveva acquistata a Kavak, non lontano da Arslantepe. Ma torniamo in laboratorio.
Sulla base delle analisi condotte sul posto (anche per un’infinita serie di limitazioni burocratiche) in collaborazione con la professoressa Ivana Angelini e il Centro di ricerca dei beni archeologici dell’Università di Padova, lo scorso autunno è arrivato il risultato: la spada di San Lazzaro è, come le altre «parenti» turche, in rame arsenicato, lega in metallo usata prima della diffusione del bronzo. Dunque questo dato e la somiglianza del reperto «veneziano» alle gemelle di Arslantepe (il cui ritrovamento è ben studiato e documentato e lì sì che è stato usato il carbonio 14, ma sul «contesto di provenienza» e cioé i pollini del Palazzo) «ci permettono di datare con sicurezza il reperto — spiega Vittoria Dall’Armellina — tra la fine del IV e l’inizio del III millennio».
Datazione accertata. Come la provenienza: simile a quella delle altre spade. In un’area geografica compresa tra l’alto corso del fiume Eufrate e la costa meridionale del Mar Nero, «ma l’analisi degli elementi potrà precisare il giacimento da cui è stato estratto il metallo».
La spada di San Lazzaro presenta qualche graffio, non profondo. Non ha iscrizioni né fregi. «Non ci sono segni evidenti di usura, per questo direi che potrebbe non trattarsi di un’arma creata per combattere», illustra la dottoranda ventottenne, che non esclude comunque alcuna ipotesi, «potrebbe trattarsi anche di un oggetto decorativo o funerario».
Un’ipotesi plausibile è che fosse stata deposta in una sepoltura, rinvenuta successivamente, e poi separata dal resto del suo corredo. La soluzione dell’enigma è lontana, la dottoranda avverte: «C’è ancora molto da lavorare». Tanto più che il foglio di accompagnamento (oltre all’originale padre Serafino ha trovato anche lo stesso testo copiato su carta moderna) parla di una «donazione» a padre Ghevond. Una lista di oggetti. Che aspettano di essere studiati.
LA LETTURA, 1 MARZO 2020