Intervista a Massimo Cacciari: «Il capitalismo divora il pensiero», di Giacomo Mameli
“Il lavoro dello spirito”, di Massimo Cacciari. il filosofo riflette sui fondamenti del mondo contemporaneo
Si parla più volte di “gabbie d’acciaio” nel libro di Massimo Cacciari “Il lavoro dello spirito”, sottotitolo “Saggio su Max Weber” (pagine 118, Adelphi, 13,00 euro). Gabbie che – soprattutto in Italia – più che di metalli inox sembrano fatte di ferrovecchio con croste indelebili di ruggine. Un Paese, il nostro, che vive di rinvio in rinvio, “tra color che son sospesi”, la politica non decide, blackout fra i partiti e nei partiti in scontro perenne, il mostro-burocrazia soffocante, tutto imbrigliato. È stato la burocrazia uno dei temi preferiti dallo studioso di Erfurt dove Weber era nato nel 1864 e morto un secolo fa a Monaco.
Dalla sua casa di Milano Cacciari dice:
«In questa epoca il capitalismo non è solo un sistema economico ma un sistema sociale che domina le nostre menti, determina i nostri comportamenti, è un fatto culturale, anzi religioso. Questo capitalismo tende – non in termini dittatoriali – a portare sotto il suo ombrello, a funzionalizzare al proprio dominio, sia la dimensione filosofico-scientifica che quella politica».
Nel libro ricorre spesso la parola capitalismo, anzi, con professione e religione domina le pagine.
«Perché questo è un libro che parla di noi, dell’oggi con gli occhi del genio di Weber. La tendenza immanente a quest’epoca ci mostra un capitalismo sistema sociale. Il capitalismo tende a ridurre a sé scienza e filosofia perché filosofia e scienza convivono, si intrecciano, si interrogano. Un capitalismo – ripeto – che tende a portare sotto il suo mantello la dimensione politica».
Quali le principali differenze tra politica e scienza?
«Il lavoro intellettuale – meglio dire dello spirito – deve avere come propria vocazione la ricerca della verità. Il politico, invece, va verso la ricerca del potere, ma non come fine a se stesso, non il potere per il potere, ma per costruire – come diceva Machiavelli – lo Stato, per dare gambe e ossa alle istituzioni, per governare. Il capitalismo vuol fare l’acchiappatutto, cerca di avere scienza e politica sotto di sé. Qui nascono tutte le contraddizioni. La scienza rivendica la propria autonomia, la libertas philosophandi che non può armonizzarsi con gli obiettivi del capitalismo».
Siamo alla gabbia d’acciaio di cui Weber parlava più di un secolo fa.
«Il capitalismo vede nello Stato un ingombro, dice che il politico è superfluo perché lo Stato è un impedimento, è burocrazia, è un costo. Per il liberismo lo Stato è un bastone tra le ruote. Così ragionando arriviamo alla gabbia d’acciaio, alla incomunicabilità».
Viene meno la cosiddetta quadra, ciascuno vuol dettar legge e se ne sta nella propria nicchia.
«Da qui nascono le contraddizioni. E comprendiamo come il sistema sociale capitalistico sia sostanzialmente sinonimo di crisi. La quadra non può esserci. Abbiamo visto i pareri sul corona virus? Dov’era la verità assoluta? Nello scienziato? Nel politico? Non c’è proprio. La crisi, il conflitto è l’anima di questo sistema. Lo è la stessa lotta di classe. E chissà se al capitalismo anni Duemila non faccia molto male l’assenza della lotta di classe. Mi spingo in là: se ci fosse la quadra arriveremmo a un sistema di equilibrio. La nostra, invece, è una società squilibrante, sradicante. Ma lo sviluppo capitalistico è comunque inconcepibile senza il lavoro intellettuale».
Ma c’è un faro, un’anima in questo sistema?
«L’anima è l’innovazione, è la ricerca continua, era scienziato Tolomeo come lo era Copernico».
Lei scrive che lavoro scientifico e lavoro politico sono protagonisti e antagonisti allo stesso tempo.
«Antagonismo e protagonismo sono due facce della stessa medaglia. Senza conflitto avresti un politico che si riduce a pura amministrazione e un capitalista che cerca di ridurre a sé politica e scienza, senza rendersi conto che si dà la zappa sui piedi. Il conflitto è l’anima dello sviluppo, di ogni forma di sviluppo. Capitalismo e politica devono trovare il link, un nesso tra loro».
Oltre al lavoro dello spirito cita anche gli araldi del destino. Chi sono?
«Sono quelli che, invece di sottolineare le contraddizioni tra lavoro dello spirito e sistema capitalistico, seguono come disincantati, con la benda agli occhi, il carro del vincitore, il potente di turno. Non avvertono che nella gabbia d’acciaio convivono i conflitti, il dialogo. Gli araldi – e quanti ce ne sono in giro – sono quelli che seguono i pifferai magici. Si parla di nazionalismi e sovranismi: siamo all’idolatria, alla farsa. Il riconoscimento della complessità sociale sta a fondamento del politeismo democratico».
Si modifica la società, si stanno modificando anche i linguaggi. Il semiologo Paolo Fabbri sottolineava le parole che non usiamo più.
«Stiamo attraversando un periodo di straordinario interesse. Sotto i nostri occhi si stanno modificando i modi di parlare. La mail che inviamo mica è uguale alle lettere di venti, trent’anni fa. Si va verso una koinè globale, inglese e dialetti si stanno meticciando. Il linguaggio è pensiero, questo comporta una mutazione dei modi del parlare. Cambiano i modi di produzione e così i modi di dialogare, di scrivere. In Europa era già avvenuto tra il 400 d.C. e il 1000-1110, i settecento anni che hanno formato il mondo europeo attuale. Il linguaggio è un divenire: chi legge oggi un articolo di cronaca mica trova parole e stile di cinquant’anni fa».
Con l’economia che muta non avremo più l’età dell’oro della quale parlava Carlo M. Cipolla. Siamo nell’età del virus, della pandemia.
«Il mito dell’età dell’oro non è di tutte le tradizioni. Oggi procediamo verso i Novissima, non verso ciò che è stato. L’età dell’oro è un mitologhema che è stato totalmente annullato anche dalla teologia cristiana, anche dall’ebraismo. Non c’è alcun ritorno all’Eden, oggi si valorizza – e io dico a ragione – la novità del tempo a venire. È il classicismo a sostenere che oggi le cose stiano peggiorando. Così non è. La nostra epoca non ha alcuna nostalgia del passato. L’età del virus? L’età di oggi, viviamo i tempi dell’oggi col carpe diem. E con tutti i guai che vediamo sotto i nostri oggi ci rendiamo conto di vivere meglio. E più a lungo. Voi in Sardegna ne sapete qualcosa».
La Nuova 22 giugno 2020