Dio in Italia c’è ancora. Più sperato che creduto, di Marco Ventura
Una ricerca condotta da Franco Garelli mostra che il calo delle pratiche di culto non si traduce nella fine della fede. Emerge piuttosto una religiosità diversa, più incerta e per molti versi contraddittoria ma forse proprio per questo più viva.
Quanto è cambiata la religione degli italiani negli ultimi 25 anni. A metà anni Novanta, poco meno della metà di noi pregava giornalmente o addirittura più volte al giorno. Oggi fa così solamente un italiano su quattro. Allora il 5% riteneva che in Dio credessero solo le persone più ingenue e sprovvedute. Oggi lo crede il 23%. Nello stesso periodo è aumentato del 30% il numero di chi non si riconosce in alcuna religione, si tratta ormai di un quarto della popolazione, ed è scesa dall’80% al 65% la percentuale di chi crede che la religione aiuti a trovare il senso profondo della vita. Si è intanto triplicato, dal 10% al 30%, il numero di chi pensa che Dio non c’è, perché se esistesse non permetterebbe il dilagare del male e delle ingiustizie nel mondo. Si è anche triplicata, sempre dal 10% al 30%, la percentuale di chi non partecipa mai a riti religiosi, fatta eccezione per matrimoni e funerali, ed è scesa dal 31% al 22% la quota di chi invece partecipa almeno ogni settimana. Si è infine ridotto il numero di chi dichiara di scegliere il rito religioso in caso di matrimonio: era l’83% a metà anni Novanta, è oggi il 57%.
Dobbiamo questi numeri alla ricerca svolta nel 2017 da Franco Garelli, a distanza di quasi un quarto di secolo da un’analoga ricerca del 1994 dello stesso studioso, uno dei più autorevoli sociologi italiani. I dati sembrano indicare un netto declino della nostra religiosità, già peraltro significativamente calata nei decenni precedenti, in particolare dagli anni Sessanta. Sicché sembra di facile lettura il titolo, Gente di poca fede, del volume in questi giorni in libreria (il Mulino), nel quale il sociologo torinese presenta i risultati della sua ricerca, finanziata dalla Conferenza episcopale italiana, e di uno studio coevo del sociologo romano Roberto Cipriani.
Gente di poca fede siamo noi, dobbiamo dedurre, perché crediamo di meno e perché pratichiamo di meno. Addirittura, ormai, perché poco crediamo e poco pratichiamo. Non solo, insomma, si registrerebbe un calo, ma si dovrebbe constatare che l’ago della bilancia della religione punta ormai inesorabilmente verso il poco. Ed eccoci, dunque, noi italiani, un tempo popolo credente per eccellenza, ridotti a gente di poca fede.
Invece non è così. Chi si fermasse a questa conclusione, limitandosi al titolo e a qualche dato più spettacolare, non avrebbe colto l’intero panorama che la ricerca ci offre, né la profondità di analisi cui invita l’autore. Per quelli è necessario addentrarsi nei numeri, e nel testo. Si scoprono allora le larghe aree in cui la religiosità non arretra. Si apprende della vitalità del cattolicesimo, con uno zoccolo di «convinti e attivi» che vale circa un quinto degli italiani, e delle altre fedi, ormai vicine al 10% contro il 2% negli anni Novanta. Si scopre che solo il 10% nega senza dubbio l’esistenza di Dio, che chi crede in una potenza maligna è salito negli ultimi 25 anni dal 15% al 40%, che un italiano su tre riconosce di aver ricevuto nel corso degli anni una grazia o dei favori divini, e che è salita dal 27% al 43% la fetta di chi si identifica con il cattolicesimo per educazione e tradizione.
L’interesse dei risultati della ricerca, e il valore del percorso di lettura proposto dal sociologo torinese, sta proprio nella trasformazione in corso. Non si trova confermata nessuna delle due grandi narrazioni concorrenti degli ultimi decenni: non è vero che la religione sta perdendo; e non è vero che la religione sta vincendo. Coesistono piuttosto indicatori di segno diverso, e si delinea nell’insieme qualcosa di nuovo che spiazza ogni preconcetto. Il maggior merito del volume sta proprio nel non arretrare davanti a un mutamento così refrattario agli stereotipi e al contempo nell’osare comunque un’interpretazione forte.
Prima di tutto, infatti, Franco Garelli approfondisce le posizioni degli italiani senza timore delle loro contraddizioni; le individua anzi quali tratto distintivo. È così in particolare per quelle opinioni sul cattolicesimo cui l’autore attribuisce l’Oscar di un immaginario «festival dedicato al tema dell’ambivalenza»: da un lato, infatti, si chiede alla Chiesa di essere più liberale, ad esempio in tema di sacerdozio femminile e di matrimonio dei preti, sostenuti dalla grande maggioranza, e dall’altro si invita la stessa Chiesa a «tener fermi i suoi princìpi, senza lasciarsi influenzare dalle opinioni prevalenti».
Il mutamento fotografato da Franco Garelli nel tempo e nell’oggi non risparmia alcun ambito. Crescono i cattolici culturali, è largo il favore per il crocifisso nei luoghi pubblici, appoggiato dal 67%. Invece, i favorevoli al mantenimento dell’ora di religione cattolica così com’è nella scuola pubblica superano appena la soglia del 50% e i contrari all’8 per mille, il 46%, superano di tre punti percentuali i favorevoli. Se di tema in tema, da Papa Francesco all’eutanasia, dalla politica all’islam, Garelli conduce il lettore nei vortici del cambiamento, non è perché si è perso nella tempesta dei dati. C’è un’interpretazione che lega tutto, e che dà senso alla tempesta.
È l’Italia «incerta di Dio» del sottotitolo del volume. In essa, spiega l’autore, si afferma la tendenza ad andare oltre gli steccati, con una credenza «che gode di un buon riscontro nel Paese» e che tuttavia «non viene data per scontata». Si crede in un Dio «più sperato che creduto», un Dio «altalenante, intermittente, che sovente si eclissa e talvolta riappare». Si sperimenta un avvicendarsi di maggioranze e minoranze, di cattolicesimo «stanco», «discontinuo», «identitario». Ancor più, cambia l’approccio alla verità: anche se non manca chi ancora aderisce a una «fede esclusiva», si diffonde un «credere relativo» condizionato dalla coesistenza di fedi diverse, e fa addirittura breccia «la domanda di una religione universale».
Al termine del volume, il titolo ha assunto un significato diverso da quello che si pensava all’inizio. Quel Gente di poca fede non esprime più il semplicismo di chi misura la religione un tanto al chilo, ma il dinamismo di un Paese che s’interroga sulla qualità della propria fede. La nostra religione emerge allora incerta, e proprio per ciò viva.
LA LETTURA, 15 marzo 2020