Ci siamo scoperti fragili come Edipo, Conversazione di Mauro Bonazzi con Giovanni Kezoch
La crisi in corso ci fa tornare a un passato arcaico in cui l’angoscia era placata con riti e sacrifici, considerati necessari per aprire la strada a un mondo nuovo. Il filosofo Mauro Bonazzi dialoga con l’antropologo Giovanni Kezich, esploratore dei miti del carnevale, su un concetto che evoca l’eterno conflitto tra padri e figli e i limiti del genere umano, che non può più ergersi a padrone del cosmo. Bisogna imparare a stare insieme e riascoltare la voce della coscienza, senza arrendersi all’idea di un destino avverso che domina l’eroe di Sofocle.
Rinascita, rinascere: è un’idea articolata, che si presta a molteplici letture. Rinascere fa parte del ciclo della vita e della morte che scandisce il tempo della natura, con l’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, della luce e del buio. Ma rinascere può anche far pensare a un tempo di rottura, una palingenesi che rompe con il passato e apre a una nuova epoca. Ne parlo con Giovanni Kezich, antropologo che ha studiato in modo approfondito il carnevale, un «tempo» molto legato a questo concetto.
GIOVANNI KEZICH — Le popolazioni primitive vivono in uno stato di ansia permanente, angosciate dalla prospettiva del crollo degli equilibri ecologici su cui si fonda il loro vivere. La stessa ansia si ritrova anche in civiltà più complesse, penso agli Etruschi, convinti che si sarebbero estinti dopo dieci dei loro «secoli» (circa 800 anni): questo sentimento di un equilibrio precario e soprattutto a termine deriva dalla natura agraria di queste società. Noi di città abbiamo un’idea idilliaca dell’universo agrario, ma la realtà è un’altra. Sono sistemi complessi, meccanismi fragili, che una causa qualsiasi (l’incuria umana, le fluttuazioni del clima, le siccità, le piogge…) può mandare in crisi. Un qualche atto magico propiziatorio, anche un sacrificio di sangue, viene prima o poi avvertito come indispensabile per cercare di impedirne la catastrofe.
MAURO BONAZZI — È interessante: la società ipertecnologizzata è attraversata da un’ansia che affonda le sue radici nel passato. In tempo di crisi affiorano schemi mentali arcaici. È come se dentro di noi rimanesse iscritta una memoria della precarietà a cui sempre siamo esposti. Mi è meno chiaro però da dove venga l’idea che tutto debba prima o poi finire.
GIOVANNI KEZICH — Nessuna cultura è in grado di concepire sé stessa in un arco di tempo infinito. Il senso della fine è anch’esso parte del retaggio antico, è la consapevolezza angosciosa che i campi prima o poi smetteranno di dare frutti. E arriva un momento in cui un sacrificio riparatore viene visto come il necessario preludio a un mondo nuovo, come una rinascita di cui la natura stessa ha bisogno. Pensiamo agli antichi miti, diffusi ovunque, in cui si richiede a un padre il sacrificio del figlio, come nella vicenda di Abramo, o al figlio quello del padre, come nel mito di Giove che scaccia Saturno.
MAURO BONAZZI — Quest’ultimo mito ci conduce verso il paradigma della rivoluzione necessaria, che diventerà fondamentale nella riflessione religiosa o filosofica. L’avvento del tempo nuovo — «nasce da capo un grande ciclo di secoli», scrive Virgilio nelle Bucoliche — è il sogno di un mondo rigenerato, che finalmente si è affrancato dalle necessità di natura. I cristiani, leggendo le Bucoliche, vedevano Cristo nel puer che avrebbe posto fine alle guerre, inaugurando l’«età aurea». In effetti, questo significa l’avvento di Cristo nella teologia cristiana: un evento che interrompe il ciclo del tempo e prelude alla fine dei tempi, al Paradiso.
Lo stesso schema si ripete in tanti filosofi. Il caso più eclatante rimane Karl Marx: la società comunista realizzata è un paradiso in terra, in cui ognuno è libero di fare quello che vuole. Il sogno è quello di una liberazione dalla storia e dalla natura: la storia è in fondo il tentativo di tenere in ordine la natura; il paradiso, il comunismo, il nuovo mondo meraviglioso che ci promette la tecnologia, ci collocano in una dimensione altra, senza più precarietà. Penso anche ai poeti comici, da Aristofane a Ruzante, con i loro pantagruelici banchetti in un mondo che finalmente non soffre più la fame.
GIOVANNI KEZICH — Ritrovo alcune analogie con la tradizione del carnevale, che è un rito antico, ben diverso da quello a cui siamo abituati oggi. Nel suo nucleo c’è un elemento che combina due aspetti simbolici: un’aratura e un matrimonio. È un rito di fertilità, insomma, del campo e della donna, per la terra e per il popolo che devono prosperare. E questa rinascita è preparata dal sacrificio di una figura che si fa carico del mondo vecchio, portandolo via con sé. In seguito, dalla fine del Cinquecento, con grandi esplosioni insurrezionali come quella di Romans in Francia (di cui racconta Le Roy Ladurie), il carnevale diventerà una specie di prova generale delle grandi rivoluzioni a venire: è il momento in cui affiora la consapevolezza sociale che un rovesciamento integrale del mondo è possibile.
MAURO BONAZZI — Tornando ai padri e ai figli, non si può non nominare il mito di Edipo, una storia molto attuale. O meglio, due storie. La trama, questa è la prima storia, è quella di un romanzo giallo perfetto, con un detective, Edipo appunto, che scopre di essere l’assassino.
GIOVANNI KEZICH — Una variazione affascinante su questo tema è nell’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, anch’esso un giallo, La donna dai capelli rossi: anche qui si parla del rinnovarsi del mondo attraverso il necessario sacrificio dei padri, evocando allo stesso tempo lo scenario opposto, quello dei padri che contrastano i figli, causandone la rovina, come accadde all’eroe persiano Rostam. È il tempo immobile dell’Oriente, sempre identico a sé stesso, a cui si oppone il tempo storico dell’Occidente.
MAURO BONAZZI — Sottotraccia, è la seconda storia: l’Edipo re sviluppa anche una riflessione potentissima sull’essere umano, la sua grandezza e i suoi limiti. La città è piegata dalla peste e chiede aiuto al sovrano. Edipo accetta la prova, convinto di poterla superare salvando la città. È il sogno dell’uomo che si pone al centro del mondo («l’uomo è misura di tutte le cose», insegnava Protagora), convinto di poter dominare tutto. Alla fine dell’indagine, però, Edipo scoprirà di essere un povero cieco che brancola nel buio, e non capisce nulla. Pensavamo di essere al centro, e invece ci scopriamo in balia degli eventi. Questa vicenda non manca di una sua attualità. Anche oggi stiamo imparando a riconoscere la nostra fragilità, insieme ai danni che siamo stati capaci di infliggere all’ambiente (tanto più se è vera l’ipotesi che lega la pandemia alla crisi ambientale). Il sogno utopico e messianico di poter creare un mondo umano e solo umano, liberi dalle necessità della natura, rischia di trasformarsi in una distopia, un incubo.
GIOVANNI KEZICH — La pandemia è stata un bello schiaffo per le «magnifiche sorti e progressive» e di riflesso per la nostra antropologia profondamente «antropòfila», sempre legata a un concetto di cultura quale costruzione immacolata e perfetta, e quindi a un qualche mito più o meno occulto del «buon selvaggio». Ma la ricerca antropologica più aggiornata sta già da anni cercando di mettere a fuoco il mondo umano e quello naturale quali compartecipi inscindibili, nel tempo planetario, di una medesima vicenda, fatta di azioni e reazioni. Segnalerei in tal senso quattro punti di riferimento: la nuova genetica delle popolazioni di Cavalli-Sforza; l’archeologia globale di Colin Renfrew; la geografia di Jared Diamond; la psicologia cognitiva di Julian Jaynes, lo storico della coscienza. La storia dell’uomo è parte della storia naturale, non è altra rispetto al mondo che ci circonda.
MAURO BONAZZI — In un’altra ottica, il tema della rinascita per i filosofi è anche un fatto strettamente individuale. Rinascere significa prima di tutto recuperare la propria autenticità, in opposizione a una società spesso sentita come corruttrice. L’obiettivo è riascoltare la voce di una coscienza interiore, che rischia di rimanere soffocata dai pregiudizi e dal peso di tradizioni asfissianti. «Diventa ciò che sei!», intimava Friedrich Nietzsche, riadattando un verso di Pindaro. L’idea, già presente in tanti filosofi del passato, diventerà, da Heidegger e Sartre in avanti, un motivo dominante della riflessione del Novecento…
GIOVANNI KEZICH — Che ci ha però consegnato una visione cupa, in cui l’uomo è segnato da una colpa oscura, un destino avverso, da cui cerca di districarsi, vanamente, alla ricerca di una possibile rinascita, di una redenzione qualsiasi.
MAURO BONAZZI — È sempre il modello di Edipo, in fondo. Fortunatamente c’è anche altro. Hannah Arendt non si è stancata di ricordarci che una vera liberazione non può che risultare da una rinascita collettiva, in cui gli uomini imparano a stare insieme. È quello di cui abbiamo bisogno oggi, più che mai: di una politica capace di gestire l’esistente, costruendo un equilibrio dinamico con la realtà che ci circonda.
LA LETTURA, 26 APRILE 2020