Stati generali italiani. Valanga di miliardi per il rilancio, ma la Sardegna nel Piano non c’è, di Mauro Pili

Vittorio Colao e Meyer Grienspan non si sono mai incontrati. Generazioni distinte e distanti. Il primo bresciano di Londra, Borgo Reale di Kensington, il secondo di Armungia, borgo pastorale incastonato tra il Flumendosa e Monte Cardiga. Colao vive in smart working nell’impero finanziario, e in Italia ritornerà, forse, lunedì prossimo per presentare il suo piano di rinascita post-Covid. Il secondo, raccontano gli archivi segreti inglesi del National Archives, a Londra c’era stato solo pochi giorni. Gennaio 1942. Missione opposta a quella di Colao.
Il primo mette nero su bianco un piano per ricostruire l’Italia del dopo coronavirus e cancella del tutto l’isola di Sardegna, il secondo Meyer Griespan, nome in codice del capitano Emilio Lussu, in missione segreta a Londra, tratta direttamente con gli uomini di Churchill il ruolo centrale dell’Isola dei Sardi nel Commonwealth del Regno Unito. Negli stessi archivi segreti, con il sigillo del potente Foreign Office, emerge persino un dettagliato studio elaborato nel 1942 sull’ipotesi di invasione inglese della Sardegna. Alla base del ragionamento di Churchill c’era l’analisi preventiva sull’ attitude of Sardinia towards Italian rule , ovvero l’atteggiamento dell’isola nei confronti del dominio italiano. Non se ne fece niente, come la storia ha dimostrato. Lussu fece cadere il progetto quando seppe che nella riunione del War Cabinet (consiglio di guerra) del 20 novembre 1942, Churchill considerava l’occupazione dell’isola solo per farne una grande portaerei terrestre dalla quale scatenare la strategia del moral bombing , del dissennato bombardamento, contro le città italiane del versante tirrenico, Roma compresa.
Passato e presente
Ne è passata di acqua sotto il modesto e umile ponte passerella sul Flumendosa, quello che Emilio Lussu fece finanziare dalla Cassa depositi e prestiti, l’unica che concesse ai pastori e contadini un modesto finanziamento a fondo perduto per poter coltivare e pascolare tutte e due le sponde del fiume, anche nei periodi di piena. Ora di finanziamenti a fondo perduto, prestiti a tassi irrisori e senza tante condizioni, per costruire ponti e portare acqua, realizzare e ammodernare ospedali e scuole, fare strade e banda larga, l’Italia ne ha racimolato una valanga. Mai così tanti dal dopoguerra ad oggi.
Peccato, però, che proprio da Londra, mancata terra promessa, sia partito un piano, scritto a molte mani, che ha dimenticato come non mai la Sardegna e la sua insularità, il riequilibrio infrastrutturale e persino il Mediterraneo.
Da domani l’Italia, alle prese tra movida e post Covid, inizia la full immersion degli Stati generali per riscrivere il futuro. Il punto di partenza sarà il piano di Colao, l’uomo storico della Vodafone nel mondo, chiamato dal governo italiano a scrivere 102 idee per il rilancio del Belpaese. Un piano senza previsione di spesa, senza indicazioni di tempi e procedure, con strategie a maglie larghe e un’inclinazione eccessivamente “telefonica” della gestione del sistema Italia. Gli analisti più critici parlano di un piano senz’anima, altri affondano il coltello sul conflitto d’interessi con il sistema delle compagnie telefoniche e quello finanziario mondiale di cui Colao è espressione di primo piano.
Di certo la controtendenza che il coronavirus sembrava aver imposto all’agenda della vita resta in soffitta, come se niente o quasi fosse successo. Stesso modello economico, grandi industrie, business e nessun ripensamento sulla visione economica e sociale del paese.
Utopia e deficit
Ora, però, il dibattito è aperto. E l’occasione è decisiva. Il moltiplicatore post Covid di euro del resto ha numeri impensabili sino a qualche mese fa. Il banco è letteralmente saltato, il pareggio di bilancio è ormai utopia costituzionale, cancellata a suon di stanziamenti in deficit e con un fiume di denari che si potrebbero riversare da qui a poco nelle casse dello Stato.
Nel piano Colao c’è l’elenco della spesa, quella quotidiana e, poi, ci sono le grandi questioni: digitalizzazione e innovazione, Rivoluzione verde, parità di genere e inclusione. Temi scontati e consunti, con qualche spinta innovativa ancora poco coraggiosa. Molto spesso il leit-motive dell’accusa alla politica è stato quello del libro dei sogni senza soldi. Ora i denari ci sono. Stentano, però, a decollare idee chiare e progetti concreti. E soprattutto manca la Sardegna, isola inesistente nel sistema Paese. Assente la strategia per il Mediterraneo. Dimenticato e mai preso in considerazione il riequilibrio insulare. La “potenza di fuoco”, però, esiste. Non si conoscono i tempi, le modalità di erogazione sono in alto mare, ma di certo è difficile immaginare nel futuro un nuovo scenario economico come questo con risorse così copiose e senza troppe condizioni.
Il piano dell’uomo che cedette ad Obama i segreti dei suoi clienti ha molti limiti ma anche infinite opportunità, a partire dalle risorse. A conti fatti il counter di euro è un totalizzatore infinito: 342 miliardi in tutto. Le misure finanziarie sono le più disparate. Tre su tutte: Sure, Bei e Mes. A cui si deve aggiungere il malloppo tutto italiano di 171 miliardi di euro generati dal preannunciato Recovery Fund.
Un fiume di risorse
In campo ci sono, poi, i 75 miliardi già stanziati in deficit con due diverse manovre finanziarie, la prima a marzo con il decreto Cura Italia (20 miliardi) e la seconda a maggio con il decreto rilancio (55 miliardi). E in queste ore si discute un terzo scostamento di ulteriori 10 miliardi a favore di famiglie e imprese.
Sure, Mes e Bei metteranno insieme 96 miliardi di euro, risorse in parte disponibili già da questo mese. Dal Fondo europeo contro la disoccupazione, il Sure, l’Italia potrà attingere fino a 20 miliardi per finanziare la cassa integrazione delle imprese in difficoltà a seguito del lockdown. I fondi di emergenza della Bei, Banca Europea degli Investimenti, per le piccole e medie imprese potrebbero garantire altri 40 miliardi di euro.
Resta aperto il capitolo Mes, il contrastato Meccanismo Economico di Stabilità che, perse le condizioni commissariali, resta pur sempre un debito da ripagare. Se la maggioranza lo accettasse entrerebbero nelle casse dello Stato 36 miliardi di euro da destinare esclusivamente al riassetto sanitario del Paese. E poi il Recovery fund. Ursula Gertrud von der Leyen, numero uno della Commissione Europea, parla apertamente di complessivi 750 miliardi di euro: 500 miliardi in sovvenzioni, risorse che non dovranno essere rimborsate, e 250 miliardi in prestiti, da rimborsare con interessi. L’Italia se ne porterebbe a casa la fetta più consistente, 171 miliardi, divisi tra oltre 90 miliardi di prestiti e circa 81 miliardi di sovvenzioni.
Cifre senza precedenti che non possono lasciare indifferente la Sardegna, da sempre alle prese con limiti strutturali e infrastrutturali che ne condizionano doppiamente lo sviluppo.
La grande disparità
Basta un dato per comprendere di cosa stiamo parlando. Se si usasse il parametro di riparto pro-capite, alla Sardegna spetterebbero 9 miliardi e 405 milioni di euro. Una montagna di denaro che vale venti (20) piani di rinascita. L’ultimo stanziamento straordinario dello Stato risale al 23 giugno 1994. In base all’articolo 13 dello Statuto furono destinati alla Sardegna 910 miliardi di lire diluiti in 5 anni, a maglie larghe 500 milioni di euro attuali. I nove miliardi e 405 milioni di euro si riferiscono a un riparto proporzionale rispetto al numero di abitanti, praticamente lo stesso parametro del 2,7% utilizzato dallo Stato per l’assegnazione dei fondi Cipe alla Sardegna. Denari su cui non si dovrebbe nemmeno discutere.
A questi, però, si devono aggiungere quelli che uno Stato equo destinerebbe per riequilibrare i divari legati all’insularità. Costi e freni allo sviluppo, da misurare e compensare. Nel piano di mister Vodafone emerge, invece, uno spirito strisciante proteso tutto a rafforzare i forti a scapito dei deboli.
In tutto il piano non si fa mai cenno al tema del riequilibrio infrastrutturale, semmai unico richiamo, ma sostanzioso, è quello proteso a collegare l’alta velocità da Salerno a Palermo, magari con il ponte sullo Stretto. Della Sardegna mai un cenno, né alla questione insulare tantomeno a quella infrastrutturale. Sarebbe bastato chiedere all’Istituto Tagliacarne per conoscere i dati reali delle infrastrutture del sistema Paese.
Anche da Londra sarebbe stato possibile mettere a confronto la Sardegna con i dati infrastrutturali dell’Italia e del Mezzogiorno. Sarebbe stato semplice e doveroso accorgersi che per le reti energetiche l’indice di dotazione infrastrutturale dell’Italia è di 100, per il Mezzogiorno di 64,54 e di appena il 35,22 per la Sardegna. Per le reti stradali l’Italia ha indice 100, il Mezzogiorno 87,10 e la Sardegna 45,59. Per le reti ferroviarie l’indice infrastrutturale italiano è di 100, per il Mezzogiorno 87,81, per la Sardegna è addirittura di 15,06.
Emilio Lussu questa volta a Londra, prima di ritornare a Roma, ci sarebbe andato con altro spirito e senza nome in codice.

L’Unione Sarda, 12 giugno 2020

 

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