Lo stupore, l’ansia: una storia dei sentimenti, di Donatella Puliga, Carlo Bordoni e Michaela Valente
Anche l’ultimo Natale è ormai lontano. Insieme al suo ricordo, abbiamo riposto nelle scatole degli addobbi le statuine del presepe. E seppure non tutti lo abbiamo fatto e, tra quanti lo hanno fatto, qualcuno lo ha reso un simbolo da brandire e qualcun altro un racconto da contemplare, un presepe che si rispetti — lo sappiamo fin da bambini — non può non prevedere, tra pastori, lavandaie e pescatori in maniche di camicia nonostante la neve intorno, anche il personaggio dello scantato. Quello ritratto con la bocca aperta e le mani alzate, un distillato di contemplazione. Secondo una delle leggende fiorite intorno alla tradizione del presepio, i pastori lo avevano rimproverato per non aver portato nessun dono al Bambino, mentre loro — chi un agnellino, chi una pagnotta, chi un cesto di frutta — si erano presentati con qualcosa tra le mani. Maria, a sua volta, li riprese aspramente, sottolineando che quel ragazzo aveva portato il dono più bello: il suo stupore.
Di questo raccontiamo oggi, nel tempo della sua assenza dal panorama delle emozioni contemporanee. Ridotto non di rado a qualche emoticon sullo smartphone, lo stupore è antico almeno quanto la poesia e la filosofia. Sono i poemi omerici — in Occidente — a delineare per primi i tratti di questa emozione, che fiorisce nel rapporto tra umano e soprannaturale: il verbo thaumazo e i sostantivi connessi, thauma e thambos, portatori del significato della meraviglia, dicono al tempo stesso l’atto della visione. Così, si stupiscono Achei e Troiani nel vedere la dea Atena balzare giù dall’Olimpo, impaziente di far riprendere le ostilità ai due schieramenti, prova stupore Achille comprendendo che l’incontro con l’anima di Patroclo gli ha dischiuso una nuova conoscenza sull’aldilà; genera stupore l’immagine di Ettore che, ispirato dal dio Ares, fa strage dei nemici. Nell’Odissea, poi, Ulisse è preso da stupore e timore alla vista di Nausicaa: «È una dea o una mortale?», mentre Telemaco viene colto da stupore quando percepisce la presenza del divino (è Atena che non si rivela) nella reggia di Itaca.
Molti testi antichi sottolineano come l’immagine dei soggetti colpiti da stupore ( ad-toniti, «storditi dal tuono») sia contigua a quella della pietra: che ha, tra i suoi tratti tipici, proprio l’immobilità e il silenzio. L’espressione restare di sasso reca certamente traccia di questa prossimità tra lo stupore e la pietra, ancora più evidente in termini di altre lingue moderne: nell’inglese astonishment ( stone), nel tedesco Staunen ( Stein).
Un’emozione come questa ci pone quindi davanti a un paradosso: se da un lato fa subire al corpo una radicale trasformazione che lo paralizza, privandolo delle sue capacità di movimento e di parola e facendolo addirittura virare dal mondo animale a quello minerale, dall’altro rende il soggetto aperto a una più profonda comprensione del reale.
L’atto di thaumazein è infatti all’origine della filosofia, come affermano il Platone del Teeteto e l’Aristotele della Metafisica: ciò che cattura e sorprende permette anche la visione dell’alto e dell’altro, insegna ad abitare il confine, accompagna fino alla soglia del turbamento e della paura, alla tentazione di distogliere lo sguardo. La sorpresa per il nuovo può annullare previsioni e prevenzioni e proprio per il suo essere spiraglio sull’altro più profondo, lo stupore ben si presta ad abitare lo spazio dell’anima e dei sensi in cui si sprigiona l’inebriante esperienza dell’amore.
Il verbo obstupescere (splendido derivato di stupeo), che dice insieme l’inizio e la durata, è quello che descrive ad esempio l’innamoramento a prima vista di Didone per Enea, il colpo di fulmine che si rivelerà fatale. E stupore misto a gioia per un dono insperato è quello di Catullo che deve ricredersi e scompaginare le proprie certezze, nel giorno in cui imprevedibilmente Lesbia torna da lui. Ma questa emozione non riguarda soltanto eventi su cui non si è ancora depositata la polvere del già noto, non si esaurisce nella meraviglia degli inizi: anzi, è capace di dilatare gli inizi fino a farli innervare nell’altrettanto prodigiosa quiete della consuetudine.
Alla vista di Cinzia addormentata, nella luce dell’alba, Properzio confessa di essere stato preda di una emozione mai provata prima (il verbo è ancora obstupesco), che gliela fa scoprire, nell’arrendevolezza del sonno, più bella che mai. E ancora, è una lenta iniezione di stupore ad animare il Pigmalione ovidiano alla vista della sua opera che si sveglia alla vita, ora che la sua illusione si è trasformata in realtà: una realtà di cui ancora l’artista diffida ma alla cui evidenza si arrenderà trovandone conferma attraverso il tatto e la vista, e sperimentando la gioia della reciprocità di sguardi tra sé e la sua amata.
Quando poi le emozioni perdono la strada, può accadere che si continui a offrire loro riparo nella capannuccia asettica del linguaggio specialistico, e questo è stato anche il destino dello stupore: di esso si è appropriata la medicina, facendo dello stupor e dei suoi derivati letteratura da bugiardini e non fiaccole per la vita. Eppure, neanche l’accezione letargica di uno stupore in rima con torpore era assente dai testi classici: ne è testimonianza, per tutti, l’Ovidio dell’esilio.
L’eclissi dello stupore dal panorama delle emozioni contemporanee soffre però di una dolorosa eccezione: alla stessa famiglia di stupeo e stupor appartiene anche la parola stuprum, che dice l’orrore di una violenza che lascia immobili, occhi sbarrati e intraducibile silenzio. Genitori, educatori, docenti non possono accettare che questa rimanga l’unica parola — insieme a stupido e ai suoi dilaganti derivati — incaricata di traghettare nel quotidiano la straordinaria costellazione semantica dello stupore. Facciamo nostro il desiderio di trasformarci (anche ricordando molti personaggi ovidiani, che provano stupore per la potenzialità di cambiamento che da loro stessi sprigiona) in donne e uomini capaci di suscitare la meraviglia della conoscenza, e soprattutto di modularla sullo spartito della durata, svincolandola dall’idolatria dell’attimo fuggente.
La grande arte di tutte le Annunciazioni ci insegna che, in bilico tra parola e silenzio, lo stupore, scaturito da un vedere non perché si guarda, ma perché si è stati guardati, può sfociare nella feriale accettazione del vivere, e quindi del morire. Se esso è terreno di coltura per la conoscenza, alimentarne il respiro nel quotidiano significa non smettere di cominciare: ed è fatica. Occorreranno pietra e cielo, collezioni di istanti e prove generali di eternità per diventare grembi di stupore, per renderlo compagno di strada, di attesa e di desiderio, al nostro fianco in una festa dello sguardo che generi incontro. E che ci faccia scorgere il mistero che si acquatta negli interstizi dei giorni, aiutandoci a vivere anche le emozioni più dolorose. Altro che non avere niente tra le mani.
Ci sono emozioni, sentimenti, stati d’animo che spiegano un’epoca, addirittura un’epoca storica. Alle emozioni nel mondo antico, greco e latino, è dedicato un seminario per docenti a Palermo. Alla coordinatrice, Donatella Puliga, abbiamo chiesto di raccontare un’emozione che definisce l’antichità. Poi abbiamo chiesto a un sociologo di raccontare lo stato d’animo della modernità.
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L’emotività è caratteristica degli esseri umani e certamente l’ansia è l’emozione chiave che caratterizza il presente.
Già gli intellettuali del secolo scorso hanno definito il Novecento TheAge of Anxiety, dal titolo del poema del 1947 dove Wystan Hugh Auden mette in scena le problematiche dell’uomo contemporaneo di fronte alla meccanizzazione. Ma questa emozione non si è dileguata con la fine del secolo. Se nell’antichità prevaleva lo stupore per gli eventi naturali incomprensibili e nel Medioevo regnava la paura, è solo nella modernità che domina l’ansia davanti alla realtà che cambia, allo sviluppo della tecnica che sfugge alle possibilità umane di controllarla, ai cambiamenti nei rapporti economici e lavorativi che l’industrializzazione comporta.
Tra ansia e angoscia c’è una differenza sottile. In certe lingue, l’inglese ( anxiety) e i l te desco ( Angst), sono sinonimi. Søren Kierkegaard ne parla come di angoscia derivata dalla «possibilità della libertà». Il libero arbitrio fa soffrire a causa di una responsabilità troppo grande. Ma il filosofo danese riconosce che senza questo malessere interiore non vi sarebbero né immaginazione né creatività. Il giudizio positivo di Kierkegaard è però contraddetto da un secolo di tentativi di curare l’ansia, soprattutto dopo che la psicoanalisi freudiana ne ha fatto una vera malattia dell’anima.
L’ansia è un’emozione moderna, come la paura è stata un’emozione premoderna e si è ridotta a mano a mano che la costruzione del tempo nuovo procedeva verso la realizzazione degli ideali di sicurezza, speranza, progresso. Senza venire meno, senza scomparire quando la modernità entra in crisi, diventa «liquida» o si esaurisce per lasciare spazio alle incertezze di un interregno. Anzi, crescendo con l’aumentare dei problemi e delle criticità che l’individuo moderno deve affrontare. Perché l’ansia, a differenza della paura e della sorpresa, non rientra tra le emozioni primarie — quelle che si potrebbero definire istintuali e che fanno parte della «naturalità» del vivente. L’ansia è un’emozione secondaria, un fatto culturale. Il superamento della modernità non esaurisce l’ansia, ma semmai l’aumenta, proprio perché non viene meno la distanza che separa la consapevolezza della nostra limitatezza — restiamo comunque «esseri carenti», come scriveva Arnold Gehlen — di fronte alle aspettative di un futuro percepito oscuro, difficile, forse tragico e che quindi richiede un impegno superiore alle nostre forze.
L’ansia è un’emozione moderna proprio perché orientata ad affrontare compiti più ardui rispetto alla normalità di un’esistenza piatta. Come tutte le emozioni implica un consumo di energie e dunque stanca. Troppa ansia nella vita quotidiana provoca stress e toglie la forza necessaria ad affrontare un impegno ritenuto superiore alle proprie forze. Diventa dolore, patologia. Più che un meccanismo di difesa — come la definiscono Marco Pacifico e Giada Fiume — l’ansia è il motore di (quasi) tutte le azioni umane, anche se talvolta può diventare un disturbo, paralizzare o creare crisi di panico. L’ansia non è un’emozione semplice, bensì la risposta evoluta a una condizione sociale complessa. È la prova provata dell’evoluzione della specie dovuta al mutamento esistenziale.
Si prova ansia quando si deve affrontare un impegno o una prova e non si è sicuri di potercela fare. La distanza tra la consapevolezza di sé — dei propri limiti e delle proprie capacità — e la previsione di quanto dobbiamo fare è colmata dall’ansia. Ma che cosa sarebbe la vita moderna senza l’ansia? Perderemmo gli appuntamenti, i treni e gli aerei, non ci prepareremmo adeguatamente agli esami e ai colloqui di lavoro, non faremmo progetti per il futuro. È il più grande motore della vita quotidiana ed è per questo che la modernità ne ha fatto, culturalmente, l’emozione-chiave della sua essenza.
L’ansia è un’emozione sociale. Riguarda tutte le persone. Negli Stati Uniti l’Istituto nazionale per la salute mentale ha rilevato che, mentre la depressione è statisticamente stabile, l’ansia è in aumento tra i giovani e riguarda il 38 per cento delle ragazze e il 26 dei ragazzi. Negli adulti oltre il 50 per cento soffre di gravi o meno gravi problemi d’ansia. Nasce dal rapporto conflittuale tra l’individuo e l’ambiente che lo circonda. Per questo si legge che uno dei maggiori fattori benefici per placare l’ansia sia passeggiare in un bosco: la solitudine, la pace della natura rimettono in sesto e liberano dagli affanni.
Tra le varie tipologie di ansia, quella creativa assicura ad artisti e scrittori la spinta necessaria a realizzare le opere. L’ansia ha un ruolo decisivo nella creatività: alimenta un turbamento interiore, un’inquietudine che non può essere placata se non realizzando il proprio intento. Martin Heidegger riconosceva la funzione artistica al solo momento creativo, mentre considerava i prodotti finiti, quadri e sculture, semplici sacchi di patate.
Tra le ansie postmoderne si distingue quella consumista. Se l’ansia creativa è una costante universale e accompagna l’umanità dalle origini — possiamo immaginare un Omero ansioso di rispettare la metrica e uno Shakespeare in pieno travaglio interiore — l’ansia consumista è di recente acquisizione. Si manifesta con punte patologiche nello shopping compulsivo, nel desiderio ossessivo di comprare oggetti spesso non necessari. Affine è la spinta ad accumulare beni di prima necessità, nel tentativo di spegnere l’ansia di non averne a sufficienza.
L’ansia diviene materia quotidiana nelle relazioni personali e affettive. Quella da prestazione presiede inevitabilmente ai rapporti sessuali nel timore di non rispondere alle aspettative dell’altro. Ansiogeni sono i rapporti politici, economici e professionali, nel tentativo di riuscire, mettersi in evidenza, essere ascoltati, approvati. Il mancato riconoscimento di sé è forse uno dei motivi più frequenti di stress nella società individualizzata.
Oggi il comportamento ansioso produce l ’aautoreferenzialità, l ‘eccessiva esposizione di sé e la rinuncia volontaria alla dimensione privata, nella speranza di ottenere un’attenzione costante ed esserne rassicurati. Viviamo d’ansia, perché questa è la nostra cultura e non sapremmo farne a meno.
- La lettura, 2 Feb 2020