Paura, invidia, fiducia Le emozioni al potere, di Michaela Valente
L’intervista Le ricerche dello storico australiano Charles Zika mostrano il peso che i sentimenti hanno esercitato ed esercitano ancora oggi. I timori suscitati dall’ignoto sono un’arma politica potente, spesso rivolta contro i diversi. Ma anche le vittime trovano nel loro dolore risorse per reagire e dare un senso alla vita.
Charles Zika ha insegnato per decenni in Australia, dove è arrivato nel 1948 da bambino con la famiglia, lasciando un piccolo centro della Cecoslovacchia, dopo che a Praga avevano preso il potere i comunisti. Si è occupato a lungo di rappresentazioni figurative e di iconografia per decifrare, attraverso simboli e rituali, idee e sentimenti di donne e uomini, soprattutto quelli che non poterono lasciare memorie scritte, vissuti nell’Europa dell’Età moderna: il suo lavoro più recente, Feeling Exclusion («Sentirsi esclusi»), è un volume a più voci, da lui curato con Giovanni Tarantino, che approfondisce il tema in riferimento alle diaspore causate da conflitti politici e religiosi tra la metà del XVI secolo e la fine del XVII.
Con una lunga e intensa carriera, Zika ha contribuito a rinnovare il metodo della ricerca. Nei suoi studi ha sempre rivolto grande cura alla necessità di leggere tra le righe e cogliere indizi per non cadere intrappolati nelle autorappresentazioni che sono spesso frutto di manipolazioni più o meno consapevoli. In questo percorso Zika si è imposto come uno degli interpreti più raffinati della storia delle emozioni, troppo spesso sottovalutate o trascurate, nonostante siano spesso un motore della storia e dei suoi protagonisti. Exorcising our Demons («Esorcizzare i nostri demoni») è il titolo di un libro di Zika uscito nel 2003, ma potrebbe essere un appello a leggere il presente, conoscendo il passato.
Professor Zika, nei suoi studi ha dedicato molta attenzione al tema della rappresentazione figurativa come ponte tra cultura popolare e dotta, oltre che come espressione della percezione diffusa di una questione. Come si riflettono in campo artistico le emozioni più diffuse socialmente?
«Le emozioni sono espresse nelle arti figurative in una varietà di modi, principalmente attraverso il linguaggio del corpo (gesti ed espressioni facciali), ma anche attraverso colori, suoni, risate e particolari modi di porsi. Queste emozioni, esplicite o implicite, come dolore, amore, devozione, odio, si riflettono come in uno specchio in chi le osserva attraverso processi di simpatia, empatia, orrore o disgusto. Attraverso l’analisi di queste immagini e del loro ricorrere, individuandone le proiezioni nella letteratura e nel teatro, si possono ricostruire più a fondo gli stili e i canoni culturali e sociali di un periodo».
Qualche esempio?
«Basti pensare alle espressioni terrorizzate del volto o al drammatico gesto di strapparsi i capelli dei condannati all’inferno negli affreschi trecenteschi italiani. Quelle rappresentazioni possono essere interpretate come segni di paure diffuse sulla vita ultraterrena e sulla salvezza. Nel XV secolo abbondano le immagini di Cristo sofferente o della Pietà con la Vergine Maria, straziata dal dolore, che culla il corpo di suo figlio: sono rappresentazioni concepite per suscitare compassione in chi guarda. Testimoniano come la compassione fosse diventata un’emozione chiave per esprimere la devozione religiosa. D’altra parte, nei miei studi sulle immagini di streghe del XVII secolo, ho scoperto che la danza, considerata di solito simbolo di gioia e piacere, era usata per comunicare che le streghe sono come animali, quindi incapaci di controllare le emozioni e per questo rappresentano una minaccia all’ordine. Attraverso la danza delle streghe, si dovevano quindi suscitare sentimenti di disgusto e ostilità, come ha recentemente dimostrato anche lo storico italiano Alessandro Arcangeli nel libro L’altro che danza (Unicopli)».
A proposito di streghe, lei nota che con il tempo le loro raffigurazioni artistiche (da Cranach a Goya, per esempio) cambiano parecchio.
«Attraverso le rappresentazioni figurative, possiamo scoprire come le streghe fossero percepite da vasti settori della popolazione, specialmente in un’epoca in cui l’ alfabetizzazione era molto limitata. Inoltre, dal momento che molte immagini circolavano su fogli volanti, pamphlet e libri, queste ci consentono di capire che cosa gli stampatori ritenessero potesse attrarre l’interesse dei lettori e dei non lettori. Tra il 1490 e il 1590 Al brecht Dürer, Hans Baldung, Lucas Cranach e i loro emuli, attraverso le loro rappresentazioni delle streghe, diedero volto alle preoccupazioni per il potere femminile e per la sessualità. Dal 1590 in poi artisti come Jacques de Gheyn II, Frans Francken II e Matthäus Merian (in parte influenzati dall’iconografia di Pieter Brueghel il Vecchio) interpretarono le streghe come minaccia per la società, come parte di una controsocietà che provocava morte e distruzione della vita morale e sociale. Questo forse non desta sorpresa in quell’epoca di grandi difficoltà associate con la “piccola età glaciale”, di gelate e carestie, insieme a decenni di guerre e cambiamenti politici in Europa. Nella seconda metà del Seicento, le raffigurazioni delle streghe testimoniarono il dibattito sulla realtà o illusorietà del soprannaturale, giungendo a mettere in discussione l’azione del diavolo. Alcuni artisti sottolinearono la natura diabolica della stregoneria, altri la ridicolizzarono, considerandola un incrocio tra fantasia e illusione. Nel primo Settecento questo elemento di irrisione resta con Claude Gillot e Francisco Goya. Per loro le streghe sono il frutto di sogni, incubi, forze irrazionali prodotte dalla paura».
Nel 2011 il governo australiano ha finanziato l’istituzione di un Centro per la storia delle emozioni presso l’University of Western Australia, con diramazioni in altri quattro atenei australiani e collaborazioni in Europa, Canada e Stati Uniti. Oltre ai tanti libri e convegni, alla rivista «Emotions: History, Culture, Society», forse il successo maggiore del suo lavoro è avere creato una rete internazionale di studiosi che si confrontano su questi temi.
«Nella storia individui e gruppi agiscono seguendo il pensiero, ma non solo. La storia delle emozioni si basa sull’idea che Arte e credenze popolari, la vita e le scelte di individui e gruppi, di chi subisce e di chi decide, siano influenzate anche da quello che vivono e sentono. In effetti, le emozioni sono differenti forme di pensiero, solo parzialmente consapevoli. Nella storia delle emozioni cerchiamo di riconoscere un peso adeguato a tali forze o sentimenti, che, insieme alla scelta razionale, determinano gli eventi storici. Ci concentriamo, ad esempio, su come le dinamiche emotive della paura, dell’odio, della vergogna, dell’amore o del rispetto, pervadano la vita quotidiana, come vengano vissute visceralmente e psicologicamente oltre che intellettualmente, come invitino all’azione, creino resistenza e resilienza, come siano usate per affrontare il trauma, dare un senso all’esperienza, influenzare gli altri ed esercitare il potere».
Quali sono le emozioni che hanno condizionato di più le vicende europee in passato? E in epoca più recente?
«Questo è difficile da stabilire e dipende dall’epoca, dal luogo, dal genere, dal ceto o classe sociale di individui e gruppi. Ma direi che la paura prevale in epoche di cambiamento repentino e violento, come durante le guerre. La paura è certamente una delle emozioni più forti nel periodo che io studio, dal tardo Quattrocento al primo Seicento, a causa dei grandi mutamenti in atto da ogni punto di vista, dalla situazione di guerra endemica in gran parte d’Europa, dagli sbalzi climatici e dalle trasformazioni economiche, cambiamenti evocati drammaticamente dagli artisti con l’immagine dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Secondo altri studiosi, invece, prevale l’invidia, poiché nel passato le possibilità di cambiare la realtà in cui si nasceva erano minime, se non nulle, e si riteneva la ricchezza un bene limitato, come ha insegnato l’antropologo americano George Foster. Di fronte alla paura, si radicano anche i sentimenti di appartenenza e identità. E l’appartenenza si basa su fiducia, lealtà e amore, emozioni che non riscuotono grande attenzione anche perché più intime e riservate, nascoste pudicamente, mentre la paura è più evidente ed esplicita come grido di aiuto e come strategia di mobilitazione. Insomma, una forte presenza della paura non significa che non ci siano altre emozioni in campo, anche se negli ultimi due decenni questo sentimento ha riconquistato la ribalta. Siamo sopraffatti da minacce e pericoli che generano paura: il terrorismo, le ipotesi di guerra nucleare, la spaventosa recessione economica mondiale e la conseguente crisi sociale, con una sempre più accentuata disuguaglianza, un numero crescente di sfollati e rifugiati… Al contempo, assistiamo impotenti a catastrofi naturali, pressati da allarmi di riscaldamento globale. Tutte questioni che generano ansia e paura nel mondo intero».
Un Paese che sembra soffrire particolarmente di questa situazione è proprio il suo, l’Australia, non le pare?
«Indubbiamente è così: in Australia, nell’ultimo quarto di secolo, è cambiato drammaticamente l’atteggiamento nei confronti dei migranti e dei rifugiati. Nella seconda metà del XX secolo, le politiche migratorie dell’Australia, aperte e accoglienti, hanno favorito il formarsi di una vivace società multiculturale, che ha conseguito importanti risultati, mentre i recenti governi hanno promosso politiche estremamente restrittive, concentrandosi sui pericoli piuttosto che sulle opportunità della migrazione. E sono politiche che si fondano sulla paura. Allo stesso modo, generano paura i recenti catastrofici incendi in Australia. Con un’intensità mai vista prima, come dichiarano gli esperti, gli incendi hanno bruciato in poco tempo aree più vaste di quanto non sia mai successo nella storia. Così sono stati distrutti insediamenti umani e vite, campi e fattorie, e sono morti milioni di animali e di piante, con il rischio concreto di estinzione di alcune specie. Persino antiche foreste pluviali, che si erano finora difese grazie al tasso di umidità, sono bruciate. Immagini drammatiche di incendi impetuosi che trasformano i giorni in notti nere, con tempeste di polvere, ceneri, fumi e nubi basse, alimentano l’angoscia di imminenti cambiamenti apocalittici. Uno storico dell’Europa della prima Età moderna rimane sorpreso dall’osservare come si presentino oggi le stesse paure dei periodi precedenti. Violenza e guerra, esodi, carestie, malattie, cambiamenti climatici fanno prosperare paure apocalittiche e queste mettono nel mirino gli “altri”».
Le paure dilaganti nel mondo contemporaneo sono in prevalenza un fenomeno spontaneo, oppure c’è chi ha interesse a suscitarle e alimentarle per i suoi scopi?
«La paura ha sempre giocato e continua a giocare un ruolo notevole nella vita sociale e politica. Il futuro è sempre ignoto e, in tempi di intenso cambiamento, l’ignoto può apparire spaventoso e angosciante. Ma senza dubbio un’altra ragione per cui la paura esercita un ruolo critico è la sua manipolazione da parte dei leader politici. Abbiamo visto che cosa avvenne quando fu invaso l’Iraq nel 2003, con le false prove circa lo sviluppo delle armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein. Allo stesso modo vediamo nella storia europea, in ogni epoca, attacchi alle minoranze, eretici e dissidenti, ebrei, islamici, zingari e stranieri o rifugiati, presentati come nemici che minacciano l’ordine sociale. Sarei comunque attento e cauto, ripeto, nell’individuare nella paura l’unica emozione che guida gli eventi politici. La vergogna e l’umiliazione (come ad esempio avvenne per la Germania con la pace di Versailles del 1919) possono essere forze più influenti nel guidare e indirizzare individui e gruppi ad adottare forme radicali di azione politica. Ma l’umiliazione può anche essere un’arma politica. Come la storica americana Carol Lansing ha dimostrato, le umiliazioni inferte con stupri e violenze alle donne del contado fiorentino nella metà del XIV secolo erano dirette contro i capifamiglia per tenerli sotto controllo, per soggiogarli. E recentemente Donald Trump ha giustificato l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, tra le altre ragioni, con vecchie umiliazioni subite dagli Stati Uniti. Si deve poi considerare come la fiducia cieca, la speranza e il desiderio di appartenenza spesso servano ai leader per rimanere al loro posto, nonostante le dimostrazioni d’incompetenza e le continue crisi. Le emozioni spesso lavorano insieme in combinazioni imprevedibili».
Nel nuovo libro da lei curato con Giovanni Tarantino, «Feeling Exclusion: Religious Conflict, Exile and Emotions in Early Modern Europe» (Routledge), in cui sono stati coinvolti autorevoli studiosi di diversi continenti, si tratta del tema dell’esilio e dell’abbandono delle proprie certezze e dei punti di riferimento in età moderna. Quali sono le fonti per queste ricostruzioni e in che modo possono contribuire a un’analisi dell’attualità?
«In Feeling Exclusion, gli studiosi hanno privilegiato l’analisi dell’impatto sociale dell’esclusione di centinaia di migliaia di persone costrette all’esilio tra seconda metà del Cinquecento e del Seicento per ragioni religiose (si pensi agli ebrei o agli ugonotti francesi, per fare due esempi), e le strategie che questi esuli misero in atto per sopravvivere nella nuova realtà nella quale si inserivano. Pertanto, gli storici devono utilizzare diverse fonti o meglio analizzare quelle tradizionali da nuove prospettive. Si esaminano diari e si analizzano lettere per scoprire i fardelli psicologici dell’esclusione e la paura di perdere l’identità. Tali fonti, come pure i rituali delle comunità, le immagini, e persino le testimonianze e deposizioni giudiziarie pongono in luce come questi sentimenti di esclusione fossero frutto dell’azione delle autorità per influenzare la vita quotidiana. E ci raccontano le strategie messe in atto da singoli e da gruppi per trasformare il dolore e la sofferenza in resilienza e resistenza».
LA LETTURA, 2 febbraio 2020