Come rispondere a Massimo Fini, di Franciscu Sedda

L’Autore  dell’articolo (nella foto)  parla ai Sardi  offesi, volutamente e in modo ‘barbaro’, da Massimo Fini, giornalista del Il Fatto quotidiano. Il pezzo, uscito negli ultimi giorni della scorsa settimana, era così impresentabile da essere disconosciuto dal direttore del giornale, Marco Travaglio.

Ammettiamolo. Alle parole di Massimo Fini sui nuraghi («visto uno visti tutti») e la Sardegna («chi se la caga») verrebbe da rispondere di pancia. Ma in un mondo sempre più pericolosamente sciatto bisogna far proprio il monito di Michelle Obama: “When they go low, we go high”, quando loro abbassano il livello noi lo alziamo. Del resto Fini non andrebbe neanche preso in considerazione se le sue parole non fossero sintomo di un fastidio che emerge puntuale, anche in gente per bene, quando i sardi non si conformano al ruolo di servizievoli comparse, di manutentori dell’isola, per esigenze altrui. Storia di lunga data, che affonda nello sprezzante razzismo che Cicerone mise in campo per salvare un console romano in Sardegna dalle accuse di corruzione dei sardi.
La prima vera risposta ai Fini che circolano per i millenni e per la rete è andare a vedere un nuraghe. Andarci con figli, parenti, conoscenti. Spingere a farlo i sardi che non l’hanno mai fatto. Portarci i nostri amici e ospiti stranieri. Farlo sapere in giro postando una foto: #IstimosIstoriaSarda #SardinianHistoryMatters. Non possiamo ricordarci collettivamente del nostro patrimonio solo quando qualcuno lo denigra pubblicamente: come se dessimo attenzione alla Sardegna solo quando ne sentiamo parlare (male) in quegli schermi che per il resto del tempo ci distraggono da essa. La seconda è rendersi conto che chi dice «visto uno visto tutti» ammette quanto sia forte il senso di unità che i migliaia di nuraghi trasmettono. Quella passata civiltà, che si distende fra coste e interno, nord e sud, ad Alghero come ad Arzana, comunica con il presente come un simbolo potente. Qualunque sia stata la sua origine e la sua fine, il suo impatto e il suo lascito, essa ci segna e ci incalza: bisogna far nostra la sua forza ed esserne all’altezza.
La terza è costruire dal basso un fondo per la conservazione e valorizzazione del patrimonio nazionale della Sardegna, sul modello del National Trust for Scotland. Costruirlo attraverso il volontariato e le piccole donazioni, farlo in quanto persone e associazioni, farlo “per amore della Sardegna”, per parafrasare lo slogan dell’iniziativa scozzese. Farlo per lasciare in eredità, dopo tanto oblio e distruzione, una storia in cui identificarsi, una terra di cui prendersi cura. Non sarebbe bello se ogni bambino, ogni classe, adottasse un nuraghe per la vita? La quarta è far entrare la storia della nazione sarda – questa storia millenaria, travagliata, ibrida, unica, che troppo spesso ci portiamo appresso con distrazione o fastidio – dentro le nostre scuole di ordine e grado, laddove ogni giorno si forma la memoria comune di un popolo. Se vogliamo davvero dare una risposta a Fini facciamo in modo che i nostri figli parlino dei Giganti, di Amsicora, Mariano IV, Eleonora e Giovanni Maria Angioy con più coscienza di quanto non abbiamo fatto noi.
Il nostro orgoglio troppe volte ci ha fregato, offrendo agli insulti un palliativo più che una risposta, una sfuriata più che una presa di coscienza. Purtroppo non basta rendere l’insulto per abbattere un’ingiustizia storica né per rivoluzionare la propria condizione. A noi, a questa terra, serve una “rivoluzione spirituale”, come scriveva Sergio Atzeni discutendo del rapporto fra Nazione e Narrazione. Un diverso modo di raccontarci, a noi stessi e agli altri, nelle parole e nei fatti, è la miglior risposta: quando loro abbassano il livello noi lo alziamo, quando giocano sporco noi ci esaltiamo, quando vogliono distruggere noi creiamo.
FRANCISCU SEDDA

 

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