Tolstoj processa Putin, di Fausto Malcovati
Il 31 dicembre sono trascorsi vent’anni dall’insediamento di Vladimir Putin, 67 anni, alla presidenza della Russia; ne mancano quattro alla scadenza del nuovo mandato, mentre già si parla di un’altra riforma costituzionale per consentirgli di rimanere al potere (se non proprio al Cremlino). A Fausto Malcovati, assiduo frequentatore della letteratura russa, «la Lettura» ha chiesto una riflessione sul rapporto tra i russi — soprattutto gli scrittori russi, i classici russi — e le diverse, successive, per nulla discontinue, autocrazie del gigantesco Paese: gli zar, poi il regime sovietico, poi il putinismo Una rapida analisi da Dostoevskij a Pasternak fino a Solženitsyn Anche se, in effetti, soltanto…
L’uomo forte. Onnipotente. Uno. La storia russa non ha conosciuto che uomini soli al potere. Non discutono. Non dialogano. Pretendono il consenso. Schiacciano il dissenso. Fanno il vuoto intorno a sé. E trionfano, circondati da una venerazione popolare che lascia perplessi: perché davanti a loro ci si prostra, ci si annulla? Perché ogni loro apparizione è un bagno di fedeli osannanti? Perché i loro funerali sono interminabili carovane di folle in lacrime? Perché i dissidenti sono così rari, isolati, impotenti?
A vent’anni appena trascorsi (il 31 dicembre) dall’insediamento di Vladimir Putin alla presidenza della Russia (saranno quasi venticinque alla fine del suo mandato, nel 2024) e nel pieno di una tempesta mediatica dovuta alla possibilità di cancellare il limite costituzionale di un altro — sarebbe il quinto — mandato o alla definizione di una nuova forma di leadership, è forse utile una riflessione sul rapporto tra la Russia (e i suoi grandi scrittori) e il potere.
Il primo fu Ivan il Terribile (1530-1584) nel XVI secolo. A colpi di cannone riunificò la Russia, assoggettata ai mongoli. Le città che rivendicavano autonomia vennero distrutte, i boiari piegati al suo volere o brutalmente fatti fuori. Uno solo, il principe Andrej Kurbskij, riuscì a fuggire in Polonia e da lì spedì un furioso anatema contro il sanguinoso tiranno. Il secondo fu Pietro il Grande (1672-1725), che alla violenza unì un’arma più astuta: la burocrazia. Un perfetto sistema di controllo sulla vita del Paese e dei suoi abitanti. Un esercito di funzionari abili, efficienti, scrupolosi, inflessibili, obbedienti. E per un po’, ma non per molto, non corrotti. Da lui in poi, fino a Putin compreso, il potere assoluto del capo — sia esso zar, commissario del popolo, segretario di partito o presidente — si è basato su un apparato burocratico impressionante per ampiezza, onnipotenza, corruzione.
Il terzo fu Nicola I (1796-1855). Salì al trono nel 1825 mentre in piazza i «decabristi», un coraggioso manipolo di aristocratici, alti ufficiali, intellettuali chiedevano garanzie costituzionali contro un’autocrazia ritenuta insopportabile. Ci volle poco per annientarli. Alla violenza (condanne a morte, decine di ergastoli in Siberia), alla burocrazia che aumentò il suo potere in modo esponenziale, si aggiunse una terza arma, più subdola e più ferale, che, come le altre, dura tutt’oggi: la polizia segreta. Si cominciò a spiare tutto e tutti: i covi dei maggiori indiziati erano ovviamente le università, le redazioni dei giornali (molti furono chiusi, pochi sopravvissero sotto stretto controllo), i circoli di intellettuali. Nicola I guidò per trent’anni un Paese in mano alla polizia. Se ne accorsero per primi gli scrittori: Aleksandr Puškin fu costretto a consegnare ogni riga a un’apposita commissione che ne autorizzava la diffusione, il suo Boris Godunov dovette attendere trent’anni per essere pubblicato, dell’Onegin uscirono solo sette capitoli su dieci. Gogol’ si trincerò dietro la comicità: nell’Ispettore generale, con leggendaria abilità, prese per i fondelli la burocrazia denunciando che intascava senza battere ciglio ingenti bustarelle con buona pace dell’altrettanto corrotto podestà e il suo Cicikov, protagonista di Le anime morte, organizzava, fingendo legalità, una colossale truffa ai danni dello Stato, salvo poi essere beccato quando stava per farla franca.
Dunque la Russia ottocentesca è un enorme continente, isolato dalla contigua Europa divorata da periodiche rivoluzioni, controllato da gendarmi e funzionari, plumbeo impero da cui molti intellettuali scappano all’estero (Aleksandr Ivanovic Gercen, spesso traslitterato in Herzen; Michail Bakunin), molti di più si ritrovano per anni in Siberia (Nikolaj Gavrilovic Cernyševskij). Ci finisce anche Fëdor Dostoevskij, accusato di attività sovversiva nel 1849: rischia la fucilazione ma lo zar gli concede la grazia e lo manda ai lavori forzati tra i criminali comuni.
Quando torna libero e riprende a scrivere, parla poco dell’ingiustizia subita, affonda piuttosto nel sottosuolo dei suoi tormentati personaggi, salvo, nei Demòni, affrontare il terrorismo per condannarne l’inconsistenza politica e la nullità morale. Ivan Sergeevic Turgenev, gran signore anche in letteratura, si astiene da polemiche politiche e tuttavia in Padri e figli il suo Bazarov, acceso sostenitore del nichilismo, si lascia morire di fronte all’ inconsistenza del suo credo.
Insomma, mentre i terroristi uccidono, gli scrittori immettono con cautela nei loro personaggi inquietudine, insoddisfazione, voglia di cambiamento. L’ unico che si erge, categorico, contro l’ autocrazia è LevTolstoj, giovane ufficiale nella guerra di Crimea, sferra un attacco senza precedenti, nei suoi Racconti di Sebastopoli, contro la viltà, l’incompetenza, la spocchiosa vanità degli alti ufficiali zaristi, veri responsabili della vergognosa sconfitta. Anni dopo denuncia l’ inefficienza dell’ amministrazione, incapace di gestire la spaventosa carestia che colpisce le regioni centrali dell’impero: prende l’iniziativa di una raccolta di fondi che gestisce in modo autonomo, in aperta polemica con le direttive governative. Affronta di petto la questione delle sette religiose ingiustamente perseguitate: organizza da solo l’espatrio di una di loro. Accusa la Chiesa ortodossa di combutta con lo Stato nella repressione, nell’oscurantismo, e ne riceve una scomunica nel 1901. Muore solo, in una stazioncina di provincia, rifiutando benedizioni di popi e funerali statali. Sino alla fine protesta, contesta, dice quello che pensa senza peli sulla lingua, insomma è un personaggio scomodissimo ma in fondo intoccabile, grazie all’enorme fama internazionale. Nella sua lunga vita conosce quattro autocrati, tutti da lui pesantemente contestati: il poliziotto Nicola I, l’esitante riformatore Alessandro II che paga le sue ambiguità saltando su una bomba dei terroristi, il reazionario Alessandro III, l’inetto Nicola II. La sua voce non smette di ricordare a tutti, a chi lo legge e a chi lo rifiuta, che il potere autocratico, nella sua secolare cecità, ha retto troppo a lungo, non può avere futuro. Un potere, infatti, che sette anni dopo la morte dello scrittore, si estingue per asfissia.
Il 1917 sembra l’inizio di una nuova era: tutto il potere ai soviet, terre ai contadini e fabbriche agli operai. Slogan che si rivelano nel giro di pochi mesi, come si sa, del tutto fasulli. I bolscevichi fanno subito tesoro dell’esperienza di chi li ha preceduti: cominciano con la fucilazione di tutta la famiglia imperiale e potenziano con determinazione, astuzia, efferatezza i tre principi su cui si reggeva l’autocrazia zarista: violenza, burocrazia, polizia. Allo zar unto e spalleggiato dalla Chiesa ortodossa sostituiscono il segretario del partito (uomo forte unico e indiscusso anche lui), incoronato dal Soviet supremo e circondato da identica se non più servile venerazione.
Sarà Stalin a battere tutti i predecessori: nell´uso della violenza fin dai primi mesi del nuovo regime, indiscriminata, furiosa, implacabile contro oppositori e sostenitori; nel potenziamento della burocrazia, onnipresente fin nei più lontani villaggi della sconfinata Unione Sovietica, strumento biecamente obbediente ai progetti sanguinari del dittatore; nello strapotere della polizia in tutte le sue varie declinazioni e sigle. L’importante è omologare, piegare, imbavagliare tutti, a cominciare dagli artisti: poeti, prosatori, pittori, registi, compositori. In ogni settore Stalin dice la sua, in musica come in linguistica, in economia come in genetica. Ogni sua esternazione è legge che non accetta contestazioni. Il trentennio della sua tirannia rimane nella storia russa come l’epoca più tragica, cupa, sanguinaria. C’è chi gli resiste e non ha scampo: fucilazione o lager per anni, per decenni. C’è chi si mimetizza, si eclissa e sopravvive. Boris Pasternak traduce Shakespeare e i poeti georgiani conterranei del dittatore (e dunque da lui amati); Anna Achmatova non trova editori e si mette a studiare Puškin; Bulgakov finisce a fare l’impiegato al Teatro d’Arte e tiene nel cassetto Il Maestro e Margherita (uscirà venticinque anni dopo la sua morte); Dmitrij Dmitrievic Šostakovic, dopo gli insulti alla sua Lady Macbeth del Distretto di Mcensk trova lavoro come compositore di colonne sonore per mediocri film di regime. E sono quelli che sopravvivono.
Ben altra sorte tocca a chi viene preso di mira. Osip Mandel’štam, insieme a tanti altri, muore in un lager, Isaak Babel’ e Vsevolod Mejerchol’d vengono torturati e fucilati.
Impensabile una figura come Tolstoj: avrebbe avuto poche — meglio: nessuna — possibilità di sopravvivenza.
La morte di Stalin il 5 marzo 1953 cambia poco. Il sistema è rodato e prosegue per inerzia. Un po’ meno fucilazioni e arresti, è vero, ma la finta destalinizzazione di Nikita Krusciov si traduce in illusori sprazzi di libertà, di cui non approfitta Pasternak, lapidato per il Dottor Zivago che Feltrinelli pubblica in Italia tra le contumelie del nostro partito comunista, mentre ne approfitta Aleksandr Solženitsyn che riesce, per il rotto della cuffia, a far pubblicare il suo primo romanzo, Una giornata di Ivan Denisovic, in cui il cronista del Gulag, il sistema dei «campi di lavoro», parla finalmente di lager, salvo poi fare destituire il direttore della rivista che lo ha pubblicato e vedersi rifiutati tutti i successivi romanzi. Uno e l’altro ricevono un premio Nobel che il primo è costretto a rifiutare, il secondo a ritirare con anni di ritardo. L’atmosfera rimane plumbea: invece che fucilarli, gli scrittori vengono processati, condannati perché «nullafacenti» e qualche volta espulsi dall’Unione Sovietica, come è il caso di Iosif Brodskij (altro premio Nobel, ritirato questa volta perché residente in America) o Andrej Sinjavskij.
Il crollo dell’Urss sembra cambiare tutto, ma Putin con i suoi vent’anni di potere incontrastato (poco conta la Duma) conferma che ai russi piace l’uomo forte, il difensore dell’orgoglio nazionale. Violenza, superburocrazia e polizia reggono ancora: lo dimostrano i disordini, le manifestazioni represse a manganellate, gli arresti domiciliari a registi scomodi, gli esili in Siberia di oligarchi disobbedienti. E non c’è nessun Tolstoj che denunci a pieni polmoni quello che sta succedendo. È vero che un folto gruppo di oppositori esiste e fa sentire la propria voce appena può, ma i restanti centoquarantacinque milioni di abitanti, entusiasti del suo nazionalismo e del suo decisionismo, lo acclameranno alle prossime elezioni.
La lettura, 5 gennaio 2020