Il sogno di Wilson rivisto da Orwell, di Sergio Romano
Cent’anni fa cominciava i suoi lavori la Società delle Nazioni, voluta dal presidente Usa ma subito azzoppata dal rifiuto del Senato americano di aderire. Poi l’invasione italiana dell’Etiopia precipitò l’organizzazione in una crisi mortale. Nel 1945 la sua eredità è stata raccolta dalle Nazioni Unite, che però restano una fattoria dove alcuni animali sono «più uguali degli altri»
L’8 gennaio 1918, nel quarto anno di una guerra scoppiata nell’agosto del 1914, il presidente americano Woodrow Wilson pronunciò un discorso al Congresso degli Stati Uniti in cui elencò i 14 punti che avrebbero dovuto guidare i governi dopo la fine del conflitto. Nel quattordicesimo era scritto: «Dovrà essere creata un’associazione delle nazioni, in virtù di convenzioni formali, allo scopo di provvedere a tutti gli Stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale». I Paesi che combattevano da più di tre anni, e che avrebbero vinto la guerra, accolsero i 14 punti come una proposta inopportuna. Temevano che un «parlamento internazionale della pace» avrebbe reso più difficile la divisione delle spoglie. Ma da quel momento Wilson divenne insieme a Lenin (anche se per ragioni e in ambienti alquanto diversi), l’uomo di Stato più noto e popolare del mondo. Attraversò l’Atlantico, visitò alcuni Paesi europei (fra cui l’Italia con una sosta a Genova per rendere omaggio a Mazzini), partecipò alla conferenza di Versailles per la redazione dei trattati di pace e ottenne che, fra i documenti firmati nel salone degli specchi del castello il 28 giugno 1919, vi fosse quello che istituiva la Società delle Nazioni. Fu deciso che l’organizzazione sarebbe stata ospitata da un Paese neutrale e la scelta cadde sulla città svizzera di Ginevra.
I capricci della storia, tuttavia, vollero che il successo ottenuto dal presidente americano in Europa non fosse gradito a una buona parte dei suoi connazionali. Gli Stati Uniti avevano dichiarato guerra agli Imperi centrali il 6 aprile 1917, perché gli scontri navali nell’Atlantico (fra UBoot tedeschi e navi britanniche solo apparentemente mercantili) avevano provocato la morte di molti cittadini americani. Ma nonostante la partecipazione al conflitto, con l’invio in Francia di quasi due milioni di soldati, era ancora vivo nel Paese il ricordo delle raccomandazioni che George Washington aveva lasciato nel suo discorso d’addio. Il fondatore dello Stato aveva invitato i suoi successori a non lasciarsi coinvolgere nelle beghe e nei bisticci delle potenze europee. Esisteva quindi in America una corrente isolazionista, molto forte nelle file del Partito repubblicano, che non approvava l’internazionalismo di Wilson. Il maggiore esponente di quel partito era allora Henry Cabot Lodge, un anziano senatore del Massachusetts che aveva con Wilson un pessimo rapporto personale. Quando la legge per la ratifica dei trattati di pace e per la creazione di una Società delle Nazioni giunse all’esame parlamentare, Cabot Lodge l’avrebbe forse votata, se il presidente Wilson avesse accettato di inserire nel testo qualche riserva per ribadire i diritti e i poteri del Senato. Ma Wilson rifiutò e Cabot Lodge, stizzito, convinse la maggioranza della Camera Alta (a cui spettava la ratifica dei trattati) che la Società delle Nazioni, se l’America ne avesse fatto parte, sarebbe stata una continua minaccia alla sua sovranità.
Accadde così, paradossalmente, che il Paese più responsabile dell’esistenza di una promettente organizzazione internazionale si privasse della possibilità di usarla per promuovere i suoi progetti e difendere i suoi interessi. Non è tutto. Anziché lavorare con i propri alleati alla ricostruzione di un continente che era stato duramente colpito dal conflitto e che aveva lasciato sul terreno 36 milioni di vittime (i morti furono più di 16 e i feriti più di 20), gli Stati Uniti ribadirono il loro isolazionismo, pretendendo il rimborso dei prestiti che le loro banche avevano fatto agli alleati durante il conflitto. Un grande economista inglese, John Maynard Keynes, ne fu scandalizzato e lo disse pubblicamente.
In quel momento tuttavia l’assenza degli Stati Uniti non fu percepita a Ginevra come una minaccia alla legittimità e all’autorevolezza della nuova organizzazione. Fu deciso che la Società avrebbe avuto tre organi: un’Assemblea composta da tutti i suoi membri, un Consiglio composto da membri permanenti (i vincitori, fra cui l’Italia) e da membri non permanenti che sarebbero stati scelti a turno fra tutti i soci, e un segretario generale. Questi fu James Eric Drummond, un diplomatico britannico che aveva partecipato ai negoziati per la pace e che avrebbe conservato questo incarico fino al 1933. Le prime riunioni dell’organizzazione ebbero luogo cento anni fa per qualche giorno a Londra, dove i lavori cominciarono il 10 gennaio 1920, e per qualche mese a Parigi, dove il Consiglio si riunì per la prima volta il 16 gennaio, in attesa che Ginevra potesse accoglierla nel novembre del 1920 in un palazzo che fu subito battezzato con il nome di Wilson.
La Società delle Nazioni, nel frattempo, stava dando i primi segni di vita. I membri, all’inizio del lavori, erano i Paesi che nel campo alleato avevano firmato i trattati di pace, a cui si aggiunsero, nel giro di due anni, tredici Stati neutrali. Per l’ingresso della Germania fu necessario attendere il trattato di Locarno dell’ottobre 1925 e il ritiro delle truppe francesi dai territori tedeschi occupati dopo la cessazione delle ostilità. Da quel momento la Società si mise al lavoro e non sarebbe giusto negarle il merito di avere risolto qualche problema e risparmiato qualche conflitto. Quando Svezia e Finlandia cominciarono a litigare per il possesso delle isole Åland, nel Mare Baltico, la Società decise che sarebbero appartenute alla Finlandia, ma avrebbero avuto un governo autonomo. Quando la Jugoslavia occupò alcuni territori albanesi, intervenne con una commissione che riuscì a evitare un conflitto. Quando la Slesia, nel 1921, divenne un potenziale campo di battaglia fra le due popolazioni (tedeschi e polacchi) da cui era abitata, ebbe un ruolo arbitrale nella divisione del territorio fra i contendenti. Nel 1924 trovò una soluzione per la città portuale di Memel, contesa da lituani e tedeschi. Quando truppe greche, nel 1925, invasero territori bulgari, intervenne e costrinse gli occupanti a tornare nelle caserme. Fu utile anche quando francesi e tedeschi bisticciavano per i giacimenti minerari della Saar e durante il plebiscito del 1934 che avrebbe assegnato la regione alla Germania. Fu anche un rispettato notaio nel 1926 durante la crisi di Mosul, città irachena rivendicata dai turchi. E accettò di amministrare i territori contesi fra Colombia e Perù, in attesa che i due Paesi si accordassero sulla spartizione.
Ma queste erano quasi tutte questioni di modesta importanza. Il quadro cambiò quando le truppe italiane, nell’ottobre 1935, invasero l’Etiopia. Il 6 ottobre, 50 membri del Consiglio della Società condannarono l’attacco italiano e un mese dopo approvarono sanzioni che avrebbero potuto privare l’Italia di beni necessari alla sua sopravvivenza e alle operazioni militari. Gli effetti della decisione furono doppiamente negativi. In primo luogo suscitarono in Italia un’indignata reazione nazionale che rafforzò il regime fascista; e in secondo luogo vi furono molti Paesi che, pur avendo votato per le sanzioni, chiusero un occhio sulle spedizioni che partivano dal loro territorio o addirittura rifiutarono apertamente di applicarle. Ma il risultato peggiore fu la nascita dell’amicizia fra l’Italia di Mussolini e il Terzo Reich di Adolf Hitler. La Germania era membro della Società dal 1926, ma ne era uscita nel 1933 dopo la vittoria del Partito nazista nelle elezioni di quell’anno e la formazione di un governo presieduto dal «cancelliere Hitler». Fascismo e nazismo avevano avuto sino a quel momento rapporti di cortese affinità, ma Mussolini, durante l’incontro di Venezia nel 1934, aveva trattato Hitler con freddezza e con una certa diffidenza. Dopo le sanzioni nacque un legame che sarebbe divenuto, nel maggio del 1939, un «patto d’acciaio».
L’impotenza della maggiore organizzazione internazionale fu ancora più evidente nel settembre 1936, quando il governo repubblicano spagnolo denunciò inutilmente a Ginevra l’intervento armato dell’Italia e della Germania per sostenere le forze ribelli di Francisco Franco. L’organizzazione cominciava a sfaldarsi. Un anno dopo, nel 1937, Mussolini annunciò dal balcone di Palazzo Venezia l’uscita dell’Italia dalla Società. Uno degli ultimi guizzi di vita dell’organizzazione di Ginevra fu l’espulsione dell’Urss, colpevole di avere occupato i Paesi del Baltico e fatto guerra alla Finlandia. Fu chiaro da quel momento che la Società delle Nazioni era ormai in disarmo. Qualcuno cercò di recuperarla dopo la fine della Seconda guerra mondiale e di regalarle una seconda vita. Ma Roosevelt, che durante la Prima guerra mondiale era stato membro del gabinetto di Wilson come segretario aggiunto alla Marina, preferì proporre a Stalin, alla conferenza di Yalta, la nascita di un nuova organizzazione che si sarebbe chiamata Onu. Vi fu un momento di esitazione quando il leader sovietico obiettò che la Gran Bretagna avrebbe potuto contare nel Consiglio sul voto di tutti i Paesi del Commonwealth, dall’Australia al Sudafrica, e che anche all’Urss spettava quindi un voto plurimo. Fu accontentato e Mosca poté portare con sé alla conferenza di San Francisco, dove l’Onu nacque il 26 giugno 1945, l’Ucraina e la Bielorussia.
Quando l’Onu cominciò i suoi lavori era lecito sperare che le esperienze fatte dalla Società delle Nazioni, il dramma del secondo conflitto mondiale e l’inizio dell’era nucleare avrebbero suggerito agli Stati una maggiore cautela e politiche più concilianti. Speravamo addirittura che il diritto di veto concesso alle cinque maggiori potenze — Cina, Francia, Gran Bretagna, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e Stati Uniti — avrebbe avuto l’effetto di limitare e contenere la loro supremazia. Ma la prima prova fu negativa ed ebbe una influenza sul futuro dell’organizzazione.
Mentre l’Onu teneva le sue prime riunioni, si combatteva in uno dei membri permanenti (la Cina) una guerra civile fra comunisti, sostenuti dall’Urss, e nazionalisti, spalleggiati dagli Usa. Qualche anno dopo, nel 1949, i comunisti avevano vinto e il fronte nazionalista, enormemente rimpicciolito dal conflitto, si era aggrappato a un’isola del Pacifico che i portoghesi avevano chiamato Formosa, l’attuale Taiwan. La vittoria dei comunisti e la proclamazione della Repubblica popolare cinese a Pechino, il 1° ottobre 1949, ebbero ripercussioni nella penisola coreana dove esistevano due zone d’occupazione (americana a Sud, sovietica a Nord) che nel 1948 erano diventate altrettante repubbliche e reclamavano entrambe il controllo dell’intera Corea. Quando quella del Nord ruppe la convivenza nel giugno del 1950 e invase il Sud, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti, ordinò alle truppe americane del Pacifico di entrare in azione e chiese il sostegno armato degli Stati dell’Onu. Se in quella giornata il rappresentante dell’Urss avesse partecipato ai lavori del Consiglio di sicurezza, il veto sovietico avrebbe impedito all’Onu di prendere parte al conflitto. Ma era assente in segno di protesta per l’attribuzione di un seggio nel Consiglio alla Cina nazionalista piuttosto che alla Cina comunista. Grazie a quell’assenza, l’Onu divenne, in Corea, la bandiera dei 16 Paesi che accettarono di combattere a fianco degli Stati Uniti. Per accentuare il carattere internazionalista dell’operazione, la guerra fu definita «operazione di polizia». Ma era in realtà una guerra americana e ne avemmo la prova nel 1953, quando un nuovo presidente degli Stati Uniti, Dwight D. Eisenhower, decise, senza chiedere il permesso dell’Onu, che il suo Paese era stanco di combattere e concluse con la Corea del Nord, il 27 luglio 1953, l’armistizio di Panmunjom.
Vi sono stati altri casi in cui, da quel momento, la maggiore organizzazione internazionale ha approvato operazioni militari soprattutto americane, ma ha generalmente cercato di concentrare una grande parte della sua attività nelle operazioni di peacekeeping, là dove il compito dei caschi blu è mantenere la pace dopo l’interruzione di un conflitto. L’Onu è continuamente esposta alle critiche e vi sono agenzie, come l’Unesco, che hanno suscitato la collera degli Stati Uniti, soprattutto per la loro politica nei riguardi di Israele. Quando un segretario generale, come in passato Kofi Annan, avanza proposte interessanti per la riforma dell’organizzazione, comincia una discussione che produce generalmente risultati modesti. Quando viene proposto l’allargamento del Consiglio di sicurezza, il numero dei candidati (fra cui Germania e Italia) rende la riforma irrealizzabile. I membri permanenti attuali si tengono ben strette le loro prerogative.
L’Onu non è una Fattoria degli animali, ma potrebbe esporre sulla facciata del suo grattacielo di New York il motto coniato da George Orwell nel suo splendido romanzo: «Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più eguali degli altri». Tuttavia la maggioranza degli Stati, almeno per ora, sa fortunatamente che il mondo, se l’Onu non esistesse, sarebbe alquanto peggiore.
L a lettura, 5 gennaio 2020