Il dolore della disunione
Il cristianesimo esiste perché gli uomini siano in carità gli uni con gli altri. Immaginiamoci … i monaci. Crediamo di rendere un servizio al nostro lettore, riportando qui sotto quanto succede a Bose..
Il riformista: Monastero di Bose, il retroscena sulla cacciata di Enzo Bianchi, di Fabrizio Mastrofini — 29 Maggio 2020
Che accade a Bose? La comunità monastica fondata da Enzo Bianchi, a quanto pare, è capofila nella teologia ecumenica e nel dialogo tra le religioni, ma naufraga nel dialogo interpersonale. Uno dei risultati/esperimenti più interessanti del dopo Concilio Vaticano II, è «esploso» all’attenzione dei media. Motivo: il comunicato reso noto sul sito monasterodibose.it in cui si parla di un decreto, firmato il 13 maggio dal segretario di Stato, cardinale Parolin e approvato in forma specifica da papa Francesco. Enzo Bianchi, fondatore nel lontano 1965, due monaci e una monaca dovranno abbandonare Bose e trasferirsi altrove. Il testo è stato letto e presentato ai diretti interessati il 26 maggio. Il decreto segue una «visita canonica», motivata da «certi aspetti problematici per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno» nella comunità oggi guidata dal monaco Luciano Manicardi dopo le dimissioni di Bianchi nel 2017. Ancora un tassello: l’ex priore Enzo Bianchi, in una nota, si è appellato alla Santa Sede «perché ci aiuti e, se abbiamo fatto qualcosa che contrasta la comunione, ci venga detto. Da parte nostra, nel pentimento siamo disposti a chiedere e a dare misericordia». Ma in realtà Roma locuta, Roma ha già parlato. E «qualcosa» è stato davvero fatto, a quanto pare.
Finita la causa, vale la pena di “guardare dentro” la situazione. Una tipica situazione ecclesiale a metà tra grandi ideali e impegni a livello mondiale e la pochezza tipica delle rivalità e gelosie. Umano, troppo umano, dunque. La comunità di Bose è peculiare: «monastica» ma non riconosciuta nell’Ordo monasticum; non ha quindi le forme giuridiche e amministrative classiche delle abbazie, né il sistema di pesi e contrappesi comuni ai monasteri. In secondo luogo, è una comunità laica: né Bianchi né gli altri monaci interessati alle disposizioni sono parte del clero e la comunità non fa riferimento al dicastero dei religiosi. L’intervento vaticano è “atipico” perché non avrebbe giurisdizione diretta e proprio per questo si comprende la gravità della situazione, tolta dal controllo del vescovo locale, al quale poteva andare “per competenza” territoriale. C’è poi un problema comune alle esperienze del dopo Concilio Vaticano II, destinato ad acuirsi nell’immediato futuro. Dopo il Concilio sono nati molti movimenti e forme associative: Focolarini, Sant’Egidio, Neocatecumenali e tanti altri, giuridicamente riconosciuti dalla Chiesa. A differenza degli Ordini e Congregazioni religiose più antiche, questi sono attesi alla prova del cosa accade dopo che il “Fondatore” si fa da parte o muore.
La seconda generazione saprà reggere oppure no? Le regole di vita saranno abbastanza solide? È la chiave di volta decisiva per dire se un’esperienza ecclesiale ha un futuro oppure è destinata a finire presto. I Legionari di Cristo, ad esempio, sono stati capaci di rinnovarsi dopo gli scandali che hanno travolto il loro fondatore Maciel, i cui abusi di potere (e sessuali) hanno rischiato di travolgere tutto l’istituto.
Ma quando il “fondatore” è ancora in vita e si fa da parte, che cosa accade? È ancora un fatto nuovo, poco regolato. E i problemi eccoli qui. Le procedure chiare ci sono per i vescovi: quando uno va in pensione si ritira altrove per non interferire con il successore. Nelle congregazioni religiose le procedure sono consolidate: un superiore generale termina l’incarico e si trasferisce continuando nel suo lavoro apostolico senza problemi. Il caso di Bose vede il “fondatore” lì, mettendo alla prova la capacità di riuscire ad andare d’accordo accettando un ruolo di secondo piano e – fatto delicatissimo – lasciando che la “creatura” da lui fondata affronti la prova della maturità e decida come e cosa fare in futuro. A Bose ci si è incagliati nelle diatribe, come lasciano trasparire gli scarni comunicati.
E non si tratta di “complottismi” (siccome Bose e Bianchi sono cari a papa Francesco, “commissariare” è un attacco al Papa). Si tratta proprio di incapacità a gestire i rapporti interpersonali. Non a caso è la nota dolente della Chiesa che stenta ad accettare una realtà interpersonale che è anche fatta di gelosie, rancori, rivalità, carrierismi. Una Chiesa in cui la formazione teologica del clero è di buona qualità ma la dimensione umana e la capacità gestionale-relazionale sono carenti. Del resto alla Chiesa non serve il “consenso”: lo Spirito Santo basta e avanza per tutti. Salvo scoprire che nella realtà i rapporti non vanno proprio così e la tentazione del potere e della prevaricazione è sempre forte. Lo si diceva per gli abusi: i “colpevoli” approfittano del loro “potere sacro” per soggiogare i minori. È un tema bollente, non analizzato ancora abbastanza. Gli psicologi sanno bene che il conflitto è una “chiave” per comprendere il clima relazionale e le dinamiche presenti tra le persone. Temi poco abituali nel mondo cattolico che preferisce un’immagine idealizzata (una grande e buona “famiglia” unita dal compito di annunciare il Vangelo) ed è poco incline ad analizzare le difficoltà delle interazioni. Nelle organizzazioni (si pensi alle analisi di M. Kets de Vries e D. Miller, pubblicate in italiano da Cortina Editore) si presentano di frequente situazioni di doppio legame per stroncare i tentativi di creare fiducia reciproca. Si provoca ira, si soffocano conflitti, si incoraggia un’atmosfera di falso consenso. È il caso del sacerdote che decide tutto da solo o al massimo con un piccolo gruppo che gestisce attività e sceglie le persone in base a criteri poco trasparenti.
E nella Chiesa? Papa Francesco dall’inizio del pontificato ha ripetutamente stigmatizzato “pettegolezzo” e “chiacchiericcio”. Nel 2014 a cardinali e vescovi della Curia romana aveva descritto 15 tipi di “malattie”: dal carrierismo al desiderio di potere, dall’approfittarsi degli altri al sentirsi immortali, fino alla «schizofrenia esistenziale» di chi vive una doppia vita «frutto – disse – dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare». Il rimedio? Pregare e cambiare. Certo, ma in concreto come si esce dalle «secche» di rapporti interpersonali bloccati? La soluzione a Bose è esemplare: allontanare alcuni per lasciar lavorare gli altri. Del resto la problematica è antica: le divisioni sono già state raccontate da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: «Non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, E io di Cefa, E io di Cristo!».
Come se ne esce?. Sappiamo che nelle strutture religiose, come altrove, si litiga e ci si accapiglia per il prestigio e per il potere. Tanto vale ammetterlo e non ammantarlo di religiosità, trovando strumenti per affrontare i dissidi in maniera intelligente e matura. Magari andrebbe superata ogni sospetto tra psicologia e teologia. La teologia potrebbe utilizzare ad esempio la teoria di derivazione junghiana dei «Tipi» per comprendere le «differenze individuali» e contribuire a rendere la Chiesa (e forse il mondo) un luogo dove le persone litighino di meno e lavorino di più per il bene dell’umanità.
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Avvenire – L’allontanamento di Enzo Bianchi da Bose, si tenta ancora il dialogo, di Luciano Moia mercoledì 27 maggio 2020
Si cercano soluzioni condivise dopo il decreto che ha imposto all’ex priore di lasciare la comunità. Ma Bianchi invoca l’aiuto della Santa Sede
Ritrovare la rotta in mezzo alla burrasca. È la grande sfida della Comunità di Bose che sta attraversando il momento più cupo della sua storia. Il giorno dopo il terremoto, i fratelli e le sorelle di Bose – una novantina sparsi in cinque comunità oltre alla sede storica nel Biellese – hanno scelto il silenzio.
L’ex priore Enzo Bianchi invece, in una nota, si appella alla Santa Sede «perché ci aiuti e, se abbiamo fatto qualcosa che contrasta la comunione, ci venga detto. Da parte nostra, nel pentimento siamo disposti a chiedere e a dare misericordia».
Ci vorrà tempo però per rimarginare quella che comunque, rimane una ferita profonda e dolorosa. Una cosa è certa. Indietro non si può tornare. Perché il decreto, datato 13 maggio 2020, che porta la firma del segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ed è stato «approvato in forma specifica dal Papa», non è appellabile. Il documento impone al fondatore di Bose, l’ex priore Enzo Bianchi, di allontanarsi dalla comunità «e trasferirsi in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualmente detenuti». La stessa imposizione che dovranno osservare altri due fratelli di Bose, Goffredo Boselli e Lino Breda. E una sorella, Antonella Casiraghi.
Una decisione dolorosa che è però frutto di un lungo e sofferto discernimento. Come lungo e sofferto è stato per Bose quest’ultimo triennio, da quando cioè nel 2017 Enzo Bianchi aveva deciso di cedere la guida della comunità ed era stato eletto al suo posto fratel Luciano Manicardi. Una svolta consensuale, anzi auspicata dallo stesso fondatore, che però non ha dato i frutti sperati. Anzi si è tradotta in frequenti momenti di incomprensione «per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno», si legge nel comunicato apparso sul sito di Bose.
Oggi però Enzo Bianchi ha spiegato di non aver mai contestato «con parole o fatti l’autorità del legittimo priore Luciano Manicardi, un mio collaboratore stretto per più di vent’anni, quale maestro dei novizi e vicepriore della comunità, che ha condiviso con me in piena comunione decisioni e responsabilità».
Di fatto però la comunità è stata costretta per mesi a vivere in bilico tra il rispetto per la presenza importante del fondatore, con tutto il peso del suo carisma, e la fatica del nuovo priore di individuare nuove modalità per rilanciare il percorso profetico tracciato 55 anni fa, una coraggiosa sfida ecumenica che ha saputo rappresentare una voce di speranza per i cristiani di ogni confessione.
Anche Bose aveva però da tempo la necessità di trovare nuove modalità per vivere pienamente il suo carisma, per rimettere a punto «le linee portanti di un processo di rinnovamento che – come auspicato dalla comunità stessa – infonderà rinnovato slancio alla nostra vita monastica ed ecumenica». In questo progetto è apparso ai visitatori apostolici – la delegazione vaticana era composta dall’abate Guillermo Leon Arboleda Tamayo, da padre Amedeo Cencini e da suor M. Anne-Emmanuelle Devéche, abbadessa di Blauvac – che dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020 sono rimasti a Bose raccogliendo testimonianze e pregando insieme ai fratelli, che la presenza del fondatore potesse rappresentare motivo di incomprensioni e non agevolare la risoluzione di problemi e tensioni. Troppo forte la personalità di Enzo Bianchi per non rischiare che quella ricchezza si traducesse anche in un ingombro. Come lui stesso ieri ha ammesso: «Comprendo che la mia presenza possa essere stata un problema».
Ora la grande prova è rappresentata dallo sforzo di evitare strappi troppo dolorosi. Nessuno, evidentemente, avrebbe desiderato che la situazione giungesse a questo punto. Né certamente il Vaticano, né la comunità che ha sopportato mesi di incomprensioni e di fatiche relazionali. E ancora meno Enzo Bianchi che ora però vorrebbe una soluzione meno traumatica, magari con la possibilità di continuare a risiedere in quell’angolo di Piemonte, sulla serra di Ivrea, in cui ha cercato per oltre mezzo secolo di ricreare il clima e le modalità della Chiesa delle origini. Il dialogo quindi, coordinato da padre Amedeo Cencini, cui è stato affidato l’incarico di delegato pontificio, non si ferma e l’auspicio di tutti è che, nel rispetto del decreto della Segreteria di Stato, si possa arrivare ad una soluzione condivisa.
Sarebbe spiacevole disperdere un percorso d’unità che ha segnato nell’ultimo mezzo secolo una traccia luminosa nella vita della Chiesa.
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Comunità di Bose, Bettazzi l’ultimo vescovo del Vaticano II: “Enzo Bianchi fa bene a chiedere al Vaticano le prove, deve potersi difendere”
Il vescovo emerito di Ivrea, storico leader di Pax Christi: “Le difficoltà con gli emeriti ci sono sempre state. Lo dissero anche a me di allontanarmi da Ivrea. Ma nel caso di padre Bianchi sapevo che erano d’accordo con il nuovo priore per vivere ancora insieme, così come ha insistito la comunità”
“Non riesco a darmi una ragione di quello che sta accadendo alla comunità di Bose. Enzo Bianchi fa bene a chiedere al Vaticano di conoscere le prove delle loro mancanze e di potersi difendere da false accuse”. A parlare è monsignor Luigi Bettazzi, 96 anni, vescovo emerito di Ivrea e amico della comunità. E’ l’unico vescovo cattolico italiano oggi vivente che ha preso parte al Concilio Vaticano II ed è stato fondamentale nella nascita e nella crescita della comunità. Nel 1968 è stato nominato presidente nazionale di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, e nel 1978 ne è diventato presidente internazionale, fino al 1985 vincendo per i suoi meriti il Premio Internazionale dell’Unesco per l’Educazione alla Pace. Oggi vive ad Albiano di Ivrea, a pochi chilometri da Bose, che fino a qualche anno fa frequentava abitualmente.
Monsignor Bettazzi, cosa sta accadendo alla comunità di Bose?
Io credo che abbia ragione Enzo a chiedere al Vaticano le ragioni di una simile scelta. Le difficoltà con gli emeriti ci sono sempre state. Anche a me dissero che sarebbe stato meglio che mi allontanassi da Ivrea. Ma nel caso di Bose so che il nuovo priore Luciano Manicardi e il fondatore, Bianchi, erano d’accordo nel continuare a vivere insieme. Anzi sembra che la comunità stessa abbia insistito con Enzo perché restasse.
Quale soluzione si può prospettare dopo una sentenza definitiva e inappellabile come quella emessa dalla Santa Sede?
Mi auguro che si possa trovare un accordo. Questa vicenda sarebbe dovuta accadere nel silenzio ma non è stato così. Serve che il fondatore e il priore ritrovino una sintonia. Tra l’altro Enzo vive da tempo nel suo eremo, si ritrova con i fratelli e le sorelle per la preghiera ma non ci sono motivi per uno scontro. Credo che a questo punto l’intera comunità abbia diritto a sapere quali colpevolezze hanno Bianchi, Lino Breda, Goffredo Boselli e la sorella Antonella Casiraghi.
Non le sembra che vi sia un tentativo di “romanizzare” Bose messo in atto da ambienti contrari al Papa?
Non so, guardi. In queste ore ho sentito dire di tutto, si è parlato anche di investimenti ma son tutti pensieri senza fondamenta. E’ vero che la comunità si è allargata, ha sedi in Umbria, in Toscana, in Puglia ma questo è perché tanti cristiani sono vicini a Bose e la sostengono. Qualcuno mi ha detto che stavano per acquisire un edificio a Roma ma non mi sembra comunque un motivo valido per arrivare ad un simile provvedimento.
Ha sentito padre Bianchi?
Non l’ho ancora fatto. Ero molto amico di Enzo ma è troppo tempo che sono lontano. Ciò che mi sconcerta è l’aver reso pubblico tutta questa vicenda. Son convinto che si tratti dei soliti problemi tra l’emerito e il suo successore. D’altro canto lo stesso Enzo quando ha lasciato l’incarico da priore aveva detto: “Oggi i giovani non li capisco più”.
Resta una ferita all’interno della Chiesa?
“Certo. Bose è una comunità gradita a tutti soprattutto per i contatti con l’Oriente e gli ortodossi. Aspettiamo di vedere che succede. Se Enzo e gli altri dovessero andarsene, non c’è dubbio che dovrebbero trovare un posto dove essere autonomi e dove non creare troppi problemi”.
La decisione di Papa Francesco di rimuovere il monaco dalla comunità da lui fondata ha aperto un grande dibattito nel mondo cattolico e tra gli esperti, divisi sulla bontà della scelta del Pontefice. Nel frattempo sono i giorni di silenzio e di trattative. Accordi che si cercano con l’attuale priore Luciano Manicardi e con Roma alla quale si chiede una sospensione del provvedimento
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Il fatto quotidiano, di Alex Corlazzoli |
Tra meno di 48 ore il fondatore di Bose, Enzo Bianchi, dovrà lasciare la sua comunità. Con lui se ne dovrebbero andare altri due fratelli e una sorella molto legati all’ex priore: Lino Breda, Goffredo Boselli e Antonella Casiraghi. In queste ore la tensione in comunità è palpabile. I quattro espulsi dal decreto della Santa Sede stanno vivendo queste giornate a Bose. Bianchi raccolto nel suo eremo risponde a poche persone. Ha deciso di non rilasciare per ora interviste. E’ tempo di silenzio e di trattative. Accordi che si cercano con l’attuale priore Luciano Manicardi e con Roma alla quale si chiede una sospensione del provvedimento. Intanto chi conosce il Vaticano e la comunità prova a spiegare quanto sta accadendo.
“C’è stata l’ingenuità di essersi appellati al Vaticano per dirimere una questione interna. Purtroppo sono loro ad aver legittimato un intervento che di per sé è illegittimo perché la comunità di Bose non è passibile di una visita apostolica. E’ una comunità di laici che segue soprattutto la tradizione ortodossa che al massimo ha come riferimento il Vescovo locale. L’attuale responsabile, Manicardi, e anche qualcun altro che ha autorevolezza hanno legittimato questo intervento. Del caso ha approfittato la curia per normalizzare un’esperienza che non rientrava nei ranghi, difficile da gestire dall’esterno”.
A fare questa analisi è uno dei più importanti teologi italiani, Giuseppe Ruggieri. Le sue parole sono nette e chiare: “Hanno ucciso il padre mediante interposta persona. Capisco il disagio, conosco molto bene padre Enzo: è una personalità debordante, è il fondatore, il padre della comunità; pretendere che rientrasse in un ruolo da vecchio nonno è impossibile. Enzo è il fondatore, quella è una sua creatura. E’ impossibile pensare Bose senza Bianchi”. Ruggieri come ha fatto Alberto Melloni su Repubblica ricorda altri due casi analoghi: quello di Dario Viganò e del capo della gendarmeria vaticana Domenico Giani.
“Papa Francesco – spiega il teologo – ha ceduto in quelle situazioni. Ora che questo sia un caso simile tutto lo fa pensare”. Ruggieri esclude la possibilità che Bianchi possa creare una nuova realtà: “Una comunità contestatrice di chi e di chi che cosa? Un altro figlio contro il figlio che ha generato?”. Di tutt’altro parere Raniero La Valle, giornalista esperto del Concilio Vaticano II: “Non c’è alcuna intenzione punitiva o di repressione nei confronti di Bose. Papa Francesco ha sempre apprezzato il cammino intrapreso dalla comunità piemontese. Se si è resa necessaria una decisione come quella che ci ha addolorato evidentemente non è per porre fine o stroncare questo carisma ma per difenderlo, preservarlo e farlo crescere”.
La Valle non vede alcuna “faida vaticana” dietro questa decisione presa da Roma: “E’ un momento di crisi della comunità perché ciascuno ha la sua personalità. E’ difficile mettere assieme esperienze e sensibilità diverse. Non è in discussione l’esperienza di Bose. Papa Francesco ha capito benissimo l’esperienza di Bose e l’ha incoraggiata. Se adesso ha preso questa decisione con il cardinale Parolin non è certo perché si è fatto influenzare da qualche corrente integralista. Tutte le cose che fa Papa Bergoglio le fa con grande discernimento e preghiera. Su una cosa di questo genere non si è fatto sviare”. Infine azzarda un consiglio all’ex fondatore: “Se sono monaci hanno fatto voto di obbedienza, comunione e servizio è certo che devono andarsene. Che fanno altrimenti: protestano? Fanno una secessione? Devono accettare questa decisione presa con molta circospezione attraverso un colloquio durato più di un mese con tutti i membri della comunità. Dopo potrà anche esserci una riconciliazione ma in questo momento non c’è altro che questa strada”.