Lo statuto dei lavoratori: mezzo secolo di diritti, di Giacomo Meloni

Cinquant’anni fa, il 20 maggio 1970, venne pubblicata la legge n.300, lo Statuto dei lavoratori: la ricorrenza è l’occasione per il ricordo di un evento che ha segnato la storia collettiva ed individuale di un’ampia generazione. All’articolo del segretario della Confederazione Sindacale Sarda segue il servizio speciale che la  LETTURA, settimanale culturale de ‘Il corriere della sera’ ha dedicato il 17 maggio 2020.

ANCH’IO all’epoca avevo 23 anni e frequentavo il Movimento Studentesco della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari,dove erano presenti molti Gruppi politici appartenenti alla Galassia Extraparlamentare.
Ricordo che avevamo dedicato più giornate di discussione allo Statuto dei Lavoratori, rilevando posizioni differenziate tra i vari Movimenti: Il PCd’I era fortemente contrario come pure Servire il Popolo.Seguivamo il dibattito parlamentare e molti di noi, certo non sindacalizzati perché ancora legati prevalentemente agli studi universitari, erano favorevoli alla Legge, soprattutto quelli che provenivano da ambienti vicini al Partito Socialista e quelli dell’Area Cattolica.Il testo della Legge 300 fu prima votato al Senato ed in seconda lettura fu approvato alla Camera dei Deputati con 217 voti a favore. Votò SI la maggioranza di Centro Sinistra: DC,PSI e PSDI unificati nel PSU;come pure votò Si il PRI e il PLI che facevano parte dell’opposizione. Destò clamore l’astensione del PCI, del PSIUP e del MSI .I voti contrari furono 10.La posizione del PCI, che in questo punto coincideva anche con i Movimenti extraparlamentari, era la richiesta non accolta di estendere lo Statuto dei Lavoratori alle Aziende sotto i 16 dipendenti e la mancanza nel testo di norme contro i licenziamenti collettivi discriminatori.
Già allora, però, forte era la richiesta da parte dei Collettivi e Consigli di fabbrica di costituire le Rappresentanze Sindacali Aziendali, aperte anche ai nascenti Sindacati di Base non firmatari di Accordi a livello Nazionale o Provinciale. Questo fu il limite oggettivo che pesò molto nelle vicende sindacali degli anni successivi fino alla Referendum sullo Statuto,promosso dai Radicali di Pannella, ma sostenuto anche dal PCI, che voleva fortemente la modifica dell’art.19 sulle Rappresentanze Sindacali. Si dovette attendere vent’anni per l’Accordo Quadro Nazionale tra Confindustria e CGIL/CISL/UIL per la costituzione delle RSU/RLLS, che,come noto, nel Settore Privato, mantiene per gli altri Sindacati minori l’obbligo della sottoscrizione di detto Accordo come condizione necessaria per presentare lista alle elezioni RSU ed il vincolo assurdo della nomina dei delegati da parte delle Segreterie di CGIL/CISL/UIL, qualora tra gli eletti non figurino loro delegati. Ad una mia precisa domanda nel corso di una assemblea all’Università di Cagliari, uno degli estensori di detta norma, un professore dell’Università di Torino, oppose l’argomentazione che fosse corretto dare questo vantaggio ai Sindacati storici come riconoscimento dovuto per l’impegno sindacale profuso nel corso degli anni in Italia. L’assemblea gli si rivolse contro ed il professore fu contestato apertamente.
Per il settore Pubblico questa norma fu cassata per evidente incostituzionalità su ricorso delle RdB/CSS/CUB.
Certamente, celebrando i 50 anni dalla sua approvazione, come afferma Prof.Andrea Pubusa nel suo articolo di oggi 20 maggio 2020, lo Satuto dei Lavoratori segnò una vera rivoluzione nelle Relazioni Industriali -sindacali. Lo posso testimoniare, avendo fin dal 1973 ricoperto ruoli sindacali nella mia categoria lavorativa via via sempre più importanti a tutti i livelli provinciale, regionale e nazionale nel Sindacato Postelegrafonici ed anche a livello Confederale in CGIL nel Direttivo della Camera del Lavoro di Cagliari, nel Consiglio dei Revisori e come consigliere nel Consiglio Regionale della stessa Confederazione fino al 1984, data in cui mi dimisi dalla CGIL e scelsi di aderire alla Confederazione Sindacale Sarda-CSS, di cui mi onoro essere il Segretario Nazionale fin dal mese di febbraio del 1992, sempre rieletto dal III al VII Congresso Naz.le .
Lo Statuto dei Lavoratori fu alla base delle Riforme del Diritto del Lavoro, modificò radicalmente i Contratti Collettivi Nazionali, favorì una legislazione moderna ed efficace anche in campo pensionistico e dell’assistenza sociale, favorendo l’introduzione del punto unico di contingenza e la Riforma del Servizio Sanitario Nazionale (L.8333/78) .
Fa bene il prof. Pubusa a richiamare le conquiste nel campo del Diritto del Lavoro della Legge 300/1970,ma diventa obbligo ricordare come nel corso degli anni questa Legge sia stata svuotata e tradita sia da Governi di Centro/Destra sia purtroppo anche da Governi di Centro Sinistra,pur avendo avuto dei Ministri del Lavoro intelligenti e capaci.
Faccio riferimento in particolare ai Governi Prodi, nel quale il Ministro del Lavoro Tiziano Treu introdusse il lavoro flessibile e le assunzioni a tempo determinato con varie tipologie contrattuali fino ai Governi catastrofici di Renzi durante il quale si attuò lo scippo dell’art.18 della Legge 300/70

Giacomo Meloni segr.Naz.le CSS

 

 

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A cinquant’anni dall’approvazione delle norme che assicuravano a operai e impiegati diritti fino ad allora misconosciuti, si confrontano due giuristi con idee diverse sul valore di quella svolta. Secondo Pietro

Ichino (docente, ex parlamentare) l’articolo 18, ora riformato, garantiva troppo alcune categorie, rovesciando su altri la flessibilità necessaria alle imprese. Vincenzo Bavaro

(docente, membro della consulta giuridica della Cgil) ritiene che sarebbe giusto estendere a tutti la tutela riconosciuta allora solo ad alcuni

Acinquant’anni dall’approvazione dello statuto dei lavoratori, avvenuta il 20 maggio 1970, rievochiamo quella svolta ed esaminiamo gli attuali problemi dei rapporti tra aziende e dipendenti con due giuslavoristi di opinioni diverse: Vincenzo Bavaro, membro della consulta giuridica della Cgil, e Pietro Ichino, ex parlamentare del Pd e di Scelta civica. Che cosa significò, mezzo secolo fa, l’entrata in vigore della legge?

VINCENZO BAVARO — Lo statuto dei lavoratori viene subito dopo l’autunno caldo del 1969, stagione d’intense lotte sindacali, e ne raccoglie le principali istanze. Da una parte stabilisce tutele individuali: garantisce l’esercizio delle libertà di opinione in fabbrica, limita rigorosamente le perquisizioni, vieta le schedature dei dipendenti, fino allora usuali in molte aziende, vieta atti discriminatori, rafforza le garanzie contro i licenziamenti immotivati con l’articolo 18 e la tutela reintegratoria. Dall’altra sostiene questi diritti promuovendo l’attività sindacale in ogni luogo di lavoro, tenuto conto che in precedenza essa aveva incontrato ostacoli di ogni tipo dove non prevista da contratti collettivi.

PIETRO ICHINO — Lo statuto, a dispetto di alcune critiche, era una legge molto ben scritta: a differenza di quelle attuali, esemplare per semplicità e chiarezza. Il testo, stampato in milioni di copie, poté essere letto e capito da tutti, anche dai meno istruiti. Questo consentì di cambiare la cultura del lavoro, rendendo dovunque effettivi diritti fino allora tenuti fuori dalle fabbriche. Oltre al recepimento delle norme contrattuali di sostegno al sindacato nei luoghi di lavoro, cui ha accennato Bavaro, venne riconosciuto il «diritto alla riservatezza» (la privacy anglosassone) del lavoratore, espressio

ne usata qui, in questo significato tecnico, per la prima volta nella legislazione italiana. Infine, con l’articolo 18, venne introdotta una disciplina ispirata al regime della job property tipico del pubblico impiego: la reintegrazione del dipendente licenziato con una motivazione, sul piano disciplinare o economico-organizzativo, ritenuta dal giudice insufficiente. Si tratta dell’aspetto dello statuto a mio avviso più discutibile, che è stato ultimamente oggetto di incisive modifiche. Per quale ragione?

PIETRO ICHINO — Il disegno di legge governativo, elaborato da Gino Giugni, limitava la reintegrazione ai casi di licenziamento discriminatorio o per rappresaglia antisindacale, mentre prevedeva un indennizzo rafforzato per gli altri casi di irregolarità. Senonché un emendamento del Pci estese la possibilità della reintegrazione a questi altri casi, rendendo così il giudice del lavoro arbitro finale delle scelte di gestione aziendale: norma sbagliata, perché in un’aula giudiziale non si può valutare la previsione dell’imprenditore su ciò che porterà o non porterà un guadagno o una perdita. In positivo, invece, va aggiunto che lo statuto conteneva in nuce, nell’articolo 28, una riforma del processo del lavoro, che venne poi portata a compimento nel 1973 assicu

rando tempi rapidi alle cause del lavoro e conferendo ai magistrati gli strumenti necessari per rendere effettivi i diritti garantiti dallo statuto: avrebbe meritato di essere assunta come modello per una riforma generale del processo civile.

Perché il Pci si astenne sullo statuto, anche se il suo emendamento sui licenziamenti era passato?

VINCENZO BAVARO — La ragione principale della critica del Pci riguardò la divaricazione tra le tutele garantite ai lavoratori di imprese con più di 15 dipendenti e il trattamento degli addetti di aziende escluse dall’applicazione dell’articolo 18: un argomento che mi pare ancora più valido oggi. Inoltre i comunisti avrebbero voluto un pieno riconoscimento del diritto di sciopero per i dipendenti pubblici, il cui regime era diverso da quello del settore privato. Alcune perplessità furono sollevate per il fatto che le rappresentanze sindacali aziendali erano vincolate al collegamento organizzativo con i sindacati confederali (in particolare Cgil, Cisl e Uil), quindi il movimento dei consigli di fabbrica veniva incanalato verso una maggiore capacità organizzativa politico-sindacale. E il nodo dell’articolo 18?

VINCENZO BAVARO — Il Pci aveva approvato la legge del 1966 che introduceva l’obbligo di giustificare il licenziamento, mentre avevano votato contro le destre e alcuni democristiani legati alla Cisl, secondo i quali si trattava di materia di pertinenza della contrattazione e non della legge. La scelta dello statuto di allargare la tutela reintegratoria a tutte le ipotesi di licenziamento ingiustificato era figlia del principio sancito quattro anni prima. Che l’illegittimità derivasse da un atto discriminatorio o dall’insussistenza delle ragioni addotte sul piano organizzativo, per coerenza logica e politica richiedeva di essere sanzionata con il ripristino del rapporto interrotto abusivamente.

PIETRO ICHINO — La legge 604 del 1966 manteneva però distinto il licenziamento discriminatorio o per rappresaglia, considerato nullo, dal caso del difetto di motivazione, per il quale la sanzione prevista era un indennizzo. Quanto all’astensione del Pci, allora lavoravo alla Fiom-Cgil e ricordo bene come ci si arrivò. Il Pci era premuto da forze radicali, nate dal Sessantotto e dall’autunno caldo ma presenti anche nella Cgil, che imputavano alla nuova legge il disegno di ingabbiare le lotte operaie. Nel partito Pietro Ingrao era in sintonia con queste pulsioni movimentiste, mentre Giorgio Amendola difendeva l’impianto fondato sulle sezioni sindacali aziendali, organi delle confederazioni nei luoghi di lavoro, e sulle commissioni interne. Nel 1972 le due anime del partito avrebbero finito per trovare un compromesso, quando i consigli di fabbrica eletti dai lavoratori furono riconosciuti come strutture di base del sindacato unitario e abilitati alla contrattazione, inglobando però le vecchie commissioni interne, che rappresentavano l’«aristocrazia operaia» e non venivano azzerate. Sta di fatto che nel 1970, prima del compromesso, le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) previste dallo statuto erano organi del sindacato, che trovavano la loro legittimazione nel rapporto con le strutture confederali, mentre il movimento dei consigli di fabbrica considerava decisiva solo l’investitura dei delegati dal basso: quando il guscio delle Rsa non era stato ancora riempito con i consigli dei delegati, e dunque tra la realtà del movimento e il contenuto della legge c’era ancora una notevole divaricazione, l’astensione del Pci serviva a mantenere aperto il dialogo tra l’anima amendoliana e quella ingraiana.

Si dice che lo statuto da un lato divise i lavoratori tra garantiti e non garantiti, dall’altro impose vincoli eccessivi alle imprese. Sono rilievi fondati? VINCENZO BAVARO — Il primo rilievo è fondato, il secondo no. Le tutele dei diritti individuali di libertà valgono per tutti, ma l’articolo 18 e le norme di sostegno

e promozione dell’attività sindacale si applicano solo nelle aziende medio-grandi, con più di 15 dipendenti. Riguardo all’aspetto sindacale, la differenza si poteva giustificare, in quanto regole del genere non si adattano bene alle piccole imprese, anche se spesso la contrattazione, oggi, le estende anche a realtà di dimensioni ridotte. Ben più importante è la disparità in fatto di tutela dal licenziamento, che senza dubbio crea una separazione tra i lavoratori. Sulla questione si è pronunciata una sola volta, nel 1990, la Corte costituzionale, giustificando il regime differenziato con le caratteristiche peculiari delle piccole aziende, quali la maggiore fragilità economica e il rapporto fiduciario vigente tra datore di lavoro e dipendenti. A me sembrano argomenti discutibili, ma il fatto che la divisione tra i lavoratori ci sia sempre stata, fino a ora, ci aiuta a capire perché non regge la seconda critica mossa allo statuto. In che senso?

VINCENZO BAVARO — Poniamoci una semplice domanda: il segmento produttivo delle piccole imprese, dove lo statuto non è stato applicato nei suoi contenuti più vincolanti (articolo 18 e diritti sindacali), ha fatto registrare uno sviluppo più solido e dinamico rispetto alla grande industria? Nessuno può affermarlo. Anzi, la stessa esperienza della crisi causata dal Covid-19 dimostra che buone relazioni industriali, con una presenza attiva del sindacato in azienda, aiutano nei momenti di difficoltà. Ristrutturazioni e innovazioni, per funzionare, richiedono la collaborazione della manodopera, anche se ottenerla richiede uno sforzo: è la fatica della democrazia industriale, come della democrazia in generale. Di certo, restare fuori dall’applicazione dello statuto non ha affatto garantito la prosperità delle imprese con meno dipendenti.

PIETRO ICHINO — La mia visione è un po’ diversa. La soglia dei 15 dipendenti posta dallo statuto, che abbassava quella di 35 fissata dalla legge del 1966, segnò il confine tra 5-6 milioni di addetti alle imprese medio-grandi, beneficiari del regime di job property, e 4-5 milioni di lavoratori subordinati, ai quali veniva accollata tutta la flessibilità di cui il sistema non poteva fare a meno. Secondo Bavaro e molti altri, si doveva estendere l’applicazione dell’articolo 18 a tutti; ma se ad alcuni si garantisce la job property, è inevitabile che ci sia qualcun altro che porta il peso della flessibilità di cui l’impresa ha bisogno. Appunto questo è accaduto nel tessuto produttivo, sia con l’esternalizzazione di servizi alle piccole imprese appaltatrici, sia con l’ampliamento del ricorso al lavoro non stabile: contratti a termine o rapporti di collaborazione. Il dualismo tra iperprotetti e poco protetti, con l’articolo 18, era prevedibile e inevitabile. Lei approva il superamento di quel regime operato negli ultimi anni?

PIETRO ICHINO — Considero molto sensata la riforma attuata fra il 2012 e il 2015, con la legge Fornero e poi con il Jobs act, che hanno mantenuto la reintegrazione come sanzione per la lesione dei diritti fondamentali, per gli atti discriminatori, a tutela di tutti, qualunque sia la dimensione dell’impresa, ma per il resto hanno superato la job property. Le persone non vanno difese dal mercato del lavoro, cioè dal rischio di dover cercare un nuovo impiego. Bisogna proteggerle nel mercato del lavoro, cioè aiutando chi resta disoccupato, sia con un sostegno al reddito adeguato, sia con l’assistenza necessaria per trovare la nuova occupazione. Ingessare i posti esistenti, in un sistema economico che si trasforma a ritmi rapidi, serve a poco. Quando arriva il temporale, il gesso si scioglie e anche la tutela dell’articolo 18 diventa inutile.

VINCENZO BAVARO — Credo che sia improprio parlare di job property, perché l’articolo 18, nella forma attuale, ma anche in quella del 1970, non stabilisce alcuna proprietà sul posto di lavoro. Se l’azienda va in crisi o riorganizza la produzione in modo da rendere eccedente una parte del personale, siamo in presenza di una circostanza che giustifica il licenziamento degli addetti. Bisogna però distinguere le situazioni che legittimano la fine del rapporto di lavoro dalla tutela che occorre assicurare in caso di licenziamento ingiustificato. Contesto l’idea che l’articolo 18 sia per sua natura fonte di divisione tra categorie. Sono regole il cui perimetro di estensione è una scelta politica. Si può decidere di applicarle a tutti i lavoratori, a una parte di essi o a nessuno,

Bavaro: l’impresa deve assumersi responsabilità invece di scaricare tutti i rischi sui lavoratori Ichino: le persone non vanno difese dal mercato ma nel mercato, con una formazione adeguata

senza che vi sia alcun impedimento tecnico per ciascuna opzione. Dipende dai valori che si ritengono prioritari. Se al primo posto collochiamo la flessibilità, si può mettere in discussione la reintegrazione in ogni caso. Io considero il diritto a non essere licenziati in mancanza di un giustificato motivo un principio fondamentale, perché tale è considerato dalla Costituzione, in via interpretativa, e da diverse fonti sovranazionali, prima fra tutte la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Non c’è alcuna ragione, né teorica né politica, per cui a questo diritto debba essere assegnato un rango inferiore e quindi una tutela attenuata rispetto a quella reintegratoria riservata a chi viene licenziato per ragioni discriminatorie o per ritorsione antisindacale.

PIETRO ICHINO — Io la vedo in un altro modo. Il divieto di discriminazione e la libertà sindacale si collocano su un piano molto diverso rispetto al principio di motivazione del licenziamento ordinario. Come dice Bavaro, di fatto l’articolo 18 consentiva il licenziamento soltanto quando l’impresa era in crisi. Ma l’aggiustamento degli organici deve poter avvenire molto prima che l’azienda sia sull’orlo del fallimento, e proprio per evitare di arrivarci. All’imprenditore deve essere data la possibilità di avviare l’aggiustamento in previsione di eventi futuri, che in quanto tali non si possono dimostrare in tribunale. Se la previsione di una perdita aziendale futura è soggetta al vaglio giudiziale, è inevitabile che il risultato nella maggior parte dei casi sia la conservazione del rapporto di lavoro. È giusto che l’imprenditore sia tenuto a motivare il licenziamento, per la trasparenza delle sue scelte, ma far derivare dal dissenso del giudice sulla motivazione la reintegrazione del dipendente significa sostituire il giudice all’imprenditore e in definitiva burocratizzare le scelte aziendali.

VINCENZO BAVARO — Non bisogna confondere la giustificazione di un licenziamento con il diritto alla tutela dei lavoratori quando la giustificazione non c’è. Le sentenze di Cassazione, in netta prevalenza, giustificano il licenziamento non solo quando l’impresa è prossima al fallimento. Ormai da molti anni si tende a considerare motivo giustificato di licenziamento ragioni legate all’innovazione tecnologica o esigenze di incremento di produttività; e non solo queste. Qui non stiamo parlando della giustificazione del licenziamento, che il giudice valuta e che riconosce più spesso di quanto la neghi. Quello che si discute è la sanzione da applicare quando manca questa giustificazione. D’altronde, coloro che pensano che il giudice non debba esercitare alcuna ingerenza nell’attività aziendale, dovrebbero considerare eccessivo anche l’indennizzo massimo di 36 mensilità previsto oggi per il licenziamento illegittimo. Potrebbero sostenere la dottrina del licenziamento libero; tesi che, in fondo, è nell’animus del pensiero liberista.

PIETRO ICHINO — Le 36 mensilità sono eccessive rispetto a quanto è previsto negli altri Paesi europei. Ma imporre all’azienda un costo economico risponde proprio all’impostazione che ho cercato di esporre prima. L’imprenditore deve essere libero di compiere scelte la cui motivazione, fondata su previsioni soggettive, non è dimostrabile in giudizio, purché sia disposto ad accollarsi un indennizzo, che a ben vedere funge da filtro automatico delle scelte stesse. Il giudice deve controllare il rispetto dei diritti fondamentali della persona, non le ragioni di natura economica, che non è veramente in grado di valutare.

Oggi che l’occupazione è spesso precaria e mal pagata, che cosa si può fare per garantire i diritti dei lavoratori?

VINCENZO BAVARO — Per i fenomeni di sfruttamento non occorrono nuovi istituti normativi, basta applicare quelli esistenti. Perciò sarebbe utile attribuire al sindacato una funzione di controllo e conferirgli la possibilità di agire direttamente in giudizio per combattere gli abusi. Inoltre occorre superare l’eccessiva frammentazione delle situazioni giuridiche, di cui sono espressione i contratti pirata stipulati dai datori di lavoro con organizzazioni sindacali compiacenti. L’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, perciò attribuire titolarità contrattuale ai sindacati più rappresentativi, potrebbe servire a razionalizzare la situazione. Poi c’è il problema di distinguere tra l’esigenza della flessibilità e l’abuso che se ne fa. Serve un patto tra produttori, in cui le parti sociali definiscano che cosa è il lavoro, cioè l’attività organizzata dell’impresa e da cui essa estrae valore, e quale statuto assegnargli, con le relative protezioni. Per esempio, deve valere per il ciclofattorino di Foodora, a cui vanno garantiti diritti analoghi a quelli riconosciuti al dipendente delle poste che consegna la corrispondenza.

PIETRO ICHINO — Con lo statuto si commise un errore grave, collocando la protezione del lavoro interamente all’interno dell’azienda. In fatto di posizione delle persone nel mercato, la legge del 1970 invece rafforzò il monopolio statale del collocamento, che non solo non aiutava la ricerca dell’occupazione, ma la ostacolava. Nello statuto manca ogni riferimento al diritto di ricevere una formazione efficace, che metta in condizione di accedere al lavoro. Così il mercato del lavoro si conferma un luogo pericoloso, da cui tenersi il più possibile alla larga. Però, se scarseggia il lavoro, la formazione non può crearlo dal nulla. PIETRO ICHINO — L’obiezione può valere per il Sud, dove occorre una politica di attrazione del meglio dell’imprenditoria mondiale. Ma nel Centro e Nord Italia, a l l a f i ne del 2 0 1 9 , s ono s t a t i ce ns i t i 1.200.000 posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza di persone dotate delle competenze necessarie per occuparli. A ben vedere, in tempi normali, non è il lavoro che manca, ma i servizi necessari per consentire alle persone di accedere agli impieghi specializzati che le aziende non riescono a coprire. La vera protezione consiste in una rete capillare di servizi che consentano alle persone di rimanere al passo con i ritmi elevati dell’innovazione e rispondere alla fame di lavoro qualificato delle imprese. Per esempio, è inutile cercare di imporre al lavoro organizzato mediante le piattaforme digitali gli schemi di disciplina del rapporto del secolo scorso, del tutto incompatibili; mentre è essenziale mettere gli addetti a quel lavoro in grado di migrare verso occupazioni più redditizie, assicurando loro percorsi efficaci. Ciò significa rilevare in modo capillare i risultati occupazionali di ciascun corso di formazione finanziato con fondi pubblici, pubblicare il tasso di coerenza che ne risulta e finanziare solo i corsi con un tasso superiore al 75%. Una parte del Jobs act (il decreto n. 150/2015) puntava a questo obiettivo, anticipando la riforma costituzionale, ma è rimasta lettera morta per la bocciatura della riforma.

VINCENZO BAVARO — Il monopolio pubblico del collocamento non esiste più da oltre vent’anni, ma non mi sembra che i tassi di occupazione siano migliorati né che il precariato si sia ridotto. Non chiedo certo un ritorno al passato, ma osservo che l’unico risultato tangibile è stato l’apertura di spazi di mercato per le imprese private di collocamento. Sono d’accordo sul diritto dei lavoratori alla formazione, tuttavia non credo che migliorare i servizi forniti in quel campo possa bastare a riassorbire la disoccupazione di massa. Quanto ai lavori precari (con contratti fantasiosi come quelli dei ciclofattorini), non comprendo l’argomento secondo cui imporre alle imprese di piattaforma di avere lavoratori regolarmente subordinati possa costituire un costo insostenibile, visti i notevoli profitti che conseguono. Riconoscere a un rider lo stesso trattamento di chi effettua altri tipi di consegne mi s e mbra un f a t to di gi ust i z i a . Peraltro, dov’è finito il rischio d’impresa? È accettabile che lo si scarichi sempre e soltanto sul lavoro attraverso le svariate forme di esternalizzazione e di precariato? Ridurre i costi è legittimo e comprensibile, ma è un obiettivo che deve essere quanto meno condiviso con il sindacato mediante intese contrattuali, e non semplicemente raggiunto consentendo alle imprese di sfuggire alla loro responsabilità economica, prima ancora che sociale.

PIETRO ICHINO — L’attività dei ciclofattorini ha come elemento essenziale la libertà di non presentarsi al lavoro e di non rispondere a una chiamata: un dato incompatibile con l’orario predeterminato del rapporto subordinato tradizionale e la retribuzione oraria fissa. Si può aumentare il compenso, ma esso non può che essere proporzionato alle consegne effettuate. Vietare il cottimo, come ha fatto il decreto Di Maio dello scorso anno, significa vietare quel tipo di organizzazione del lavoro. Per fortuna è stato concesso un anno di tempo prima che la legge entri in vigore e la possibilità di disciplinare meglio la materia in sede di contrattazione collettiva.

 

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