L’intervista a Benito Urgu, di Mario Frongia

«Furbi e vanitosi. Ma il virus ora ci smaschera»

 

Un giorno senza risate, è un giorno sprecato. «Bella, chi l’ha detta, Charlie Chaplin? Un genio». Benito Urgu sistema l’auricolare. E avverte: «Ho tempo, cosa dobbiamo dirci?». Il tono è serioso. Ma dura poco. Lo showman ha raccontato la Sardegna e la sua gente. Nel profondo, con intelligenza e garbo. Spettacoli e performance con dettagli da manuale di sociologia. La voce arrochita da migliaia di monologhi indimenticabili. Balere, piazze, teatri, studi televisivi e di registrazione. Da Oristano a Cagliari («Sono stato in tutti i comuni sardi»), Milano e Roma. Un tour multicolore durato sessant’anni. Circo e balere. Il timbro è diretto. Perfino sorprendente: «Quest’estate non farò spettacoli». Pausa. «Sì, smetto. Ma l’avrei fatto anche senza il Coronavirus». La mazzata, per una platea sterminata che affianca nonni e nipoti, è pesante. «Ho compiuto 81 anni il 12 gennaio, sto bene con me stesso e mia moglie Anita. Faccio qualcosa su Facebook, tengo allegra la gente, ho tanti fedelissimi». Barzellette, personaggi, imitazioni. Un Everest di ironia e sarcasmo traslocato sul web. La rete applaude Tonteddu, Cicitta è facendo salsiccia, Mattagà, Latte e cozze, Bambinoinculla e Maresciallo Serpis. Tic, linguaggi e smorfie di una sardità annodata nei millenni. Benito, il maestro che si è fatto le ossa da ragazzino al circo Armando («La mia università»), regala emozioni. Ieri in piazza, oggi sui social. Decine di migliaia di followers, numeri mostruosi su Youtube: un milioneduecentomila visualizzazioni per Desolina, quattrocentomila per “Due cagliaritani in America”, mezzo milione di risate per l’intervista con Zola. A Londra con Zola. «La Sardegna capace e tosta somiglia a Gianfranco. Sono stato a Londra suo ospite, avevamo in mente un progetto. Per strada gli facevano l’inchino. Poi, mi guardavano: questo è con Zola, dev’essere importante. E facevano l’inchino anche a me». La gag rapida. Tra onestà e confronto leale. «Molti rubano il mestiere. Però non sfondano. La ragione? Quel che dici e racconti deve essere spontaneo, devi averlo dentro. Se bleffi, si nota». Fede e scienza. Inevitabile la pandemia. La parabola di Benito è curiosa e intrigante: «Tanti non credono al miracolo della vita. Se pensi di aver avuto il diritto a nascere, hai capito poco. Viviamo in una bolla meravigliosa di libertà, scienza e progresso. E anziché godercela, ne abusiamo». Sospiro. «Sì, la fede mi ha accompagnato durante la carriera. Ho una testa pensante e non mi influenza quel che dettano politica o chiesa. Quel che conta è far bene, capire il male, essere fiduciosi e dare fiducia. La vita è una battaglia solo per colpa nostra. Crediamo di essere avanti ma non lo siamo».Pochi rimpianti. Sulla professione, pochi rimpianti. «Ho fatto quel che ho inventato. Qualcuno mi stava attorno e ha provato a portarmi via spicchi di luce. Non ce l’ha fatta. Sai qual è il peccato? Ho dato fiducia a figure che non l’hanno saputa usare. Tanti mi hanno voluto bene, altri hanno fatto i furbi, ma sono rimasti nell’oscurità. Penso che questo virus sia un castigo dall’alto, per colpire vanitosi e arroganti». Donna Anita. Lo scenario del cantastorie si amplia. I colori sono caldi. «Ho attenzione per mia moglie Anita, donna meravigliosa: balliamo, cantiamo e ridiamo». Famiglia, complicità, condivisione. «Anita? Non la faccio arrabbiare mai. In una nuova amicizia chiedo subito, con tua moglie come va? Noi maschietti dovremo eliminare tante stupidaggini. Il rispetto della propria compagna è sacro». E poi la musica, capitolo senza confini. «Ho scritto oltre seicento canzoni. Le canto ancora tutte, hanno un messaggio “Su contu ‘e su baroni”? Storiella semplice, sulle relazioni umane durature: tre persone possono passeggiare e fare un discorso, quattro no. In via Dritta a Oristano va così da sempre. L’ho scritta in dieci minuti. Per “Il twist di Giuannicca” ci ho messo meno». Nel 1977 “Sexy Fonni” sfonda in Italia. Benito sorride. «Dopo, nessun brano su amore e sesso ha quel clamore. Anche Gino Bramieri con “Hotel” ha fatto flop. Sì, è stato un successone ma mi ha procurato tanti guai. Dalle femministe alla leader dei radicali, Adele Faccio: alla radio mi ha urlato di tutto. Dovevo partecipare a “L’altra domenica” con Renzo Arbore ma la curia di Oristano mi ha fatto censurare». Come “Gambale twist”. Il paroliere sorride. «La rivoluzione del pastore che lascia il suo mondo per andare a ballare il twist e fidanzarsi con Filomena. Non per caso il nome di mia mamma. Mio padre? Si chiamava Salvatore. Un tipo duro e burbero. Però faceva sorridere mia madre. Mi sono rivisto in lui nei panni dell’allenatore in “L’uomo che comprò la luna”». Istrione generoso. Tv. teatro, cinema. «Ho girato con Geppi Cucciari, bravissima. Così Gigi Proietti, oro puro. Ho lavorato molto bene con Francesco Pannofino e Stefano Accorsi, grandi artisti. Il più bravo di tutti? Massimo Troisi». Sulla categoria, la bacchettata. «In tanti si sono scordati di diventare veri. Hanno pensato ai cinepanettoni, complici i registi. Bravi attori, come Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, potrebbero dare di più sulla scia della classe dei genitori. La qualità di chi recita la scava il regista. Ho sempre fatto cosette da ridere, quando mi ha chiamato Paolo Zucca, mi ha detto: Benito devi fare così. L’ho fatto, senza fiatare, nell’ “Arbitro” e nell’ “Uomo che comprò la luna”. Una gioia professionale? Aver partecipato ai Nastri d’argento». Brutta patata. Dal grande al piccolo schermo. “Con Ambra Angiolini e Mike Bongiorno facevamo la parodia di Carosello. Cantavo il mio brano “Brutta patata”. Divertente. Panariello? Ha ripreso i miei personaggi e li ha fatti parlare a modo suo. Anni fa mi ha invitato a Roma, al Teatro Parioli. Li ha usati tutti, da Giorgetto di Pirri a Tore Mitraglia. Veniva a vedere i mie spettacoli e si riempiva lo zaino. Gli autori hanno fatto il resto». Benito duetta con Nino Frassica, Alba Parietti e Piero Chiambretti. Desolina. Dai camerini della capitale agli artisti locali. «Ottimi Massimiliano Medda, i Lapola. E Alessandro Pili, ma il suo sindaco ricorda il mio che diceva “Deu, a s’acqua di pongiu fogu!”. Jacopo Cullin? Bravo, studia, è pignolo”. Sulle tante macchiette, icone di fatica e povertà, Signora Desolina è quella preferita. «L’ha scelta il pubblico, ovunque ha sempre avuto successo. Nei giorni scorsi parlavo con un conoscente malato: ha riso a lacrime, non smetteva di ringraziarmi. Posso dirlo? Una gioia infinita».

Da La Nuova Sardegna del 3 maggio 2020

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