Sa die de sa Sardigna compie 27 anni: alcune considerazioni di carattere storico-critico, di Federico Francioni

Premessa28 aprile 1794: il Vespro sardoL’antenato dei denigratoriLa campagna di stampa contro Sa die negli anni Novanta – Critica ad un libro di Benedetto CaltagironeDai problemi del passato a quelli del presentePossiamo negare la valenza storico-politica progressiva del 28 aprile?Conclusioni

 


Premessa. La grave emergenza sanitaria e pandemica che stiamo attraversando non ha fatto venire meno l’impegno di quanti vogliono ricordare nel modo più adeguato Sa die de sa Sardigna che compie oggi – 28 aprile 2020 – ventisette anni: proprio così! Tanti ne sono passati, infatti, da quel 1993, quando il Consiglio regionale della Sardegna approvò la legge n. 44: con questo provvedimento  veniva indetta una giornata, diventata col tempo non tanto di celebrazione, quanto di rievocazione e di rivisitazione storica, di festa, di lotta, di musica, di canto, di teatro e di spettacolo, di riflessione, la più estesa ed approfondita possibile, per il presente ed il futuro del Popolo, anzi, della Nazione sarda; emmo, proite semus una Natzione, si calecunu l’aeret ismentigadu!

Ciò non vuol dire assolutamente negare l’idea di un’Europa solidale, dove le nazioni senza Stato, le minoranze nazionali e linguistiche, dalla nostra isola alla Corsica, dalla Catalogna ai Paesi Baschi, dall’Irlanda alla Scozia, possano svolgere un ruolo connettivo importante, fino all’obiettivo strategico del riconoscimento dei loro insopprimibili diritti. Tutto questo lo abbiamo imparato grazie all’insegnamento ed all’eredità di Carlo Cattaneo (cui si devono acute pagine sulla Sardegna, pubblicate sulla prestigiosa rivista “Il Politecnico”), di Giorgio Asproni (inflessibile oppositore della politica cavourriana, il quale auspicava il rinnovellarsi di un “Vespro sardo”), di Giovanni Battista Tuveri (filosofo, amministratore e deputato federalista), di Antonio Simon Mossa (geniale architetto,  intellettuale poliedrico, sardista ed indipendentista): noi, oggi, in confronto a loro, siamo dei nani che, tuttavia, possono proseguire in un irto sentiero anche camminando sulle spalle di questi giganti, contando sulla loro preziosa eredità!

Nonostante il Covid-19, la Compagnia teatrale “S’Arza” di Sassari non desiste dalla propria attività, che va avanti ormai da anni, per rievocare adeguatamente, con drammatizzazioni storiche in piazza, l’anniversario del 28 aprile: in questi giorni possiamo seguire il Festival virtuale “Primavere sarde” (che si avvale anche della collaborazione di TeleSassari su Facebook), dedicato sopratutto alle lotte antifeudali di fine Settecento: dobbiamo essere grati al regista Romano Foddai, a Paola Dessì, a Stefano Petretto e agli altri attori di questo organismo: l’uso del sardo e del sassarese nei loro spettacoli, per le strade di Sassari, rappresenta una bella, significativa risposta a quegli intellettualoidi nostrani che hanno strumentalmente usato il sassarese contro il sardo anche se a costoro, in verità, di entrambi questi sistemi linguisitici, della loro ufficializzazione, del loro insegnamento, nelle scuole di ogni ordine e grado, non importa proprio un fico secco!

Anche i Circoli degli emigrati sardi sono sempre stati in prima linea – e lo sono anche oggi -  nel promuovere qualificanti iniziative per Sa die, compatibilmente con le norme e le restrizioni in corso per la pandemia. 

28 aprile 1794: il Vespro sardo. Com’è noto, l’anniversario odierno – 28 aprile 2020 – ricorda l’insurrezione popolare di Cagliari contro il governo sabaudo del 28 aprile 1794: oltre al viceré Vincenzo Balbiano – già distintosi nella sanguinosa repressione della sommossa di Sassari del 1780 (quando gli abitanti della mia città diedero il benservito al governatore Claudio Alli di Maccarani) – vennero cacciati 514 fra ministri, ufficiali ed impiegati piemontesi savoiardi e nizzardi; molti di loro si erano distinti per tracotanza ed aperto disprezzo verso la nostra comunità, come viene sottolineato anche dall’inno nazionale sardo di Francesco Ignazio Mannu, Procurade de moderare.

Alcuni giornalisti ed intellettuali hanno sostenuto che si tratterebbe di una data cagliaritanocentrica. Ciò non trova riscontro alcuno nella realtà storica, nella ricerca e nel dibattito storiografico: al riguardo, vorrei in primo luogo citare i cari e compianti Lorenzo Del Piano, Tito Orrù e Carlino Sole, autori di saggi sul Settecento e l’Ottocento sardo. Grazie anche ai loro testi, sappiamo infatti che il moto da Cagliari si estese ad Alghero e a Sassari, dove il governatore sabaudo Alessandro Merli, che intendeva opporsi manu militari allo sgombero, dovette desistere di fronte al drastico rigetto del suo oltranzismo da parte dei rappresentanti dei Gremi, dei notabli ed anche di alcuni nobili della città; ma, soprattutto, il 28 aprile 1794 risulterebbe incomprensibile se non venisse collocato nel quadro del triennio rivoluzionario sardo 1793-96: allora migliaia e migliaia di uomini, donne, giovani, appartenenti al ceto borghese professionale, al mondo artigianale dei Gremi (le antiche corporazioni di arti e mestieri), membri del popolo minuto – dalle città al mondo delle campagne – con parecchi, coraggiosissimi sacerdoti, animarono i moti, anche armati, contro l’assolutismo sabaudo e l’odioso sistema feudale, sostenuto peraltro da teracos locali. Si è trattato del più grande sommovimento sociopolitico che l’isola abbia conosciuto nella sua storia.

L’antenato dei denigratori. Soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta si è tentato in ogni modo di sminuire, disprezzare, se non addirittura di far scomparire custu issèberu, la scelta di tale significativa scadenza. L’operazione veniva da lontano, da un precedente autorevole, magari inconsapevolmente rivissuto e reinterpretato: la prospettiva conservatrice, se non reazionaria e comunque smaccatamente filosabauda di Giuseppe Manno (1786-1868) – storico, magistrato, presidente del Senato subalpino e di quello italiano – definito con la forte espressione “antenato dei denigratori” da uno studioso di notevole rigore e di grande equilibrio come Luciano Carta: il Manno, in breve, quale primo “denigratore” di Giovanni Maria Angioy, docente nell’Università di Cagliari, giudice della Reale Udienza, coltivatore e imprenditore, infine capo delle lotte antifeudali ed antiassolutistiche del 1793-1796, nel quale la giornata del 28 aprile, come si è detto, va doverosamente inserita; pena il perdere di vista quel lasso di tempo, quel contesto che rappresenta, come si è già detto, la più drastica, radicale cesura col passato, verificatasi in tutta la storia dei sardi.

Il Manno – per distruggere l’Angioy sul piano etico-politico e storico – non esitava nel qualificarlo come mandante più o meno occulto della morte (6 luglio 1795) di Gerolamo Pitzolo, intendente generale di finanza, trucidato durante un moto popolare, sfuggito al controllo di esponenti del ceto borghese delle professioni. Il Manno scadeva, altresì, nell’operazione – davvero indegna per uno storico e magistrato – di presentare un seguace dello stesso Angioy, l’ecclesiastico Francesco Carboni (considerato il più grande poeta in lingua latina del suo tempo), comente òmine de Crèsia, chi però pensaiat a sas munneddas de una fèmina minore (e credo d’essermi spiegato).

I testi del Manno costituiscono una dimostrazione imprescindibile per capire che – nel definire un’immagine del passato (così importante per ricostruire e rappresentare un profilo spiccatamente autonomo dell’isola) – la spinta dominante, in Sardegna, non è mai venuta dall’autoesaltazione o dalla mitizzazione dei secoli trascorsi, bensì, al contrario, da un spirito acre, risentito, propenso all’autodenigrazione, al tentativo di cuare, nascondere, in cui si sono specializzati ceti dirigenti politici ed intellettuali con la vocazione plurisecolare alla subalternità, mossi dalla logica di integrarsi nei sistemi di potere di volta in volta dominanti. Tutto questo lo abbiamo colto grazie anche ai contributi etnoantropologici e filosofici di Bachisio Bandinu e di Placido Cherchi, spesso e volentieri accantonati non dagli intellettuali “scalzi”, bensì da quelli adeguatamente “scarpati”. In altro luogo ho coniato l’espressione “incamiciamento dell’identità”, facendo riferimento ad una pratica, manifestatasi in determinate occasioni a Sassari (la mia città), consistente nel distruggere, o nel ricoprire, nell’incamiciare prontamente le peculiarità architettoniche, soprattutto di stile gotico catalano-aragonese, del centro storico. Per non parlare dell’abbattimento delle ville liberty o di quelle progettate dallo stesso Simon Mossa.

La campagna di stampa contro Sa die de “La Nuova Sardegna” negli anni Novanta. Il disegno più ostinato, logico e coerente si è sviluppato a partire dalle analisi e dai giudizi denigratori propri, fra gli altri, del Manno (che rimane pur sempre il più eminente storico ottocentesco dell’isola). Con l’obiettivo dichiarato di porre fine alle iniziative del 28 aprile, di smontarle – per indurre le istituzioni a non parteciparvi più – prendeva corpo sulle pagine del quotidiano sassarese “La Nuova Sardegna” una martellante campagna di stampa. Fra le tante accuse, veniva lanciata quella di Sa die come “mercato delle vacche”, cioè essenziale momento di manovre condotte da furbi e profittatori onde accedere ai finanziamenti della Regione. Potete immaginare i sentimenti provati allora da coloro che erano e sono soliti rimetterci, sempre o quasi, di tasca propria – perché ci credono, perché sono mossi da determinati valori – nel leggere certi articoli, proposti da una corazzata come “La Nuova” (in grado di tirare decine e decine di migliaia di copie), sulla quale era ben difficile replicare e controbattere! Ma siamo andati avanti nella nostra strada, proponendoci di lottare contro le tecniche denigratorie verso la storia, la cultura e soprattutto la lingua nazionale sarda. Senza contare che, nel fare ricorso a fondi di Regione ed Enti locali, rispettando norme e scadenze, non si configura nulla di illegittimo o scandaloso.

L’obiettivo strategico perseguito da alcuni giornalisti e collaboratori sulle pagine de “La Nuova” (non, va doverosamente precisato, da tutta la redazione) – cioè delegittimare totalmente Sa die, farla scadere nel ridicolo, considerandola una buffonata, anche con versi in sardo (di chi, più o meno incautamente, si è prestato alla manovra) – non viene infine raggiunto. Nel solo anno 1998, il quotidiano sassarese – tra interventi polemici, che sono la stragrande maggioranza e quelli a favore, cui viene dato, volutamente, scarso rilievo – pubblica più di 50 articoli in riferimento specialmente a convegni, conferenze, manifestazioni per Sa die. Neanche Sant’Efisio, la Cavalcata, i Candelieri, la Sartiglia hanno avuto in quell’occasione tanto spazio. Grazie a Sa die, insomma, si sviluppa il più grande dibattito di massa sulla storia sarda, la più spiccata tendenza all’autocoscientizzazione, che la società isolana abbia mai conosciuto. Non è esagerazione affermarlo.

Critica ad un libro di Benedetto Caltagirone. Il riferimento è al docente di Antropologia culturale dell’Università di Cagliari – cui si deve il libro Identità sarde. Un’inchiesta etnografica, Cuec, Cagliari, 2005 – nel quale ben 156 pagine sono dedicate a Gli inganni dell’identità. Sa die de sa Sardigna. Mai la monografia di questo autore sarebbe stato redatta, mai avrebbe visto la luce senza le forti sollecitazioni, le feconde polemiche scatenate dalle manifestazioni organizzate specialmente lungo gli anni Novanta. Certo, il superamento degli steccati fra antropologia e storia è senza dubbio un aspetto positivo del libro. Pensiamo alle indicazioni, tra l’altro, sia del sociologo Georges Gurvitch, sia dello storico Fernand Braudel, che auspicavano incontro e collaborazione non solo fra le due discipline ma, più in generale, fra le scienze umane (che solitamente si ignorano, se non si guardano sospettose o in cagnesco). Ma tale approccio metodologico del libro di Caltagirone, teniamo a ribadirlo, sarebbe stato impensabile senza il condizionamento esercitato da uno sguardo nuovo della nostra comunità verso il proprio passato, che nasce non solo da legittima curiosità e da maggiore disponibilità – rispetto ai precedenti, non ancora superati, sensi di vergogna o di scarsa autostima – ma anche da una più marcata consapevolezza dei problemi della crisi presente.

L’ampia rassegna storiografica messa a punto da Caltagirone prende l’avvio dall’opera del Manno, ben deciso a considerare il popolo cagliaritano come “gentame”, “plebaglia”, accortamente strumentalizzata dai “congiurati”. A lui Caltagirone contrappone giustamente il libro di Girolamo Sotgiu – storico di sinistra, che adopera gli strumenti del materialismo storico – il quale, proprio per questo, è ben lontano da una vulgata definita negativamente dallo stesso Caltagirone come “sardista, indipendentista e nazionalista”. A questo punto, Caltagirone si trova a disagio: quali pesci pigliare per demolire ogni valenza progressiva, innovativa, di Sa die? Infatti la monografia di Sotgiu su La insurrezione di Cagliari, apparsa alla fine degli anni Sessanta, è stata ristampata e ad essa hanno fatto riferimento studiosi che seguono indirizzi diversi: non solo Carta, allievo dello stesso Sotgiu, ma anche Antonello Mattone, Piero Sanna ed il sottoscritto; per non parlare di Italo Birocchi, docente nell’Università “La Sapienza” di Roma, studioso di profonda dottrina, palesata anche nelle sue dense pagine su La carta autonomistica della Sardegna (1992), citata, ma non esaminata ed a torto scarsamente considerata da Caltagirone. Dal suo canto, Birocchi ha visto nel 28 aprile e in generale nel triennio 1793-96 non un ripiegamento verso il passato, non una rivoluzione di Antico Regime, volta al recupero di privilegi di stampo spagnolesco, ma l’affermarsi di un soggetto, la Nazione sarda, protesa verso il futuro, nonostante gli inevitabili richiami ai secoli precedenti, formulati peraltro in chiave polemica verso l’asfissiante assolutismo sabaudo.

Proprio un aspro nemico dell’ufficializzazione del bilinguismo, uno studioso come Sotgiu, capace negli anni Settanta di menare fendenti che sconfinavano nella oggettiva criminalizzazione (io ho avuto però la fortuna di conoscerlo e di avvicinarlo in anni in cui era meno chiuso verso certe tematiche), riconosceva tuttavia che il Piemonte sabaudo aveva sottoposto la Sardegna settecentesca ad una dipendenza di stampo “coloniale” (Carta, per esempio, prende pacatamente le distanze da tale termine di fronte al quale, inoltre, gli accademici di solito storcono il naso); nelle rivolte urbane e rurali di fine Settecento, Sotgiu vedeva impegnata una componente sociopolitica “nazionale”, nel senso sardo del termine. Caltagirone “scopre” che la posizione di Sotgiu è antitetica a quella del Manno e che sul 28 aprile non è possibile approdare ad un’interpretazione univoca. Ma, si può facilmente replicare, l’Ottantanove francese, per fare solo un esempio, è sempre stato terreno di scontro, anche acerrimo, fra correnti diametralmente contrapposte. Lo storico francese Lucien Febvre aveva intitolato una sua raccolta di saggi Combats pour l’Histoire, lotte, polemiche per la storia, per il controllo della memoria, che continua da più parti e senza esclusione di colpi: tutto ciò riguarda anche la nostra terra.

Lo stesso Caltagirone cerca di ricostruire – con una certa precisione, bisogna riconoscerlo -  la genesi della festa, facendo riferimento a dibattiti e fermenti diffusi prima negli ambienti della sinistra extraparlamentare, quindi in campo sindacale – soprattutto nella Fim-Cisl e nella Federatzione sarda metalmecànicos. L’avvio di quel processo – che avrebbe infine condotto alla l. r. 44/93 – va collocato nel 1979, a partire cioè dalla Marcia pro su traballu, voluta ed organizzata in particolare da Salvatore Cubeddu ed Antonello Giuntini, con Benedetto Sechi ed altri, allora dirigenti della Fim-Cisl. In quella temperie politico-culturale, essi vennero influenzati anche da lunghe, appassionate ed appassionanti discussioni con il sottoscritto, che aveva dato inizio ai suoi studi sul triennio rivoluzionario sardo 1793-96 (il tema ritorna in uno dei volumi dei Diari sindacali, dello stesso Cubeddu, di prossima pubblicazione). Così si esprime – per il tramite essenziale di testimonianze rilasciate in particolare dallo stesso Giuntini – il libro di Caltagirone che sinceramente ringrazio: non credevo, non credo di meritare tale rilievo anche se sono stato da lui citato in chiave polemica, negativa e prevalentemente in rapporto alla mia monografia Vespro Sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794 (Condaghes, Cagliari, 2001) e per aver in qualche modo contribuito alla nascita di Sa die: essa è giudicata dallo stesso autore con tinte fortemente corrosive. In ogni caso, quanto sostenuto da Caltagirone sulle origini di Sa die contrasta singolarmente con la sua affermazione secondo la quale il 28 aprile si presenta come qualcosa di “verticistico”.

Secondo lo stesso autore, tale scadenza – soprattutto nelle sue versioni “ufficiali” – si è articolata per mezzo di iniziative che costituiscono altrettante operazioni “manipolatorie” e di “lavaggio del cervello”. Il fondamento di Sa die, sempre secondo Caltagirone, è più o meno marcatamente “xenofobo”, stimola e ripropone un odio indistinto contro i piemontesi in quanto tali e comunque contro chi è Altro.

Dai problemi del passato a quelli del presente. Invece, parlare di Sa die, del 28 aprile 1794 come parte integrante del triennio rivoluzinario 1793-96, significa fare riferimento ad una Sardegna del tutto immersa nella temperie politica ed intellettuale determinata dalla svolta radicale dell’Ottantanove francese. A chi, per decenni, ci ha propinato l’immagine depistante, falsa, di un’isola tagliata fuori dal flusso delle idee che percorrono l’Europa ed il mondo, si può, se non altro, rispondere facendo riferimento all’azione dei fratelli algheresi Domenico, Matteo Luigi, Gian Francesco e Gian Battista Simon. Essi si inseriscono nel moto rinnovatore guidato da Angioy, forti della loro consapevole ricezione della cultura europea: la loro biblioteca privata è composta da ben 5.825 volumi, fra i quali l’Encyclopédie di Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (si veda al riguardo un ampio e documentato saggio dei già citati Mattone e Sanna). Altre figure di intellettuali sardi possono essere ricordati in proposito: è sufficiente pensare agli studi sul Settecento isolano di un grande maestro come Franco Venturi. La rivoluzione scientifica newtoniana era ben conosciuta: di Newton si poetava addirittura in lingua sarda!

Per dare un’idea del ruolo positivo svolto da tante iniziative per Sa die, piace qui ricordare, almeno, una riunione congiunta dei Consigli comunali di Sorso e Sennori, presenti gli allora sindaci Salvatorangelo Razzu e Cicito Morittu, tenutasi a metà degli anni Novanta nella sala consiliare del Comune di Sennori, di fronte ad un pubblico folto ed interessato. Dalle relazioni storiche sulle principali vicende del 1793-96, che videro un pieno coinvolgimento delle due comunità nella lotta all’assolutismo sabaudo ed al feudalesimo, si passò a discutere della crisi economica in corso, dei mezzi da adottare per rilanciare, in primo luogo, la produzione vitivinicola e la Cantina sociale. Forse è proprio questo che non è piaciuto e non piace ai denigratori di Sa die: l’eventuale passaggio dalla consapevolezza piena di un originale patrimonio storico, culturale e linguistico all’elaborazione di programmi concreti e di un’ampia progettualità politica.

Possiamo negare la valenza storico-politica progressiva del 28 aprile e del triennio 1793-96? Le pagine di Caltagirone si concludono con una singolare interpretazione, in chiave etnoantropologica, dell’allontanamento da Cagliari del viceré Balbiano e di 514 fra ministri, ufficiali ed impiegati forestieri: si tratterebbe, secondo lo studioso, di una riproposizione della pratica tradizionale, folklorica, consistente nel cacciare a caddu a s’àinu, dae sa bidda, il parroco o l’esattore delle imposte. Gli apologeti di Sa die, insomma, non effettuando tale riconoscimento, si sarebbero preclusi l’individuazione di una “cifra” genuinamente sarda della ribellione. Così scrive Caltagirone che dal suo canto si è inibito – ma speriamo che non sia una volta per tutte – la possibilità di cogliere la valenza politica “progressiva” non solo del 28 aprile, ma di tutti quei sommovimenti urbani e rurali che non trovano riscontro in Italia: nella penisola infatti l’unione reazionaria di trono ed altare spinse addirittura i “Viva Maria”, le masse fanatizzate dal clero, a perseguitare dissidenti e oppositori dell’Antico Regime; si giunse al punto di accendere il rogo per bruciare vivi giacobini ed ebrei: proprio così! Ciò accadeva il 28 giugno del 1799 nella Piazza del Campo della civilissima Siena. Certo, nel triennio rivoluzionario italiano 1796-99 che, si badi bene, viene dopo quello sardo, si verificarono, com’è noto, anche vicende di segno ben diverso.

Conclusioni. Il tentativo di decostruire – ed anche di affossare – Sa die, con gli strumenti di una critica corrosiva ed anche con la commiserazione, lo sberleffo ed il dileggio, è andato miseramente a vuoto; ventisette anni dopo possiamo ben dirlo con legittimo orgoglio (anche se non dobbiamo abbassare la guardia). Quando rileggo le pagine del più volte citato Caltagirone, riguardanti le iniziative assunte tanto tempo fa da Cubeddu e Giuntini, provo la soddisfazione di aver suscitato con loro – e con tanti altri, s’intende! – un putiferio incontenibile, un sano avolotu. Anche da tutto ciò, credo, si è andato delineando un processo di coscientizzazione di massa, preludio indispensabile per avanzare nell’arduo cammino di liberazione socioeconomica, politico-istituzionale, linguistica, spirituale del nostro popolo. Pro sighire in unu momentu gai feu, de Covid-19, de pandemia e de crisi niedda – cuddu chi semus atraessende – bi cheret custa isperàntzia pro su tempus benidore.

 

(In questo articolo ho ripreso ed aggiornato quanto è stato pubblicato su questo stesso sito nel 2013, in occasione dei vent’anni di Sa Die)

 

 

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