La scuola e la cura della società, di Daniele Madau

 

 

Anche la mia generazione sta vivendo, dunque, la sua guerra; in realtà, ne ha già passata una, di cui porta ancora lo stigma nella vita di ognuno: quella di essere stata la prima, dopo tanto tempo, ad avere condizioni di vita peggiori dei propri genitori. La mia – quarantenni- è stata la generazione che ha visto i baroni spadroneggiare spavaldi e impuniti nelle università, ha visto l’ascensore sociale bloccarsi, i diritti perdersi come polvere nel vento, lo stato sociale affievolirsi in maniera quasi ineluttabile. Tutto questo, ancora prima della crisi del 2009, che ha estremizzato quanto di malato esisteva già. E ancora, i presìdi culturali e sociali sparire lasciando nella civitas un deserto a cui, in molti tra noi, hanno risposto con l’individualismo, con la fuga all’estero o col rifugio nella famiglia d’origine a oltranza. Fatto questo, però, siamo stai chiamati bamboccioni o cervelli in fuga, sempre e comunque etichettati. In questa temperie, ho trovato il desiderio e la forza di intraprendere il percorso, lungo e, non esagero, molto difficile, per diventare insegnante e, come tale, ora affronto questi giorni così nuovi, complessi, terribili.

Eccola, allora, per noi quarantenni la nostra guerra, quella che con fierezza e responsabilità dobbiamo vivere per poterla raccontare ai figli e ai nipoti: il timore del virus e l’isolamento, la distanza forzata e le restrizioni, mentre i medici, gli infermieri, la protezione civile- i nostri paladini- la combattono in prima linea, questa guerra.

Come tutti, ho pensato molto a loro in questi giorni: li ho immaginati nel loro essere in bilico tra il desiderio di essere presenti, dando compimento alla loro vocazione e alla loro professionalità, e l’umana paura del contagio.

Ho paragonato la loro misura alla mia misura, il loro vivere la professione e professionalità, in queste settimane di vita col contagio, con il mio vivere l’essere insegnante.

E sono giunto all’unica conclusione possibile e, cioè, che non possono essere paragonabili nella loro rilevanza davanti al virus.

Loro hanno, giustamente, il posto preminente, in cui rischiano – e hanno addirittura perso – la vita; a loro devono continuare ad arrivare i nostri applausi, le nostre trepidazioni, i nostri ringraziamenti, le nostre preghiere, la nostra partecipazione, le nostre attenzioni.

Insieme agli italiani ho dedicato loro tutto questo, quotidianamente. Giorno dopo giorno, poi, è sorta anche un’ulteriore riflessione nella quale ho usato la figura del medico e dell’infermiere per focalizzare meglio la figura dell’insegnante e del suo apparire agli occhi dell’opinione pubblica.

Sino a qualche decennio fa le due figure, medico e insegnante, godevano di un prestigio simile, autorevole, oserei dire insindacabile. Questa corrispondenza è venuta meno quando, prima di correggersi negli ultimi tempi, il sistema di accesso alla figura professionale dell’insegnante è diventata particolarmente accessibile – anche come, fatto verificato personalmente, ripiego -laddove il percorso per diventare medico ha mantenuto le sue caratteristiche in lunghezza e complessità.

Aggiungerei a questo il fatto che il corpo medico è riuscito a far pesare maggiormente la sua rilevanza nelle rivendicazioni, anche a livello salariale, mentre il corpo docente, pur dotato di un apparato sindacale consolidato e presente, ha spesso rinunciato alle proprie, anche legittime, aspirazioni sull’altare delle diciotto ore settimanali.

In ultimo, come non pensare a quanto i percorsi di studi, l’amore per la cultura, la legittima aspirazione a crearsi una posizione corrispondente ai propri desideri tramite l’impegno e l’applicazione, le regole, siano stati frustrati da un sistema che ha calpestato chi elargiva e promuoveva tutto questo, la scuola?

Eppure, e così inizio la pars construens dopo quella destruens, l’emergenza educativa in questo momento è, evidentemente, grave, dato l’offuscarsi delle figure d’autorità e delle realtà educanti nella società.

Eppure la scuola corre sempre di bocca in bocca a ministri, giornalisti, intellettuali, soprattutto nei giorni di questa emergenza, in cui si è scoperta la didattica a distanza.

In questo periodo di lontananza fisica dai nostri studenti, noi docenti dobbiamo riflettere, e, se non possiamo essere a fianco ai malati e non contiamo morti tra le nostre fila come purtroppo capita a medici e infermieri, dobbiamo, però, riconoscerci lo spirito di totale dedizione al lavoro, che si è concretizzato in una adesione entusiastica a ogni modalità ci consentisse di portarlo avanti.

Anche noi, ora, stiamo avendo -più che mai – a cuore la cura dei ragazzi, il loro benessere, il loro diritto all’istruzione: e questo, se non può competere con la cura fisica del virus, la completa, però, contribuendo alla tenuta sociale e inalando il respiro fresco della cultura, vitale soprattutto per le future generazioni.

Tutto questo ci è riconosciuto, ora – perché abbiamo bisogno di riconoscenza – ma, soprattutto, dovrà alimentare il nostro sentimento di rivendicazione, positiva e legittima, che dovrà esserci dopo. Quando, passata l’emergenza che tutto confonde e travolge, le nuove tecnologie dovranno diventare patrimonio scontato e comune: un diritto. Gli stipendi dovranno andare oltre il livello di sopravvivenza e risicata dignità, gli edifici scolastici sopra quello di risicata agibilità, se non in deroga.

Lo stato ci pensi oggi, anche se le priorità sono altre, ma con la scuola, lo sappiamo, non si guarda all’immediato ma si costruisce e si sogna il futuro.

 

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