L’INTELLETTUALE VULNERABILE, di Vincenzo Rosito
Il Signore che passa nel tempo del coronavirus.
«Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta» (Is 42, 3). Mai come in questo tempo una simile promessa risuona oscura e provocatoria. Il contagio raggiunge tutti, ma si accanisce contro le vite incrinate dei più deboli, aggredisce le fiammelle che incerte resistono. I corpi già fiaccati sembrano attirare le frecce di un giudizio insopportabile.
Eppure, in questo delicato passaggio della storia, c’è chi è disposto a riattivare cinicamente la macchina teologica del sacrificio, chi ripropone l’immagine di altari laici e civili su cui “offrire” vite più spendibili di altre. Anche in questo modo si perpetua la “cultura dello scarto”. Nulla sarà come prima, non solo a causa della virulenza del contagio, ma per la tossicità delle reazioni che esso sta già provocando. Una tipologia di persone in particolare non può continuare a vivere e a lavorare come se nulla fosse cambiato: è quella degli intellettuali e degli studiosi, siano essi insegnanti, ricercatori, uomini e donne di lettere. Costoro, in questo tempo, hanno l’onere di avvertire la vulnerabilità della categoria a cui appartengono. Inefficacia e turbamento, impreparazione e sbigottimento non sono rimasti fuori, confinati oltre il perimetro delle università e dei centri di ricerca. L’intellettuale si scopre vulnerabile. Per questo non si ritrae all’interno di istituzioni inscalfibili, non si accontenta dei «discorsi a verità garantita» (M. de Certeau), non si allontana di un passo dalle canne incrinate e dagli stoppini fumanti, ma decide di stare con loro perché si vede scandalosamente nudo ed esposto come loro.
In questo momento il mondo delle istituzioni educative, delle università e degli studi ecclesiastici potrebbe raccogliersi proprio attorno all’immagine dell’intellettuale vulnerabile. Per fare questo occorrerà discostarsi da un pensiero performante e dal rischio di insediare la logica della prestazione nei processi di formazione umana. S’impone un lavoro comune sulle categorie ermeneutiche del tempo presente, molte delle quali sono stanche e inefficaci nel dare forma al “nuovo” che si agita in questi giorni di isolamento domestico. Globalizzazione, sovranità, postumano: forse anche questi concetti non passeranno illesi attraverso i giorni che stiamo vivendo. Cerchiamo parole che sappiano dire i processi mentre vengono vissuti. L’intellettuale vulnerabile non confida in illuminazioni solitarie, ma desidera una compagnia di pensiero. La qualità delle idee e delle dottrine non potrà più essere separata dal travaglio della comunità di studio che le ha pensate e maneggiate. Dovremo accostarci l’uno al sentire dell’altro per capire come “fare insieme” tutto questo. Non conta solo il “prodotto” ma il “modo” condiviso e partecipato della sua gestazione. L’intellettuale vulnerabile non grida e non urla (Is 42, 2). La tenerezza è finalmente la sua virtù, una tenerezza strana, anzi stramba. Non è remissivo né sdolcinato, ma è capace di accostamenti inconsueti, mette insieme cose e parole che normalmente nessuno ha il coraggio di avvicinare.
Forse impareremo a riconoscere la vulnerabilità degli intellettuali dalla loro “mostruosità”. Ci sono mostri che non fanno paura, ma ispirano tenerezza e prossimità. È la mostruosità bizzarra di chi non è mai al suo posto e che, proprio per questa ragione, può considerare ogni posto ospitale. In un celebre racconto kafkiano compare, tenera e inattesa, la figura di Odradek. Un essere strano ma carezzevole, un accrocco di canne incrinate che ispira fiducia, al quale viene spontaneo rivolgere la parola perché non aggredisce né sovrasta. Sarà forse così anche per l’intellettuale vulnerabile? «Naturalmente non gli si possono rivolgere domande difficili, lo si tratta piuttosto — e la sua minuscola consistenza ci spinge da sola a farlo — come un bambino. “Come ti chiami?” gli si chiede. “Odradek” risponde lui. “E dove abiti?” “Non ho fissa dimora” dice allora ridendo; ma è una risata come la può emetter solo un essere privo di polmoni. È un suono simile al frusciar di foglie cadute».
L’OSSERVATORE ROMANO, 27 marzo 2020