ZUSTISSIA MALA E ZUSTISSIA BONA. Riflessioni sulla mediazione e considerazioni sulla gestione dei conflitti nell’ordinamento giuridico barbaricino. di Pietro Pintori
L’Autore (nella foto), dirigente della carriera prefettizia, ha prestato servizio nelle prefetture di Cagliari e di Nuoro, dove ha svolto la funzione di Prefetto Vicario. Ha concluso la carriera come presidente della “Commissione Rifugiati” di Cagliari. E’ dirigente della Fondazione Sardinia. In allegato: Il codice della vendetta barbaricina, di Antonio Pigliaru.
(….) E tuttavia troppo spesso i negoziatori finiscono come le proverbiali bambine che litigavano per un’arancia. Dopo che finalmente si furono accordate per dividersi l’arancia a metà, la prima bambina prese la propria metà, mangiò il frutto e gettò via la buccia, mentre l’altra gettò via il frutto e usò la buccia della propria metà per fare una torta. Troppo spesso i negoziatori lasciano qualcosa per strada, ossia non riescono a raggiungere l’accordo mentre avrebbero potuto o raggiungono un accordo peggiore di quello che sarebbe potuto essere per ambo le parti. Troppi negoziati finiscono con mezza arancia per uno invece dell’intero frutto per una delle parti e l’intera buccia per l’altra. Perché?
(Roger Fisher, William Ury, Bruce Patton, L’arte del negoziato (Gettino to yes), pag. 89 Corbaccio, Milano 2005)
Nelle società tradizionali, dove diritto e morale sono indistinti, le infrazioni all’etica comunitaria esigono sanzioni rapide per il ripristino dell’ordine violato, sia che ciò avvenga con la ritorsione privata o per mezzo di un “giudizio”. Non si pone il problema di prove e cautele procedurali, perché la sentenza e la pena sono già stabilite e note e sono in qualche modo conseguenziali alla violazione stessa.
E’ quanto accade ancora oggi nei regimi politici integralisti, dove esiste una contaminazione sistematica tra diritto e morale sociale e dove l’esibizione esteriore di una pretesa razionalità procedurale serve a dare dignità giuridica a decisioni già assunte.
Gli stati moderni occidentali invece ripudiano (almeno pubblicamente) questo concetto di giustizia. Non essendo dato sapere cosa è “giusto” in senso sostanziale, sono state allestite complesse procedure formali finalizzate alla produzione della cosiddetta “verità processuale” intesa come un pallido riflesso, umanamente accessibile, dell’idea di giustizia.
Mentre in termini istituzionali e ordinamentali il passaggio dalla prima alla seconda nozione di giustizia si configura come un’evoluzione irreversibile, a livello psicologico individuale i due modelli spesso convivono conflittualmente nel dilemma tra “cosa è giusto fare” e “cosa ho il diritto di fare”.
La nostra cultura appartiene da tempo al gruppo di quelle che hanno optato di delegare la gestione dei conflitti individuali e sociali al diritto e ai suoi strumenti formali di decisione delle controversie.
E’ opinione comunemente accettata e diffusa che gli ordinamenti giuridici statuali, che siano riconducibili alla “civil” o alla “common law” ovvero al sistema “accusatorio’ o “inquisitorio”, siano gli unici in grado di garantire una pacifica, ordinata e civile convivenza e di scongiurare contestualmente la necessità di interventi di controllo di tipo esclusivamente repressivo o addirittura totalitario.
In tale contesto, è proprio all’interno della più proceduralista tra le culture giuridiche moderne, quella nord-americana, che si sono sviluppate le reazioni alternative più significative alla razionalità procedurale – formale.
Sono ormai più di trent’anni che i metodi informali di risoluzione delle controversie trovano ampia applicazione negli ordinamenti anglosassoni e specialmente in quello statunitense.
L’interesse, sia teorico che pratico, per questi strumenti è cresciuto in numerosi paesi europei, il nostro compreso. Diversi fattori hanno concorso, sul finire degli anni ’60, a favorire il fenomeno; ma, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, esso s’inquadra in un più vasto movimento di critica al proceduralismo formalista, le cui origini si collocano agli inizi del ’900.
Una delle prime e più importanti voci che all’epoca si levarono contro le distorsioni e gli eccessi del sistema giudiziario americano, fu quella di Roscoe Pound con il suo attacco al formalismo giuridico nella misura in cui esso incoraggiava un uso strumentale del diritto, in quanto incapace di favorire l’accordo basato su un consenso intorno ai valori realmente in gioco nel conflitto: «L’effetto della nostra procedura esageratamente contenziosa non è soltanto di eccitare le parti, i testimoni e i giurati, ma anche di diffondere nella comunità un falso concetto delle intenzioni e degli scopi del diritto. Se la legge è solo un gioco, né i giocatori che vi prendono parte né il pubblico che vi assiste possono essere spinti a sottomettersi al suo spirito, quando vedono che i loro interessi sono meglio serviti eludendolo (…). Così i tribunali, istituiti per amministrare la giustizia secondo la legge, si trasformano in agenti o in complici dell’illegalità» (R.Pound, The causes of popular dissatisfaction with the administration of justice, American Bar Association Reports 29, 1906, p. 406).
Molti decenni più tardi, sarà praticamente con gli stessi argomenti che si tenterà di dimostrare come gli ideali di eguaglianza, giustizia e libertà invocati a sostegno della “legalità” in una democrazia liberale, entrino di fatto in conflitto proprio con le procedure formali di risoluzione delle controversie: in altri termini, gli strumenti di aggiudicazione che, provvedendo all’applicazione della “giustizia”, costituiscono il principale riferimento per la legittimazione di un ordinamento eminentemente proceduralista come quello americano, spesso fallirebbero nel loro scopo proprio per eccesso di formalismo.
La “delegalizzazione” propugnata dal movimento riformista consisterebbe conseguentemente in un ridimensionamento del formalismo procedurale in nome del recupero di una razionalità sostanziale incentrata più sulla tutela di interessi che non sull’accertamento di diritti.
Soprattutto l’antropologia si è fatta carico di produrre un’ampia letteratura dedicata a evidenziare comparativamente l’esistenza di una vasta diffusione transculturale di metodi di “soft justice” radicalmente alternativi ai “valori” di riferimento della razionalità procedurale moderna.
L’antropologia giuridica e le indagini sugli ordinamenti in senso lato “tradizionali”, hanno ridimensionato la centralità dei modelli di legalità e di giudizio dominanti nelle moderne società tecnologicamente avanzate, mostrando come le procedure informali di risoluzione delle controversie – in particolare quelle basate sulla mediazione e la negoziazione - siano state largamente impiegate nel corso della storia nell’ambito di un gran numero di culture.
Si è insomma “scoperto” che non esiste, né sostanzialmente né proceduralmente, un concetto univoco di “legalità”, dal momento che in tutte le società la “legge” opera da sempre in ambiti e con strumenti molto differenziati.
Solo in virtù di pregiudizi etnocentrici e di una buona dose di presunzione culturale, uniti talvolta al retaggio della tradizione romanistica, gli abitanti della parte nord-occidentale, “ricca e stabile” del pianeta, possono ritenere di vivere nella migliore possibile, se non nell’unica vera civiltà giuridica (senza peraltro disporre di un Voltaire che attualizzi ai giorni nostri le riflessioni filosofiche del suo immortale Candide).
Sostiene Norbert Rouland (Aux confins du droit, Paris 1991, pag. 54) di aver rilevato «….le tracce di almeno diecimila sistemi di diritto»: il nostro non sarebbe che uno tra questi, e forse nemmeno il migliore, almeno a giudicare dalla qualità e quantità di pace sociale che riesce a garantire.
Per comprendere la funzione del diritto una buona metafora potrebbe essere quella del confine. Come è noto, tra gli stati e le nazioni, il confine è una sorta di “luogo geometrico” che esiste nelle carte geografiche e garantisce ai popoli che separa l’esclusiva di uno spazio vitale, fornisce sicurezza e conferisce identità.
Esistono confini “buoni” e aperti e confini “cattivi” e chiusi. Confini attraverso i quali i popoli fanno serenamente transitare i loro scambi commerciali e confini attraverso i quali le nazioni muovono gli eserciti. Ci sono confini simili alla siepe che separa i giardini di due vicini premurosi, e confini simili alle mura di una fortezza.
Come il confine per i popoli, così il diritto per gli individui, insieme unisce e divide: delimita la sfera di diritti e doveri che ne definiscono l’identità civile e stabilisce le modalità in cui le diverse sfere possono o devono entrare in comunicazione tra loro: al pari del confine, conferisce identità e fornisce sicurezza.
Il diritto può essere visto come il minimo comun denominatore della convivenza sociale: regolamentando gli interessi egoistici e ponendo un freno alle reciproche invasioni, è condizione necessaria allo sviluppo delle potenzialità individuali.
Ma non è sufficiente a garantire la pacifica convivenza, dato che, pur costituendo il diritto essenzialmente una radicale alternativa di metodo alla violenza, niente impedisce che il diritto stesso venga usato per perseguire scopi di prevaricazione tipici della violenza.
Se è vero che la presenza del diritto è condizione fondamentale per rendere possibile un’umana esistenza, un’esistenza che voglia dirsi veramente umana non potrà mai essere regolamentata esclusivamente dal diritto.
Attraverso il diritto si ricerca o si ripristina un ordine basato sulla individuazione e separazione della pretesa dall’obbligo, della ragione dal torto, dell’innocenza dalla colpevolezza. La sentenza si sostituisce alla violenza, certificando erga omnes le posizioni reciproche, rendendole esigibili e coercibili.
L’ordine e la sicurezza nelle società moderne non dipendono perciò tanto dalla validità della soluzione adottata o dal consenso delle parti, quanto dalla forza dell’ordinamento e dall’efficacia di un più o meno imponente apparato di coercizione.
I contendenti possono anche non essere soddisfatti e le radici del conflitto possono continuare a covare sotto la cenere, ma tuttavia la “pacificazione”, basata sulla capacità imperativa del diritto, funzionerà comunque.
La pace derivante dal diritto si dimostra spesso carente sul piano etico generale e su quello pratico dell’effettiva risoluzione del conflitto: sul piano etico si limita alla mera tolleranza senza pervenire a un vero riconoscimento reciproco dei contendenti; sul piano pratico, confonde quasi sempre la verità processuale con la vittoria, lasciando spesso nello sconfitto rancore e desiderio di rivalsa.
Ciò perché tale pace deriva da una procedura che di fatto tende ad assimilare i contendenti più alla figura del nemico che non a quella dell’avversario.
L’avversario è colui senza il quale, nel conflitto, io non esisto: solo dove lui è anch’io posso veramente essere. Con lui ci si confronta. L’avversario mi permette infatti non solo di misurarmi con lui, ma anche con me stesso: mi fa scoprire i miei limiti e le mie possibilità. L’avversario è come me: ha i miei stessi timori e le mie stesse speranze; imparando a conoscerlo, scoprendo la sua forza e le sue ragioni, i suoi punti deboli e le sue incongruenze, imparo a conoscere anche i miei. Perciò gli devo rispetto.
Il nemico è invece colui che m’impedisce di esistere: dove lui è, io non posso essere e sono costretto a combattere fino alla resa o all’annientamento.
Gli ordinamenti procedurali – formali, come è universalmente noto, non ignorano del tutto gli strumenti informali di soluzione delle controversie.
Ad esempio, il nostro codice di procedura civile conosce da sempre l’istituto del tentativo di conciliazione che dovrebbe essere effettuato dal magistrato con la presenza diretta delle parti. Questo però nella realtà quasi mai viene seriamente perseguito: il più delle volte è vissuto anzi come un intralcio, come un corpo estraneo a una procedura che, una volta avviata, è rivolta a ben altri risultati.
E comunque, quando viene tentato, rimane quasi inevitabilmente segnato dalla mentalità e attitudine professionale dell’operatore protagonista: il giudice. È insomma una conciliazione molto “guidata” e influenzata dall’incombenza del giudizio. Soprattutto, è una conciliazione operata da soggetti che quasi mai sono specificamente preparati a utilizzarla in quanto efficace e autonomo strumento di soluzione della controversia.
Il modo in cui è stata trattata finora la conciliazione nell’ambito delle nostre istituzioni non è altro che una conseguenza dell’atteggiamento culturale con cui, nelle nostre società, ci si accosta normalmente al conflitto (In proposito cfr. J. Morineau, L’esprit de la mediation, Ramonville Saint-Agne 1998, pag. 31 ss).
Il conflitto è considerato senz’altro un evento patologico, un problema da risolvere in via esclusivamente tecnica da parte di soggetti professionalmente addestrati a farlo nell’ambito di quella struttura formalizzata che è il processo-giudizio.
Tutte le società tecnologicamente avanzate manifestano in varia misura questa tendenza: c’è, per così dire, una diffusa “mancanza di fantasia” che porta a ritenere il giudizio, la decisione imposta da un potere esterno, come il principale, se non l’unico, metodo praticabile di soluzione conflittuale.
Ad esempio, in molti rapporti commerciali si oscilla spesso da un eccesso di informalismo (promesse verbali, fiducia personale assoluta …) finché le cose “vanno bene”, a un improvviso eccesso di formalismo (la lite, il processo) quando sorgono dei problemi.
Nel mezzo c’è tutto uno spazio intermedio, un territorio spesso inesplorato, dove possono venire utilmente applicati i metodi riconducibili in senso lato al modello della conciliazione.
Un primo passo per cominciare a comprendere dove inserire utilmente gli strumenti informali di soluzione delle controversie potrebbe essere proprio quello di considerare il conflitto non come un evento sociale patologico, un male da curare o da rimuovere, ma come un fenomeno fisiologico e talvolta addirittura dotato di caratteristiche di positività.
Se spogliato dalla considerazione pregiudiziale negativa, un conflitto non è dopotutto altro che una disputa tra tesi e opinioni diverse intorno a un problema. Può essere visto e vissuto come un’occasione di confronto, certo anche di contrasto, ma non necessariamente di dissidio insanabile che escluda a priori la possibilità della comunicazione e implichi la trasformazione dell’avversario in un nemico da sconfiggere secondo la logica vittoria \ sconfitta tipica del processo.
Peraltro, anche da una banale valutazione del conflitto in termini di “darwinismo sociale”, emerge palesemente come esso sia indispensabile allo stesso progresso. In effetti una società senza conflitti è inevitabilmente statica e c’è da diffidare delle società che apparentemente non manifestano conflitti. Quello che rileva non è che ci siano conflitti, ma come questi vengono gestiti.
E ovvio che una società può essere minata profondamente da una cattiva gestione dei conflitti. Ma “cattiva” può essere appunto la gestione del conflitto, non il conflitto in quanto tale.
Il conflitto di per sé è un fatto, un evento, un fenomeno neutrale: sono le nostre valutazioni che lo qualificano come “utile” o “inutile”, “positivo” o “negativo”, e simili.
In una società dove i soggetti hanno spesso in comune soltanto il conflitto che occasionalmente li contrappone, questo potrebbe essere inteso anche come una forma di comunicazione che, se adeguatamente sfruttata, è talvolta in grado di generare nuove e inaspettate opportunità positive per entrambe le parti.
I metodi alternativi e di risoluzione delle controversie (Alternative Dispute Resolutions – A.D.R.), si stanno affacciando come realtà autonoma anche nel nostro ordinamento, con un ritardo di decenni rispetto ai paesi di common law e anche di alcuni altri europei.
L’origine della diffusione di questi strumenti in era moderna, come abbiamo accennato, va ricercata negli Stati Uniti dei primi anni ’70 e, soprattutto all’inizio, fu determinata da motivi prevalentemente utilitaristici, connessi in gran parte al tentativo di rimediare alle conseguenze negative del fenomeno della cosiddetta ‘litigation explosion’.
Tra il 1970 e il 1985 il numero delle cause civili iscritte presso le corti federali americane era più che quadruplicato. Si trattava soprattutto di cause complesse, che implicavano tempi lunghi ed elevati costi di gestione: viene stimato che nel giro di un decennio le spese vive sopportate dal sistema della giustizia civile americano siano quasi raddoppiate, giungendo a sfiorare l’equivalente di 60.000 miliardi di lire dell’epoca.
Costi che, soprattutto in un sistema di mercato assolutamente liberista come quello americano, venivano a minare la competitività globale dei soggetti imprenditori coinvolti, che si vedevano inevitabilmente costretti a scaricarli sul consumatore finale.
Diverse erano le cause di questa degenerazione della capacità del sistema di affrontare e gestire adeguatamente la nuova patologia sociale.
In primo luogo il grande incremento della legificazione statale in materie prima tradizionalmente consegnate all’autodeterminazione contrattuale delle parti, a riprova che c’è una relazione diretta, e non inversa, tra la quantità di norme presenti nell’ordinamento e la quantità delle controversie.
In secondo luogo l’imprevedibilità dei verdetti delle giurie popolari: il “trial by jury”, caposaldo dei diritti di libertà americani teoricamente accessibile a tutti, presenta forti rischi di manipolazione della cosiddetta “verità processuale”, oltre a propendere spesso per indennizzi decisamente esagerati.
Infine la crescita esponenziale del numero dei professionisti legali, ormai divenuti un vero e proprio problema sociale (gli avvocati americani nel 2003 erano oltre un milione), essi possono farsi pubblicità e lavorano normalmente in base al patto di quota lite (si tratta del sistema, generalmente vietato in Europa, secondo cui il compenso del professionista è in parte aleatorio e legato all’esito della causa: in caso di sconfitta, avvocato e cliente “perdono” entrambi; in caso di vittoria si spartiscono gli utili in una misura che può arrivare fino al 50%) con conseguenze che non solo gli addetti ai lavori possono facilmente immaginare in termini di proliferazione inarrestabile del contenzioso.
Il risultato è stata la paralisi tendenziale di numerosi settori della giustizia civile. Le differenze con la situazione italiana odierna, di conclamata crisi della giustizia e in particolare di quella civile, sono “di scala”, non di qualità o quantità.
Pur considerando i motivi di ordine ideologico e culturale che hanno direttamente o indirettamente favorito la diffusione dei metodi ADR, è quindi evidente che già sul piano semplicemente pratico-utilitaristico vi sono ragioni più che sufficienti per avviare l’esperimento di modalità alternative di risoluzione dei conflitti.
Molti e diversi sono gli strumenti di soluzione delle controversie riconducibili all’ambito dell’ADR: tutti però condividono la caratteristica di configurare una gestione privata del conflitto, nel senso che le parti si accordano per tentare di risolverlo con mezzi diversi da quelli del processo-giudizio pubblico.
Gli strumenti dell’ADR sono tanti ma, a ben vedere, costituiscono essenzialmente delle “variazioni sul tema” di due modelli base: l’arbitrato e la mediazione. In termini generalissimi, il primo è una forma di giudizio privatizzato; la seconda una negoziazione assistita.
L’arbitrato è una procedura secondo cui le parti si accordano per sottoporre la loro controversia alla valutazione di un terzo arbitro imparziale (singolo o collegiale). Il risultato della procedura è di solito una decisione (lodo) variamente vincolante.
Lo schema di massima è quello del processo-giudizio ufficiale. Rispetto a questo, l’arbitrato attenua la rigidità del formalismo della procedura (le parti possono accordarsi preventivamente sulle regole da seguire per produrre documenti, testimonianze, ecc.); aumenta la competenza del terzo decisore, che viene di solito designato in quanto esperto nella materia oggetto del contendere (mentre il giudice pubblico è “precostituito per legge”); abbrevia, in misura spesso positivamente drastica, i tempi di decisione.
Dell’arbitrato si servono soprattutto soggetti imprenditoriali e commerciali. Può avere dei costi elevati, ma questi vengono comunque in genere ripagati dai risparmi di tempo e dalla competenza della decisione. Dato l’informalismo della procedura, l’arbitrato può aprirsi abbastanza agevolmente agli altri strumenti alternativi di soluzione delle controversie e in particolare alla conciliazione.
La mediazione è una procedura in cui un terzo neutrale, il mediatore, assiste le parti nel ricercare una soluzione al loro conflitto accettabile per entrambi. A differenza dell’arbitro, il mediatore non ha il potere di prendere decisioni vincolanti.
La mediazione può funzionare anche quando le parti non sono state capaci di raggiungere un accordo in sede negoziale, perché il mediatore, grazie alle sue tecniche di comunicazione e alla sua competenza in materia, può assisterle nell’esplorare alternative che esse, da sole, non sarebbero state capaci di prendere in considerazione. Alcuni dei principali vantaggi della mediazione sono:
- le parti sono coinvolte direttamente nella negoziazione dell’accordo;
- il mediatore, in quanto terzo neutrale, possiede una visione ‘esterna’ e oggettiva del conflitto e proprio per questo può aiutare le parti nella ricerca di soluzioni alternative;
- la procedura è rapida e meno costosa non solo rispetto al giudizio, ma anche rispetto all’arbitrato;
- i mediatori sono professionisti dotati di formazione specifica e di competenza tecnica;
- è la procedura che maggiormente tutela la conservazione dei rapporti tra le parti;
- è aperta a soluzioni creative che rispecchino i reali interessi delle parti;
- le informazioni assunte nel corso della mediazione sono normalmente riservate e non possono venire utilizzate nell’ambito di altre procedure, formali o informali.
Secondo statistiche risalenti a qualche anno fa, il 95% dei procedimenti giudiziari americani si concludevano con un accordo di tipo transattivo o compromissorio; spesso appena prima di andare in aula per il dibattimento.
Il ricorso a metodi ADR, anche nell’ambito di processi già pendenti davanti a un tribunale, può portare a un’equa soluzione con mesi, o addirittura anni di anticipo rispetto alla procedura standard.
In molti casi le normali procedure giudiziarie risultano troppo lente e complesse per produrre dei risultati che valgano la pena dei costi sostenuti, specie tenuto conto del fatto che l’accertamento giudiziario dei fatti non si basa sul principio di ottenere il massimo numero possibile d’informazioni a un costo ragionevole, ma di ricercare ogni informazione che sia comunque rilevante come prova.
Non sono rari negli Stati Uniti i verbali di processi da cui risulta che il costo della raccolta delle informazioni rilevanti per la causa supera di gran lunga l’importo di ogni possibile risarcimento. In poche parole, più tardi ci si accorda (se ci si accorda) più alto è il costo.
La soluzione tramite un metodo ADR, ove praticabile, elimina o comunque riduce drasticamente le spese per le indagini di accertamento: l’esperienza americana mostra che 1’80% delle informazioni rilevanti possono essere ottenute al 20% del costo necessario per una procedura giudiziaria standard.
I metodi ADR si sono dimostrati capaci di risolvere conflitti complessi e apparentemente insolubili, in cui erano coinvolti emozioni e interessi che difficilmente avrebbero potuto trovare piena udienza nell’ambito di una procedura di giudizio formale.
Spesso le parti si sono risolte a ricorrere alla giustizia “alternativa” quando hanno realizzato che con quella “normale” avrebbero perso ogni controllo sul prodotto finale della decisione.
La società americana, forse la più giudiziariamente litigiosa del pianeta (ebbene, sì, anche di quella italiana), ha insomma dovuto prendere atto che i tribunali non possono essere sempre i luoghi dove cominciano le soluzioni delle dispute, bensì i luoghi dove le dispute vanno eventualmente a finire dopo che sono stati sperimentati altri sistemi di soluzione.
Gli operatori del diritto americani si stanno sempre più orientando verso una prospettiva in cui metodi ADR e metodi “tradizionali” convivono senza soluzione di continuità. In cui la “A” di ADR potrebbe non significare più “alternativo”, ma semplicemente “adeguato” alla circostanza e al tipo di conflitto da risolvere.
La mediazione appartiene dunque all’ambito degli istituti conciliativi di giustizia informale che si propongono come alternativa non solo al processo, ma anche al giudizio, in quanto strumenti efficaci, economici, e soprattutto “etici”, di gestione e soluzione dei conflitti.
Per essere più precisi, la mediazione è il metodo, lo schema procedurale che caratterizza una gran parte di questi istituti. Potenzialmente, i suoi ambiti di applicazione sono i più diversi: dal civile al penale, dal contenzioso amministrativo alle controversie di lavoro.
E anche le figure dei mediatori possono differire notevolmente, sia dal punto di vista della loro formazione tecnica e del reclutamento, sia da quello dell’appartenenza a istituzioni pubbliche oppure a strutture private.
Un elemento comune di metodo deve necessariamente essere presente, e consiste soprattutto nel tentativo di prevenire la degenerazione del conflitto in dissidio e di giungere, se possibile, alla soluzione della controversia attraverso il componimento pacifico e volontariamente concordato delle parti, alla presenza di un terzo imparziale.
La mediazione si configura in definitiva come un approccio alla gestione dei conflitti alternativo e autonomo rispetto alle procedure legali tradizionali basate sul sistema contraddittorio – accusatorio. Essa è stata così definita:
«Un processo, quasi sempre informale, attraverso il quale una terza persona neutrale tenta, tramite l’organizzazione di scambi tra le parti, di consentire a queste di confrontare i loro punti di vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che le oppone» (J.P. Bonafè- Schmitt, La mediation, une autre justice, Paris 1992).;
«L’intervento nell’ambito di una disputa tra due contendenti di una terza persona imparziale e neutrale, gradita a entrambi, che non riveste autorità decisionale, ma li aiuta affinché essi pervengano a una soluzione della vertenza che risulti di reciproca soddisfazione soggettiva e di comune vantaggio oggettivo» (G. Gulotta e G. Santi, Dal conflitto al consenso, Milano 1988).
La mediazione è quindi una procedura consensuale nella quale le parti in conflitto espongono i loro punti di vista a una terza parte neutrale, mantenendo tuttavia il controllo del processo e del risultato.
Non è garantito un accordo finale e il mediatore non ha alcun potere di adottare decisioni vincolanti per le parti in conflitto.
È notevole la differenza con l’arbitrato, dove invece i contendenti convengono di affidare a un terzo neutrale la decisione, in termini spesso vincolanti per le parti.
Mediazione e conciliazione sono strumenti di risoluzione delle controversie che appartengono all’ambito dell’ordine negoziato; l’arbitrato, almeno per alcuni aspetti, appartiene all’ambito dell’ordine imposto.
Sono questi i due grandi insiemi dei metodi di soluzione dei conflitti.
Nell’ordine negoziato, le parti conservano dall’inizio alla fine il controllo sulla procedura e sul suo eventuale risultato. La procedura è autonoma, nel senso che volta per volta segue tutte e solo le regole che le parti hanno stabilito; e informale, nel senso che non segue (almeno apparentemente) prescrizioni e modelli.
Nell’ordine imposto, le parti hanno un controllo limitato sulla procedura e il suo esito. Le regole procedurali sono in varia misura imposte dall’esterno e in generale non sono disponibili. La procedura è formale, soprattutto nel senso che non ha interesse per le intenzioni delle parti, ma solo per gli atti formalmente corretti.
Gli strumenti di mediazione sono pre-giuridici nel duplice senso che esplicano il loro intervento prima dell’eventuale ricorso alla giustizia “ufficiale” (anche se con questa continuano ad esistere vari collegamenti in termini di legittimazione e conseguenze) e che utilizzano mezzi e perseguono fini notevolmente diversi da quelli delle procedure classiche di aggiudicazione.
Come si diceva, la mediazione differisce sostanzialmente dalle varie forme di arbitrato, attraverso le quali i privati ricercano dopotutto soltanto quella speditezza giurisdizionale che l’amministrazione pubblica della giustizia spesso non è in grado di assicurare. E sono pochi anche i punti di contatto con la transazione negoziale, nella misura in cui questa è la ricerca di un compromesso intorno a posizioni rigide; una contrattazione che verte sulle rispettive pretese, piuttosto che sui reali motivi e interessi sottostanti a ciascuna di esse.
A questo punto dovrebbe essere evidente che gli strumenti di mediazione/ conciliazione – se correttamente intesi e utilizzati – si presentano come alternativi, anche culturalmente, ai modi e alle forme con cui il diritto viene correntemente inteso e utilizzato nel contesto delle nostre società tecnologicamente avanzate.
E’ esperienza comune che all’interno del circuito e dell’apparato giudiziario ordinario, le parti in causa e coloro che si occupano della lite manifestano quasi sempre la tendenza a esaltare, piuttosto che a mitigare, gli aspetti patologici del contrasto.
Vi è un immediato azzeramento della comunicazione interpersonale diretta: l’uno toglie la parola all’altro e, per scongiurare il passaggio alla violenza che potrebbe essere imminente, la trasferisce a esperti capaci di confrontarsi in base a regole formalizzate. Questo in sostanza significa “le mando l’avvocato” o “farò ricorso al mio legale”.
Neppure gli avvocati, date certe premesse, si parleranno direttamente, ma si rivolgeranno a un terzo, arbitro rituale della contesa (il giudice) e si nomineranno l’un l’altro in terza persona. Il loro linguaggio, anch’esso contagiato dalla patologia, non sarà capace di generare una reale comunicazione, non si rivolgerà al destinatario per convincerlo a trovare insieme una soluzione, ma lo descriverà intento a perseguire con ogni mezzo il proprio interesse di parte, almeno fino a prova contraria,.
La funzione assegnata agli avvocati nel conflitto in effetti non è diretta a salvare o risanare un rapporto intersoggettivo fallito – e quindi a riparare con strumenti giuridici più o meno gravi lacerazioni del tessuto civile – ma proprio a trarre fino in fondo le conseguenze del fallimento del rapporto: è così che l’intervento del professionista (l’avvocato) si trasforma esso stesso in fenomeno patologico, costituendo non la soluzione del problema ma parte del problema.
È possibile fare in modo che i conflitti giuridicamente trattabili non si trasformino senz’altro in contese da affrontare per mezzo di processi-giudizi? È possibile immaginare un’opera in tal senso anche da parte del legislatore?
Porsi questi interrogativi significa inoltrarsi in un territorio nuovo per la nostra esperienza giuridica: un territorio dove il diritto e i suoi operatori diverrebbero inevitabilmente molto diversi da come li abbiamo conosciuti finora.
Per altro verso, è innegabile che in qualsiasi ordinamento di “civil law”, il sistema standard di soluzione dei conflitti continuerà ad essere il giudizio e non la mediazione. Quando si tratta di accertare se Tizio è passato col rosso, se ha pagato il suo debito o ha dichiarato il vero nella sua denuncia dei redditi, la mediazione serve effettivamente a poco.
Un uso eccessivo e improprio della mediazione è suscettibile di vanificare i punti di riferimento e i parametri indispensabili a orientare i comportamenti collettivi, generando una situazione in cui nessuno riesce più a capire con ragionevole precisione quale sia il suo posto e cosa gli sia consentito fare.
Più che a livello di produzione, è a livello di applicazione della legge che sorgono i problemi tra la mediazione e le forme di soluzione mediante decisione e aggiudicazione.
Uno dei motivi essenziali di differenza e incompatibilità può essere individuato nel fatto che la mediazione è orientata alle persone, il giudizio ai fatti: alla legge – almeno a quella dotata delle caratteristiche liberal-democratiche di generalità e astrattezza – non interessa chi ha fatto qualcosa, ma cosa è stato fatto: “la legge è uguale per tutti” significa anche questo.
Ci sono ovviamente delle situazioni in cui questa apparentemente nitida differenza si affievolisce: si pensi ad esempio al problema di come valutare l’ammissione di un criminale a un programma di alternativa alla pena o alla decisione di affidamento della custodia dei figli tra genitori in conflitto.
Per noi moderni è quasi inconcepibile una conoscenza del diritto che prescinda da fonti scritte; siano queste leggi o sentenze, la conoscenza giuridica appare inevitabilmente connessa con la scrittura. Al contrario, se vale l’inverso di “ubi ius, ibi societas”, molte comunità umane (forse la maggioranza) sono esistite ed esistono basandosi su ordinamenti giuridici totalmente orali.
Se la “legge” sembra difficilmente concepibile, quasi un nonsenso in assenza di scrittura, per la sussistenza del “diritto” sembra invece sufficiente la presenza del solo linguaggio.
Eugen Ehrlich, nei primi anni del secolo scorso, si interrogava sul rapporto tra unità e molteplicità del diritto, o meglio su unità giuridica e molteplicità sociologica (nella sua Bucovina, provincia dell’impero austro-ungarico, coabitavano tedeschi ed ebrei, russi e rumeni, zingari e slovacchi).
Il quesito fondamentale che si poneva Ehrlich (“Quale è il rapporto tra il diritto formalmente valido e le concrete relazioni di vita di popoli tanto diversi?” Eugen Ehrlich, I fondamenti della sociologia del diritto, Milano 1976) può essere facilmente trasferito in numerosi contesti culturali, storici e geografici, molto diversi tra loro, non ultimo l’Italia del periodo post-unitario.
Nel nostro paese, per limitarci agli ultimi centocinquanta anni, si è assistito a una vistosa divaricazione tra unità formale dell’ordinamento giuridico statale e pluralità sociologiche riscontrabili all’interno del territorio nazionale.
Anche riguardo all’Italia ci si può legittimamente chiedere come potessero, ad esempio, la Lombardia e la Sardegna, con realtà sociali, economiche, culturali così diverse tra loro (specie fino alla metà del secolo scorso) essere rette dal medesimo sistema normativo.
In contesti socio-culturali così differenti non poteva che verificarsi una coesistenza, talvolta pacifica e talvolta conflittuale, di due ordinamenti giuridici, da una parte quello Statale e dall’altra quello locale.
Per quanto concerne la Sardegna, sul cui isolamento culturale anche troppo è stato detto e scritto, si può sostenere che essa costituisce ancora un prezioso giacimento – purtroppo in via di esaurimento – di tradizioni popolari e di norme consuetudinarie che continuano a regolare, in parte ancora oggi, le attività e i conseguenti rapporti nel mondo agro-pastorale.
Se il diritto è espressione squisitamente culturale, si può affermare che la cultura popolare sarda ha conosciuto, e in parte conosce ancora, forme di organizzazione giuridica basate sulla tradizione orale ed è palese che il conflitto o il confronto tra diritto Statale e diritti non statali passa anche attraverso il rapporto tra la dimensione scritta del primo e il primato dell’oralità nei secondi.
Gli studi di Antonio Pigliaru – La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico – hanno avuto un ruolo fondamentale, nel solco e nell’ambito della teoria della pluralità delle fonti giuridiche, per dare dignità accademica e “visibilità” all’ordinamento giuridico autoctono prodotto dal popolo di Sardegna e in particolare di quella parte di popolo della Sardegna centrale conosciuta come Barbagia.
Questi studi, condotti da Antonio Pigliaru in Barbagia negli anni 50 e 60 del secolo scorso, hanno evidenziato la compresenza, in una certa area dell’Isola, di due sistemi normativi contrapposti, uno dei quali, quello autoctono, incentrato sulla pratica consuetudinaria della vendetta.
Secondo Pigliaru, la pratica della vendetta in Barbagia è, appunto, consuetudine giuridica, fatto normativo, capace di generare comportamenti percepiti come doverosi da parte dei singoli membri della comunità; il titolare del dovere della vendetta si configura come una sorta di “organo” della comunità stessa; in definitiva l’istituto esprime l’esistenza di un ordinamento giuridico nel senso proprio del termine, dando luogo a un contrasto, non solo potenziale ma effettivo fra tale ordinamento e quello dello Stato.
Il lavoro di Pigliaru ha messo in luce due aspetti di una realtà dirompente: dall’analisi dei fondamenti di un ordinamento autoctono e secolare come quello barbaricino, emergeva chiaramente, dal punto di vista più strettamente sociogiuridico, l’inefficacia del diritto Statale e la sua sostanziale incapacità di regolare la vita delle comunità della Sardegna centrale.
“In realtà qui abbiamo un conflitto di fatto tra due ordinamenti giuridici, uno d’origine riflessa, ed è l’ordinamento giuridico che si identifica con lo Stato, l’altro, di formazione spontanea, tradizionale, caratteristico di una comunità organizzata su basi proprie, e refrattaria all’ulteriore esperienza dell’ordinamento giuridico, almeno entro determinati limiti: entro i limiti, cioè in cui l’ordinamento giuridico dello Stato appare esprimersi in istituti non funzionali rispetto alle strutture fondamentali della comunità ed alle forme di vita proprie della comunità originaria e quindi coerenti con quel sistema” (Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, Il Maestrale, Nuoro, 2000, pag. 61)
L’opera di Antonio Pigliaru suscitò aspre polemiche negli anni in cui in Sardegna e nel paese grande era l’allarme sociale connesso al fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, anche per l’incapacità di capire che la realtà descritta dallo studioso orunese rilevava sul terreno antropologico prima che su quello criminale, e che l’invocazione dell’intervento repressivo dello Stato, unita al contestuale rifiuto di analizzare a fondo e quindi comprendere la realtà sociale delle cosiddette ”aree del malessere”, serviva a ben poco .
Pigliaru ha chiaramente evidenziato l’esistenza in Sardegna di fenomeni di pluralismo giuridico, rilevandone prevalentemente o esclusivamente gli aspetti di conflitto fra ordinamenti.
Sarebbe di estremo interesse domandare ai neolaureati o ai laureandi nelle facoltà di giurisprudenza, di spiegare in parole semplici il significato dell’espressione “pluralismo giuridico”. Con tutta probabilità emergerebbe che di questo fondamentale concetto solo i più preparati avranno, forse, una nozione più o meno precisa: questa diffusa “ignoranza” comporta la mancata percezione del legame strettissimo che intercorre tra strutture socioculturali e manifestazioni giuridiche date, e porta quindi a non comprendere perché “un certo tipo” di società (o di comunità, se si vuole) produce ed è retta da “un certo tipo” di sistema normativo.
Rapportando la realtà sociale della Sardegna con la dottrina del pluralismo giuridico di Santi Romano (la cui impostazione teorica è nota: lo Stato va considerato non già come ordinamento esclusivo, ma come uno degli “ordinamenti che costituiscono il mondo giuridico, e fra loro vivono ora in relazione di socievole coesistenza, ora in lotta, ora ignorandosi l’uno con l’altro”), Pigliaru ha enfatizzato la seconda delle tre eventualità, cioè lo scontro e la radicale incompatibilità tra ordinamenti, o meglio tra istituti di ordinamenti.
Dalle indagini di Pigliaru, in effetti, appare evidente che l’ordinamento originario barbaricino trovava occasioni di conflitto con quello statale perché l’uno imponeva la vendetta, mentre l’altro la vieta, l’uno imponeva di dare ospitalità, anche nell’ipotesi in cui l’ospite fosse un latitante, l’altro vieta – e punisce – quello stesso comportamento qualificandolo come reato (favoreggiamento personale, art. 378 cod. pen.). E gli esempi potrebbero continuare.
Pochissimo rilievo è stato dato, viceversa, ai numerosissimi casi nei quali, in Barbagia e altrove nell’Isola, si assisteva (e in alcuni casi si assiste tuttora) se non a una vera e propria integrazione, quantomeno a una coesistenza tra istituti di diritto consuetudinario autoctono e ordinamento statale.
La fortuna anche letteraria, del “codice della vendetta”, evocativo di una società arcaica, ha oscurato il fatto che nel cosiddetto codice, di cui Pigliaru fornisce una versione scritta in 23 articoli, elaborata a conclusione di lunghe ricerche condotte sul campo, (è appena il caso di ricordare che, tautologicamente, non esiste e non poteva esistere una versione scritta dell’ordinamento giuridico barbaricino) che presso quella comunità il dovere giuridico della vendetta non escludeva affatto, ma anzi contemplava esplicitamente la possibilità di ricorrere a forme pacifiche e condivise di soluzione dei conflitti.
L’articolo 8, ad esempio, prevede che l’offesa si estingue “quando il reo lealmente ammette la propria responsabilità assumendo su di sé l’onere del risarcimento richiesto dall’offeso o stabilito con lodo arbitrale”.
Di particolare rilievo appare anche l’articolo 12 “Il danno patrimoniale in quanto tale non costituisce offesa né motivo sufficiente di vendetta”, nella misura in cui esime dall’obbligo della vendetta (e quindi specularmene non ne consente l’esercizio “legale”) le vittime di furto di bestiame “ordinario” cioè privo delle specifiche aggravanti elencate nel successivo articolo 14.
L’articolo 18 prescrive che “La vendetta deve essere proporzionata, prudente e progressiva. S’intende per vendetta proporzionata un’offesa idonea a recare un danno maggiore ma analogo a quello subito; s’intende per vendetta prudente un’azione offensiva posta in essere dopo la conseguita certezza circa la esistenza della responsabilità dolosa dell’agente e successivamente al fallito tentativo di pacifica composizione della vertenza in atto, ove le circostanze della offesa originaria rendano ciò possibile; s’intende per vendetta progressiva un’azione offensiva posta in essere con prudenza e tuttavia adeguantesi con l’impiego di mezzi sempre più gravi o meno gravi all’aggravarsi od all’attenuarsi progressivo dell’offesa originaria, anche in conseguenza dell’eventuale verificarsi di nuove circostanze che aggravino ovvero attenuino l’offesa originaria o del progressivo concorrere nel tempo di nuove ragioni di offesa”.
L’articolo 21 recita: “Nella pratica della vendetta, entro i limiti della graduazione progressiva, nessuna offesa esclude il ricorso al peggio sino al sangue. Parimenti nessuna offesa esclude la possibilità di una composizione pacifica, allorché il comportamento complessivo del responsabile rende ciò possibile. (….)”
Pigliaru fa appena cenno alla diffusa pratica consuetudinaria, ancora esistente nell’ambito ormai residuale del mondo pastorale, dell’andare a homines, consistente nel rivolgersi a degli arbitri, chiamati appunto “sos homines” (gli uomini) “quasi a voler significare che essi devono comportarsi da uomini, con tutta la dignità e responsabilità di uomini chiamati a dirimere una controversia”.
Gli arbitri erano solitamente tre; i contendenti ne nominavano due (uno per parte), i quali a loro volta nominavano il terzo (detto “su terzeri” o “su ‘e tres” o “s’omine ‘e mesu”).
Il deferimento della contesa a questi tre homines avveniva previo giuramento delle parti di accettare la decisione, qualunque essa fosse.
Secondo molti studiosi, (fra tutti Michelangelo Pira), il ricorso a questa forma di arbitrato costituiva quasi una “extrema ratio”, una sorta di ultimo gradino prima della vendetta: ci si rimetteva alla decisione degli “uomini” solo dopo un primo incontro, senza esito, tra le parti interessate e quando il conflitto aveva già assunto il carattere di una grave inimicizia tra famiglie.
“Lo sapevate che a Roma ci sono più avvocati che nell’intera Francia? E a Torino tanti quanti a Manhattan? Sarà anche per questo che io sto qui a perdere tempo? (…) E per cosa? Per dibattimenti finti, sentenze finte, lavoro finto: un’azienda dove entrano camion di carta ed escono camion di carta”.
Da “Toghe rotte” di Bruno Tinti
L’accertamento di una verità consensuale che può essere differente o addirittura opposta alla verità processuale, l’assenza della figura del giudice, sostituita da una priva di autorità e potere che guida le persone verso la soluzione del conflitto, può evocare nella mente dei giuristi lo spettro della giustizia privata e dell’oblio di quelle garanzie su cui è stata edificata la nostra civiltà giuridica. In effetti, non si può negare che la mediazione, accanto alla valorizzazione della persona e delle sue risorse e potenzialità, ha anche una zona d’ombra in cui si può annidare il pericolo di forme di controllo sociale, esercitate senza le tutele e le responsabilità che la giustizia formale offre.
Il diritto conserva in effetti la possibilità per ciascuno di tutele e garanzie che finora nessun sistema di regolazione sociale è riuscito a proporre con più efficacia e equilibrio. Si tratta dunque di individuare e approntare una strategia di compatibilità tra mediazione e diritto delimitando spazi e competenze, senza rinunciare alle garanzie e alle tutele giuridiche grazie alle quali ci possiamo “permettere il lusso della mediazione”.
Anche nel caso che ottenga risultati realisticamente assimilabili e sovrapponibili a quelli del diritto, sia civile che penale, la mediazione può svolgere una funzione ulteriore di ricostruzione del tessuto sociale e di ricucitura della rete sfilacciata delle relazioni sociali in senso alto, fornendo un contributo utile a riaprire canali di comunicazione interrotti.
Per comprendere le potenzialità positive insite nella natura stessa e nella funzione della mediazione occorre guardare oltre l’orizzonte del diritto, nello sforzo di superare la crisi delle modalità di regolazione sociale delle quali il diritto, insieme ad altri strumenti, quali etica e politica, è parte.
Il risultato finale del complesso sistema di relazioni innescato dalla mediazione, non è dunque riconducibile esclusivamente alla somma degli interessi delle parti, né a maggior ragione a quelli della parte più forte e convincente, ma al cambiamento nella modalità di comunicazione fra gli individui e fra i gruppi.
L’ormai celebre immagine della mitezza del diritto, evocata da Zagrebelsky, si riferisce alla necessità che più valori e modelli sociali possano e debbano coesistere: “La visione della politica che è sottintesa non è quella del rapporto di esclusione e sopraffazione ma quella inclusiva dell’integrazione attraverso l’intreccio di valori e procedure comunicative, che è poi l’unica visione della politica non catastrofica possibile del nostro tempo. “
È infatti condivisa dai più l’idea che la mediazione sia uno strumento che affonda le sue radici in una tradizione millenaria presente nelle nostre società. Anche l’antropologia ha messo in evidenza una sorta di logica trasversale che abbraccia le culture più diverse e fa tramontare la convinzione che il diritto giurisdizionale sia l’unico efficace strumento di gestione della conflittualità sociale.
Sebbene sia possibile riscontrare significative somiglianze tra mediazione e sistemi tradizionali di composizione delle liti utilizzati nelle più svariate parti del pianeta, sarebbe tuttavia un errore pensare alla mediazione come espressione di un pensiero antico, e come una loro derivazione in versione contemporanea.
Si può affermare che la mediazione sia un frutto maturo della crisi del diritto e delle altre forme di esperienza pratica che si sono manifestate e aggravate nell’ultimo scorcio dell’età moderna. Essa è anche l’espressione dell’esigenza di un cambiamento radicale, della ricerca di nuovi principi e idee che ci consentano di affrontare in modo efficace i rapidi mutamenti della società contemporanea.
Non è guardando alla logica formale o informale di composizione dei conflitti – o almeno non solo – che riusciremo a cogliere i principi veicolati dalla mediazione e i caratteri che ne fanno uno strumento potenzialmente adeguato e omogeneo ai bisogni e alle esigenze della società contemporanea.
È necessario rivolgersi al contesto di idee e principi nuovi che attraversano il mondo del diritto e dell’etica, della politica e dell’economia per capire che la mediazione è in definitiva uno strumento del cambiamento in atto.
Il principio della comunicazione e del riconoscimento reciproco regge l’intera struttura della mediazione e perciò non può che contrastare con un sistema giuridico percepito dai suoi destinatari come impositivo e autoritario.
Libertà, autonomia e responsabilità sono termini che nella mediazione assumono nuove sfumature e significati legati alla crisi della sovranità statale e del principio d’autorità che attraversa la nostra società.
Con la sua attenzione alla singolarità delle persone coinvolte nel conflitto, col rilievo che assegna alle emozioni oltre che alla volontà razionale dell’individuo, col deciso rifiuto del potere decisionale del terzo e infine con l’allontanamento dall’idea funzionale della pena e della sanzione, la mediazione propone un’idea di responsabilità molto differente rispetto a quella che troviamo nel linguaggio e nella prassi del diritto.
La mediazione può assumere una sua rilevanza pubblica e sociale, come canale e filtro che mette in comunicazione le esigenze private con gli interessi pubblici.
E’ appena il caso di rilevare che la composizione e l’accordo, nonché il linguaggio della mediazione, si possono inserire solo in un contesto di valori condivisi dalle parti come valori costituitivi della comunità.
Ben vengano le auspicate riforme del processo penale, civile e amministrativo e la regolamentazione di nuovi istituti giuridici, ma è evidente che un cambiamento radicale può avvenire solo con un approccio di tipo culturale di ampio respiro, che riesca a rintracciare e valorizzare, analizzando le varie realtà locali e regionali, quel “buon senso” collettivo che affonda le radici nella storia e che ha realizzato forme di composizione dei contrasti socialmente efficaci anche se, o forse proprio perché, non gravate di apparati che trovano ragione di esistenza e sviluppo nella proliferazione delle liti.
Convertire gran parte degli “operatori del diritto” forense (e quindi orientare in questo senso la loro preparazione professionale) in saggi “operatori della pacificazione sociale” è forse la direzione giusta per invertire una rotta che ha condotto ad una situazione ormai ingestibile. Per imboccare una via d’uscita occorre una autentica rivoluzione culturale che rimetta al primo posto i rapporti umani e la coesione sociale.
Le ingenti risorse di energie intellettuali e culturali che raffinati e talvolta geniali principi dei fori nostrani dedicano a sofisticate tenzoni giudiziarie potranno essere convertiti proficuamente alla più degna causa di affrontare l’inevitabile conflittualità individuale e sociale mettendo al centro la persona e non il processo, innescando così dinamiche sociali potenzialmente positive.
Il diritto ha bisogno di più filosofia, più sociologia, più antropologia: questa può essere la strada lungo la quale le ragioni della comunità potranno prevalere su quelle del diritto positivo, la cui applicazione spesso è diventata, da mezzo per assicurare l’ordinata e pacifica convivenza, la cornice entro la quale la “civiltà giuridica” di cui andiamo tanto ampollosamente fieri si è trasformata in una spirale perversa.
Riferimenti bibliografici.
Antonio Pigliaru Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina. Il Maestrale – Nuoro, 2000
Antonio Pigliaru Persona umana e ordinamento giuridico.
Il Maestrale - Nuoro 2006
Antonio Pigliaru Meditazioni sul regime penitenziario italiano.
Il Maestrale – Nuoro 2006
Michelangelo Pira La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna. Giuffrè – Milano, 1978
Gonario Pinna Il pastore sardo e la giustizia.
Ilisso – Nuoro 2003
Gonario Pinna Memoriale di un penalista sardo.
Il Maestrale – Nuoro 2006
Antonangelo Liori Il processo barbaricino. Teoria e pratica della vendetta in Sardegna. Giuffrè – Milano, 2003
Bruno Tinti Toghe rotte. Chiare lettere – Milano 2007
Paul Ricoeur Percorsi del riconoscimento.
Cortina – Milano 2005
Fisher – Ury – Patton L’arte del negoziato.
Corbaccio – Milano 2005
Dicembre 2009
Allegati
Il Codice della vendetta barbaricina
Il CODICE DELLA VENDETTA BARBARICINA
I PRINCIPI GENERALI
- L’offesa deve essere vendicata.
Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita prova della propria virilità (a), vi rinunci per un superiore motivo morale (b).
2. La legge della vendetta obbliga tutti coloro che ad un qualsivoglia titolo vivono ed operano nell’ambito della comunità (e).
3. Titolare del dovere della vendetta è il soggetto offeso, come singolo o come gruppo, a seconda che l’offesa è stata intenzionalmente recata ad un singolo individuo in quanto tale o al gruppo sociale, nel suo complesso organico, sia immediatamente sia mediatamente (d).
4. Nessuno che vive ed opera nell’ambito della comunità può essere colpito dalla vendetta per un fatto non previsto come offensivo.
Nessuno può essere altresì tenuto responsabile di una offesa se al momento in cui ha agito non era capace di intendere e di volere, nel qual caso rispondono i moralmente responsabili (e).
5. La responsabilità è o individuale o collettiva a seconda che l’evento offensivo consegua all’azione di un singolo individuo o a quella di un gruppo organizzato operante in quanto tale.
Il gruppo organizzato, sia sulla base di un vincolo naturale sia per effetto di sopravvenuti rapporti sociali, risponde della offesa quando questa è cagionata da un singolo membro del gruppo con iniziativa individuale nel caso in cui il gruppo medesimo, posto di fronte alle conseguenze della azione offensiva, esprima, in modi e forme non equivoci, attiva solidarietà nei confronti del colpevole in quanto tale (f).
6. La responsabilità di chiunque si trova nella condizione di ospite è solo personale e deriva dalle eventuali azioni od omissioni di lui, in rapporto ai doveri particolari del suo stato (g).
7. La vendetta deve essere eseguita solo allorché si è conseguita oltre ogni dubbio possibile la certezza circa l’esistenza della responsabilità a titolo di dolo da parte dell’agente (h).
8. L’offesa si estingue:
a) quando il reo lealmente ammette la propria responsabilità assumendo su di sé l’onere del risarcimento richiesto dall’offeso o stabilito con lodo arbitrale;
b) quando il colpevole ha agito in stato di necessità ovvero per errore o caso fortuito ovvero perché costretto da altri mediante violenza cui non poteva sottrarsi. In questo ultimo caso risponde dell’offesa l’autore della violenza.
9. L’applicazione della legge della vendetta viene altresì sospesa nei confronti di chi, pur fondatamente sospettato, chiede e ottiene di essere sottoposto alla prova del giuramento onde essere liberato.
In tal caso il giuramento deve essere prestato secondo la seguente formula: «Giuro di non aver fatto né veduto né consigliato; e di non conoscere persona alcuna che abbia fatto veduto o consigliato ».
E’ però ammessa, previo accordo, l’omissione della seconda parte della formula.
Il giuramento liberatorio ha valore identico agli effetti della presente norma, sia che venga effettuato in presenza del solo offeso; ovvero in presenza di terzi convocati in qualità di testimoni; ovvero in forma solennissima, secondo le consuetudini locali (i).
10. L’inadempimento fraudolento degli oneri derivanti dall’applicazione di quanto é indicato all’art. 8, a); ovvero la falsità delle prove addotte dal colpevole onde ottenere nel proprio interesse l’applicazione delle esimenti di cui all’art. 8, b), ove ciò risulti dopo ottenuto il perdono della parte offesa; ovvero il giuramento che risulti falso alla luce di ulteriori prove intervenienti a confermare le responsabilità del colpevole, costituiscono aggravante specifica.
Nel caso del falso giuramento l’offesa e ulteriormente aggravata se il giuramento medesimo e stato reso in forma solenne.
LE OFFESE
11. Un’azione determinata è offensiva quando l’evento da cui dipende l’esistenza di essa offesa è preveduto e voluto allo scopo di ledere l’altrui onorabilità e dignità.
12. Il danno patrimoniale in quanto tale non costituisce offesa né motivo sufficiente di vendetta.
Il danno patrimoniale costituisce offesa quando, indipendentemente dalla sua entità, è stato prodotto con specifica intenzione di offendere, ovvero é stato realizzato in circostanze tali da implicare, per se medesime, sufficiente ragione di offesa, ovvero quando in esso sia presente l’esplicita volontà di recare danno effettivo (/).
13. Le circostanze dell’offesa sono oggettive e soggettive.
lLe circostanze oggettive dell’offesa concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto e il modo dell’azione.
Le circostanze soggettive concernono la intensità del dolo o le condizioni e qualità del colpevole ovvero i rapporti esistenti o esistiti tra il colpevole e l’offeso (m).
14. Pertanto il danno patrimoniale costituisce offesa nei seguenti casi:
a) furto di bestiame quando esso pur rientrando nella normale pratica dell’abigeato è stato consumato: 1) da un nemico; 2) da chi e stato compagno d’ovile dell’offeso e conosce per tanto la organizzazione tecnica dell’ovile medesimo; 3) dal titolare dell’ovile confinante; ovvero se è stato reso possibile dalle · loro complicità od omertà;
b) furto della capra da latte destinata alla alimentazione del complesso familiare;
e) furto di un maiale destinato all’ingrasso per motivo di economia familiare;
d) furto o sgarrettamento di una vacca destinata in dono al neonato, alla sposa, all’orfano;
e) furto o sgarrettamento di un cavallo ovvero di un giogo di buoi destinati alla normale pratica del lavoro;
f) distruzione vandalica del bestiame ovino, bovino, equino;
g) incendio doloso;
h) pascolo abusivo entro un terreno recintato, consumato con scopo provocatorio ovvero a titolo di dispetto;
i) ingiusta divisione patrimoniale, che consegue ad un comportamento sleale posto in essere con il deliberato disegno di recare un danno effettivo a persona non in condizioni di fare valere, al giusto momento le proprie ragioni, per una qualsivoglia circostanza di fatto;
I) esercizio esoso delle proprie ragioni effettuato con intenzione di offendere.
15. Quando più persone concorrono alla esecuzione materiale di un fatto elencato nell’art. 14, non ne risponde chiunque vi abbia partecipato:
a) non essendo a titolo personale nelle condizioni espressamente previste per quanto concerne i casi preveduti dalla lett. a);
b) non essendo a conoscenza della particolare natura o destinazione della cosa, nei casi di cui alle lettere b), e), d), e);
c) avendo agito per esecuzione di mandato ricevuto, senza altra partecipazione che di natura tecnica al verificarsi dell’evento, nei casi di cui alle lettere f), g), h);
Non risponde altresì dell’offesa colui il quale, in ordine al caso di cui alla lettera i), abbia agito in buona fede perché tratto in errore da terzi.
16. Inoltre costituisce offesa:
a) il passaggio provocatorio di un nemico attraverso un terreno chiuso;
b) l’ingiuria, quando l’offesa al decoro di una persona o di un gruppo è recata con attribuzione di un fatto determinato ma falso, tale da ledere l’onorabilità della persona o del gruppo cui il fatto medesimo venga attribuito;
c) la diffamazione e la calunnia, quando concorrano le stesse circostanze previste per la ingiuria;
d) la rottura di una promessa di matrimonio. In questo caso l’offesa è aggravata quando il fatto è in sé privo di giustificazione; ovvero allorché l’azione è stata posta in essere in circostanze tali da compromettere pubblicamente l’onore della promessa sposa e insieme la dignità e l’onore della famiglia cui essa appartiene. Costituisce altresì offesa ulteriormente aggravata la rottura della promessa di matrimonio quando il colpevole abbia agito con lo scopo di menomare l’onore della promessa sposa ovvero di offendere la di lei famiglia;
e) la non giustificata rottura o il mancato adempimento di un patto stabilito per qualunque motivo o fine nelle debite forme. L’offesa è aggravata se il soggetto recedente si avvale del vantaggio a lui derivante dalla qualità di socio per recare o favorire chi intenda recare un danno all’altra parte. L’offesa è ulteriormente aggravata quando il recesso ovvero l’inadempienza sono stati posti in essere allo scopo di recar danno;
f) la delazione, ove non sia effettuata dalla parte lesa ma avvenga a scopo di lucro ovvero a titolo di dispetto. L’offesa e aggravata quando viene recata con confidenza all’autorità di pubblica sicurezza invece che all’autorità giudiziaria;
g) la falsa testimonianza resa da persona non legittimata dalla qualità di parte lesa. La falsa testimonianza non offende quando è prestata da chi esercita la professione di teste falso ovvero da chi dichiara il falso a favore dell’imputato indipendentemente dalla colpevolezza o non colpevolezza di quest’ultimo;
h) ogni azione posta in essere contro la persona ospitata. In tal caso titolare della vendetta e la persona o il gruppo ospitante;
i) l’offesa dei sangue (n).
17. Costituisce offesa ogni azione intesa a produrre un fatto di natura offensiva quando l’evento non si verifica, ove ciò sia dipeso dalla mutata volontà dell’agente e tuttavia gli atti compiuti esprimano in modo idoneo e non equivoco la volontà di recare offesa.
III
LA MISURA DELLA VENDETTA
18. La vendetta deve essere proporzionata, prudente e progressiva. S’intende per vendetta proporzionata un’offesa idonea a recare un danno maggiore ma analogo a quello subito; s’intende per vendetta prudente un’azione offensiva posta in essere dopo la conseguita certezza circa la esistenza della responsabilità dolosa dell’agente e successivamente al fallito tentativo di pacifica composizione della vertenza in atto, ove le circostanze della offesa originaria rendano ciò possibile; s’intende per vendetta progressiva un’azione offensiva posta in essere con prudenza e tuttavia adeguantesi con l’impiego di mezzi sempre più gravi o meno gravi all’aggravarsi od all’attenuarsi progressivo dell’offesa originaria, anche in conseguenza dell’eventuale verificarsi di nuove circostanze che aggravino ovvero attenuino l’offesa originaria o del progressivo concorrere nel tempo di nuove ragioni di offesa.
19. Sono mezzi normali di vendetta tutte le azioni prevedute come offensive a condizione che siano condotte in modo da rendere lealmente manifesta la loro natura specifica.
20. Costituisce altresì strumento di vendetta il ricorso alla autorità giudiziaria quando oltre la certezza morale sulla responsabilità dolosa dell’agente si e conseguita una ragionevole certezza sulla sufficienza processuale delle prove raggiunte; e il danno derivante dall’esito del processo si può prevedere sufficientemente adeguato alla natura dell’offesa secondo i principi della legge sulla vendetta in generale (o).
21. Nella pratica della vendetta, entro i limiti della graduazione progressiva, nessuna offesa esclude il ricorso al peggio sino al sangue. Parimenti nessuna offesa esclude la possibilità di una composizione pacifica, allorché il comportamento complessivo del responsabile rende ciò possibile. Nella pratica della vendetta la pena capitale viene seguita di norma sul presupposto della responsabilità personale e nei casi di offesa di sangue e in tutti quelli più gravi di offesa morale quali la rottura di una promessa di matrimonio la delazione la falsa testimonianza.
22. La vendetta deve essere esercitata entro ragionevoli limiti di tempo, a eccezione della offesa del sangue che mai cade in prescrizione (p).
23. L’azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta nuovo motivo di vendetta da parte di chi ne è stato colpito, specie se condotta in misura non proporzionata ovvero non adeguata ovvero sleale.
La vendetta del sangue costituisce offesa grave anche quando e stata consumata allo scopo di vendicare una precedente offesa di sangue.
Note
(a) Il linguaggio dialettale non conosce, per quel che ci risulta, una distinzione sufficientemente articolata, alla latina, tra homo e vir; non conosce, anzi, altro che la parola homine, s’homine, che vale sia nell’accezione di homo sia in quella di vlr. Ma l’accentuazione morale di nomine, s’homine, ripete piuttosto il tono di vlr che quello di homo, specie quando la parola è usata al singolare. (Al plurale infatti il doppio senso è più evidente: come si rileva nell’espressione che il linguaggio etico barbaricino impiega per ridurre in termini più naturali un’eventuale condanna al carcere affermando che: «sa galera est fatta pro sos homines», cioè che il carcere è un rischio implicito, un implicito portato della condizione umana, considerata sotto l’aspetto della sua assoluta precarietà). li concetto di «uomo» nel linguaggio etico barbaricino si identifica con l’idea dell’«uomo forte», dell’uomo che deve essere forte nel senso che è sempre capace di dominare, con la sua propria virtù, la fortuna (usiamo liberamente termini resi famosi da MACHIAVELLI, ma il fatto che l’uso sia libero non significa che non sia intenzionale e motivato). Ad ogni modo, per quel che riguarda il significato istituzionale della espressione «salvo nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita, ecceters», diciamo qui quale è appunto il senso e l’origine della espressione « propria virilità » e il rischio che comporta, per conseguenza, il non vendicarsi, quando non si sia dato o non si sia in grado di dare altrimenti prove persuasive di sé; magari appellandosi ad un superiore principio morale. Qui accade che la comunità conoscendo in ogni suo membro un soggetto attivo del proprio ordine, e quindi essendo adusa, dal ritmo della propria vita, a contare solo sulla propria forza (il più di virtù necessario per resistere al meno di fortuna), nell’atto stesso in cui conosce come valido un ordine morale e quindi giuridico diverso dal proprio; e nell’atto stesso in cui consente al proprio uomo una libertà di scelta assoluta,. tuttavia esige che questa scelta risulti visibilmente, che non sia insomma un mero pretesto d’evasione da un certo ordine di responsabilità, ma appunto una scelta reale: come è reale la scelta di chi sia mosso alla non-vendetta, non per esempio dalla paura del rischio, dalla sua forza, come da un segno preciso del proprio non essere uomo. Secondo l’acuto, penetrante concetto barbaricino qui espresso, in tal caso non si tratterebbe infatti più d’una scelta. Notiamo allora che la espressione «dare prova della propria virilità» corrisponde qui alle formule dialettali: aver provato di esser uomo, aver dimostrato, con il complesso della sua vita, di essere un « valente », uno cioè che sa farsi valere, e fermiamoci per tanto su questa precisazione che investendo tutto un modo proprio di pensare l’uomo, è evidentemente tutt’altro che marginale.
(b) «Un superiore motivo morale»: l’espressione può sembrare impropria. Non si tratta di una posizione morale che accetti comunque la superiorità di una motivazione etica differente dalla propria come reale superiorità di un diverso ordine etico rispetto al proprio, sebbene anche questa idea sia legittimata da taluni atteggiamenti delle comunità. li pastore, per esempio, distingue i costumi di alcuni ( = degli altri) dai propri, come costumi, modi propri dei « signori » da un lato e se mai dei « rimitani » dall’altro, ma bisogna aggiungere che la espressione in questa distinzione tra pastori e signori, (e tra pastori e « rimitani ») non ha, per lo più, nessun sottinteso feudale. « Signori » sono il maestro elementare e la sua propria famiglia, il prete, il medico, il farmacista, il segretario comunale, chiunque vesta panni non pastorali, svolga una certa attività professionale (ci sono beninteso anche gli altri « signori », i titolari del potere!), parli lingua italiana, e persino si alimenti in un certo modo, eccetera. C’è dunque l’abito del signore, il modo di mangiare dei signori e c’è anche, la morale, il costume dei signori. Ad ogni modo, qui l’espressione « superiore motivo morale » ha un’accezione più semplice e schietta, un significato più diretto – e si tratta solo di dire un modo proprio di motivare l’azione (la non-azione), così che siamo nel caso di una comunità che chiede all’azione di non restare interamente abbandonata all’impulso, alla natura, ed altresì che la determinante del comportamento sia cioè coerente a tutto il sistema di vita adottato, e in questo senso superiore all’impulso sottostante. Di modo che, nel complesso, pare che accada questo: c’è un dovere, un obbligo che legittima un’aspettativa sociale; c’è d’altro lato un’esimente, una condizione reputata liberatrice rispetto a quel dovere. Ma questa condizione può essere, si, data da una nuova condizione sociale (essere maestro, esser sacerdote eccetera, cioè essere membri di una società che ha un diverso costume di vita), può essere anche data da una determinazione strettamente individuale, a tener fede ad un diverso principio etico: ed il punto é piuttosto importante, dico questo ultimo punto.
Infatti mentre è chiaro che al presente codice è impegnata in modo diretto l’originaria comunità barbaricina come originaria comunità pastorale, è però chiaro anche che il singolo pastore ora può essere liberato dall’obbligo della vendetta (pur restando per tutto il resto o quasi per tutto il resto, soggetto di quell’ordinamento giuridico che è la comunità barbaricina), ma ciò solo ove il complesso della sua vita attesti, magari solo dopo un certo punto di tale vita, un mutato atteggiamento morale nei confronti per l’appunto della pratica della vendetta: che è il caso in cui l’opzione etica, per essere persuasiva, ha bisogno della testimonianza di tutta una condotta di vita, come condotta di vita « umana » nel senso in cui tale espressione può essere intesa nel dialetto barbaricino (v. /a nota precedente). Le comunità barbaricine per rendere esplicito qual è il punto esatto in cui un certo comportamento non è più sospetto e tuttavia non dà più luogo a giudizio di riprovevolezza sul soggetto (che resta cosi, << vir », uomo d’onore anche se in un certo momento o di fronte ad un certo fatto rinuncia a far valere la propria « virilità », il suo essere uomo d’onore), hanno tutta una serie di personaggi, personaggi storici, veri, anche se entrati già nel mondo della letteratura popolare, che « fanno » appunto il precedente, la serie dei precedenti significativi, ed al modulo del cui comportamento, per altro, verrà ora riferito il comportamento del singolo per apprezzarne nella giusta direzione il significato etico, il senso vero e profondo. In più è da registrare che l’appello al superiore motivo morale indicato nell’articolo in esame, ha anche questo significato: il significato dell’appello ad un motivo concreto per la non-vendetta, moralmente (e quindi umanamente) superiore al motivo della vendetta.
L’esempio (tratto da vicende concrete) che solitamente si adduce per spiegare tale meccanismo è il seguente: Tizio ha rotto in circostanze offensive (ma non … gravi) una promessa di matrimonio; alla famiglia offesa da tal comportamento e che già sta per porsi sulla via della vendetta, egli fa sapere di non aver potuto adempiere e di non poter più adempiere alla promessa matrimoniale, per avere nel frattempo « compromesso » con gravi conseguenze, un’altra fanciulla: è di fronte a tale « giustificazione » che la parte offesa ora rinuncerà alla vendetta, ma precisando che tale rinuncia resta subordinata al fatto che Tizio effettivamente sposi la giovane da lui irrimediabilmente compromessa, salvo appunto a riaprire la partita qualora tale condizione non si verifichi in un tempo ragionevolmente giusto. In questo caso il motivo superiore che legittima la non vendetta è l’innocenza di un nascituro, innocenza che deve essere in ogni caso salvaguardata (s’innozente non bi depet pranghere mai) ed alla cui salvaguardia può essere sacrificato, può e umanamente deve esser sacrificato, ogni altro originario risentimento. (Sul carattere sacro dell’infanzia e sul significato proprio dell’infanzia nella comunità barbaricina come comunità naturale, vedi DORE, op. cit.).
(c) Si veda per questo punto il V degli Studi complementari. Si tratta di un argomento molto interessante e come tale abbisognevole di essere ampiamente ed esattamente svolto.
(d) Sebbene non fosse di stretta necessità, qui e altrove abbiamo insistito sull’intenzionalità come elemento essenziale alla costituzione dell’offesa, poiché ci è sembrato opportuno sottolineare, ogni volta che se ne desse il caso, che l’offesa sussiste solo in quanto l’intenzione dell’azione è quella di offendere nel senso proprio e più preciso del termine. Agli effetti della vendetta l’offesa infatti non può essere preterintenzionale, né (e meno che mai) di natura meramente colposa. L’offesa è tale in quanto l’azione è stata posta in essere, l’evento è stato prodotto, al fine di offendere; come si rende particolarmente chiaro nel concetto che il danno patrimoniale, pur voluto come tale, e quindi voluto a titolo di dolo, non costituisce offesa se esso stesso non si pone come momento strumentale rispetto al suo effettivo proposito che è quello di produrre quel dato evento al fine appunto di offendere; e non già di offendere nel senso in cui ogni reato può dirsi costituire offesa ( « nella sua struttura psichica il reato è un’offesa », cosi CARNELUTTI, Lezioni di diritto penale, Milano 1943, pag. 60), ma nel senso proprio di « offesa morale», di offesa, cioè, recata alla « dignità » dell’offeso.
Anche questo chiarimento che vale solo entro limiti ben definiti, era per altro necessario. Non c’è in questo codice offesa in quanto c’è reato (un’azione in qualche modo riprovevole, anzi riprovata); ma c’è reato in quanto c’è offesa, in quanto l’azione è stata voluta come offensiva. Onde appunto ciò che costituisce l’offesa è la sua intenzionalità, il fatto che l’offesa, l’offendere sia appunto il termine di tensione di tutta l’azione, o dello stesso evento.
(e) Questo art. 4 corrisponde praticamente, nella prima parte, all’art. 1 del Codice penale italiano; e con esso ha in comune di definire un principio di stretta legalità, di porre in termini positivi il principio nullum crimen, nulla poena sine praevia /ege poena/i. A da dire però che tale principio è stato incluso nel presente codice essendo stato desunto dall’analisi di tutto il sistema giuridico della vendetta, dopo tuttavia che era stato accertato, con le interviste dirette in particolare, che ciò che vuole il sistema è proprio questo: sottrarre il concetto di offesa al libito degli individui, onde evitare le conseguenze, tutte le conseguenze che un mal chiarito concetto di offesa può portare seco. E’ evidente allora che sebbene nessun « documento » affermi esplicitamente nel codice della vendetta la presenza del principio nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali, tale presenza tuttavia abbiamo ritenuto d’avvertire e quindi di dover rendere esplicita, guardando direttamente dentro le cose della vendetta barbaricina.
Dentro la pratica della vendetta barbaricina che significato potrebbe mai avere lo sforzo che quella stessa pratica attesta per chiaramente definire il punto in cui l’offesa si costituisce come tale, per elencare inoltre il più dettagliatamente possibile quelle azioni che per se stesse e nelle date circostanze, legittimano la vendetta? Che significato tutto ciò può avere se non quello di porre in termini di certezza e quindi di ferma oggettività il sistema della vendetta? Che significato se non quello di realizzare, di fare essere in re, seppure senza aver di ciò chiara e totale coscienza, anzi scienza, che nessuna azione è reato e consente, cioè legittima la vendetta, se non è offesa entro i limiti nei quali la consuetudine (la tradizione) fa consistere l’offesa e vuole che l’offesa consista?
La seconda parte dell’art. 4, corrisponde, evidentemente, ed entro i termini propri, e dunque piuttosto nello spirito che nella lettera, all’art. 42 del C.P. italiano, I cpv., laddove questo recita che nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non è commessa con coscienza e volontà. Conseguenza ovvia, qui, di quanto in definitiva già illustrato nella nota precedente sull’essenziale intenzionalità dell’offesa e, in più e si capisce, di quanto recitato dall’art. 11, che definisce in termini generali la natura dell’offesa, per cui è offensiva (e legittimante la vendetta) quella sola azione o quel solo evento che siano stati preveduti e voluti allo scopo di ledere l’altrui onorabilità. Al solito l’accento va posto sull’elemento della previsione e della volontà – avvertendo che nel caso la ratio esplicita dell’articolo (che ha poi una ratio implicita nella coerenza di tutto l’ordinamento) è ormai da indicare nel non infrequente caso di azioni offensive affidate ad un incapace, proprio al fine, spesso, di renderle ancor più anonime: incapace sia per deficienze organiche (il « matto » del villaggio!), sia per situazione giuridica, come nel caso dei minori: i quali spesso, per la franchigia di cui godono (v. DORE, op. cit.), vengono tuttavia impiegati con il pretesto del gioco – come per gioco – in « comandi », quindi in azioni che ricondotte all’origine sono pur esse offensive, ma dalle cui conseguenze l’incapace deve essere necessariamente fatto salvo mancando anche qui, per lui, il naturale e necessario presupposto dell’imputabilità. (Anche questo punto, per altro, ci pare da tenere assai presente per valutare la misura della civiltà propria della vendetta barbaricina).
(f) Sui rapporti individuo-gruppo in questo codice, e nel quadro della complessa civiltà sociale (e giuridica) della comunità barbaricina, vedi. il V Studio complementare.
(g) Anche sulla posizione giuridica dell’ospite v. il V Studio complementare.
(h) In Barbagia qualunque fatto di natura criminosa (agli effetti della pratica della vendetta) diviene oggetto, per lunga tradizione, di indagini dirette, espletate per solito dalla parte lesa o da organi ad hoc costituiti dalla parte o anche dalle parti interessate. Le risultanze di tali istruttorie sono per solito quelle che determinano il comportamento degli interessati, sia sul piano privato, sia, se a ciò si arriva, sul piano processuale; tuttavia molti episodi, molti fatti non arrivano neppure all’autorità giudiziaria, che è sempre considerata in Barbagia, come e perché vedremo altrove, un male, necessario solo perché c’è di fatto, un male che è per lo più interesse di tutti (di tutte le parti) evitare almeno sin che ciò è possibile: il « pro che rughere in manos de sa zustiscia » (piuttosto che cader nelle mani della giustizia) « mezus mortu », (meglio la morte) è un principio assoluto dal quale si può volontariamente derogare solo allorché si abbia certezza di poter trasformare la « giustizia » in un efficace strumento di lotta (non di pace, s’intende!).
Per altro l’intervento della «giustizia» è, ad un certo punto, un fatto che essendo dato, non si può più superare: non per tanto il comportamento delle parti muta se i risultati dell’istruzione giudiziaria risulteranno diversi da quelli dell’indagine espletata direttamente, anche se le conseguenze di tale indagine vengano solitamente lasciate sub iudice, almeno sino a che il processo non ha verificato la propria ipotesi processuale e quindi fornito, sino in fondo, alla parte interessata l’opportunità di verificare ulteriormente l’ipotesi propria. (Quando si danno circostanze di questo tipo, la vendetta attende che il processo giunga sino in fondo, scatterà come meccanismo autonomo, solo dopo: e soprattutto dopo che il fallimento dell’ipotesi processuale, con il suo semplice darsi, avrà offerto, indirettamente, un’implicita conferma della tesi originaria e spesso segreta, della parte lesa). E’, poi da aggiungere che se la verità effettiva è più spesso quella accertata dalla parte lesa nella sua istruttoria privata che quella accertata dalla «giustizia», ciò dipende in gran parte dall’atteggiamento che la comunità ha nei confronti dei propri ordini, dei rapporti di lealtà che negli ordini originari sono impegnati diversamente che nel «processo»: nel corso del quale i rapporti tra le parti, e tra queste e la comunità, risultano proiettati su un piano di assoluta esteriorità. Così mentre i casi di falsa testimonianza e di falso giuramento sono, in sede «privata», piuttosto rari ed occasionali (anche, se si vuole, per quanto recita al proposito, questo codice, all’art. 10), essi sono assai più frequenti in sede giudiziaria, che mentire alla «giustizia» e giurare il falso davanti alla «giustizia », non è più mentire, non è più giurare il falso, ma un modo come un altro di partecipazione ad un conflitto che riguarda, si, mediatamente, anche la comunità, ma che già si sviluppa fuori del piano naturale in cui la comunità tende a porre e· risolvere le proprie questioni: a vivere le proprie “guerre” e realizzare le proprie “paci”.
L’indifferenza dei barbaricini alla morale del processo colto è infatti altrettanto nota quanto è noto il fermo attaccamento dei medesimi alla moralità del « processo » barbaricino (nel quale ogni uomo è uomo di una sola parola): onde il detto d’un famoso ladro di bestiame (detto anche questo venuto in proverbio): « a giurare mi pones, sa crapa bi perdes » (se pretenderai il giuramento, perderai la capra), detto che è significativo della pretesa a non porre questioni che possano esser dibattute su un piano di rapporti diretti e che su questo piano· sono facilmente risolvibili, su un piano formale, cioè in qualche modo su un piano di rapporti già esteriorizzati, privati quindi di quell’intimità cui viceversa la comunità barbaricina tiene in sommo grado. Dal che deriva, in fine, che il principio affermato in questo art. 7 ha, per la comunità, la sua forza nella relativa facilità con cui la certezza può essere raggiunta, a condizione di non violare, nel corso dell’indagine, le consuetudini che regolano la medesima, a condizione insomma di indagare con pieno e totale rispetto per le norme che regolano i rapporti sociali barbaricini anche da questo punto di vista. E’ ovvio per altro che uno studio delle consuetudini procedurali dell’istruttoria barbaricina sarebbe di estrema importanza e, forse, anche questo un altro studio da fare: anche la rilevazione del « codice della procedura penale » in Barbagia costituirebbe infatti un capitolo pur esso estremamente vivo ed importante di esperienza giuridica.
(i) La forma più solenne di giuramento è solitamente detta quella del « giuramento di Pilato », dal sopranome, per quel che mi risulta, di chi ne ha inventato o maggiormente diffuso l’uso. La formula del giuramento resta identica (in dialetto: «giuro chi no happo nè fattu, nè vidu, nè cossizzadu, nè pessona ch’isco» ), ma viene pronunciata con la mano dentro una speciale cassetta contenente un santino. La leggenda vuole che solo il teste veridico trarrà dalla cassetta la mano intatta, una leggenda, questa pure, oramai screditata come tale, senza però che la solennità del giuramento ne sia risultata in qualche modo compromessa.
(/) L’ultimo punto dell’art 12 merita un breve chiarimento: tra l’altro consentirà di riprendere e sviluppare ulteriormente il discorso o alcuni punti del discorso avviato nella precedente nota n. 4.
Il furto di bestiame in genere non solo non costituisce offesa, ma in linea di massima non costituisce neppure furto: «furat chie furat in domo o chie venit dae su mare», ruba chi ruba dentro casa (e in genere nell’abitato, in quanto «casa») o chi viene da oltre il mare. Il furto del bestiame, la normale pratica dell’abigeato, non costituisce offesa, perchè nella comunità pastorale barbaricina costituisce una pratica «normale». Si veda di rincalzo il proverbio citato, il brano riprodotto dalle interviste dirette nella precedente Introduzione, VI: «D.: Ma se uno ti ruba il gregge per esempio, ti offende? R.: No, se uno mi ruba il gregge, mi ruba il gregge, non mi offende … solo se me lo ruba, non mi vendico, rubo il suo (si tratta di una questione di «abilità», di essere di volta in volta «più abile», come in una gara), o troverò il modo di riscattarlo (di giungere ad un «abbonamentu») o d’aggiustare altrimenti: e poi rubare è rubare in casa … peggio per chi non sa difendere le proprie cose (anzi, la «cosa », sa robba, che in questo senso vuol dire il proprio gregge, cioè la propria ricchezza) ». La pratica dell’abigeato infatti è per il pastore sardo una pratica tradizionalmente normale, di vera e propria produzione di ricchezza, ed è connessa all’esercizio dell’abilità (essere abile, è la virtù fondamentale del pastore), nel normale esercizio della pastorizia barbaricina: un modo come un altro, il modo più facile e insieme più difficile e pericoloso tuttavia, di reagire alla strutturale miseria del pastore, un modo come un altro di difendere la propria vita in un regime di vita troppo povero per consentire – spesso – altri modi di arricchimento. Famosa la poesia di un poeta dialettale (MELE) in difesa dei ladri di Olzai (Nuoro) (si tenga presente che la volpe, quasi nel senso machiavelliano del termine, è in definitiva il simbolo dell’uomo ideale, del «pastore ideale»):
« In 0/zai no campat piùs su mezzane – ca nde li han /eadu sa pastura, – sa zente, ingo/umada a sa do/zura, – inventat saba da-e su olidone. – De nou ‘ogadu hana cust’imbentu – pro sedare vementes appetitos: – /eadu hana a mazzone s’a/imentu – però l’hana a riassumere sos crepitios, – No li faghene a isse impedimentu – ne mancu de Dualche sos iscrittos, – de mazzone aumentan sos de/ittos non codiat porcheddu né anzone – Si furat, in cuss’attu l’iscusade – ca sa famen fu privat de sa vista: – postu mazzone in sa nezessitade – de fagher sa figura brutta e trista – cun piena e cun totta libertade – de ue podet si faghet sa provvista, – e isfidat su primu rigorista – a li negare s’asso/uzione ». (In Olzai non campa più la volpe perché le hanno tolto la pastura; la gente, fatta la gola dolce, inventa la mostarda dal corbezzolo. E’ ben questa l’ultima trovata che sedi i veementi appetiti: hanno tolto alla volpe l’alimento ma la sconteranno i capretti. Non gli possono impedire [le razzie] nemmeno gli esorcismi di Dualchi [prov. di Nuoro]: della volpe aumentano i delitti, essa non si lascia né porcellino né agnello. Se ruba, scusatela in quell’atto che la fame la priva della vista: messa la volpe nella necessità di fare una figura brutta e triste, con piena e con tutta libertà dove può attinge la provvista, e sfida il migliore dei rigoristi a negarle l’assoluzione – Trad. di SALVATORE CAMBOSU, in: Miele Amaro, Firenze, Vallecchi, 1954).
Come si vede, in questa poesia che pur è un importante documento sociologico, l’alternativa « necessitata »: « fagher sa figura brutta e trista » di chi è privo d’ogni elementare abilità(= virilità), o conservare quella « piena e totta libertade » che è la misura dell’uomo« abile», è appunto una alternativa necessitata, tale per cui il suo stesso porsi, in quei dati termini, è già porre visibilmente la fatale direzione della scelta e, per cosi dire, già negare la possibilità di scegliere diversamente da come la stessa alternativa suggerisce, emergendo da un tipo di discorso – e riferendosi ad uno stato di necessità – che è chiaramente inteso a giustificare la scelta esattamente nella direzione che la registrata alternativa suggerisce. Il furto che non avvenga in domo, non è furto perché è una pratica normale di vita, una pratica per sopravvivere, è privo di qualsivoglia elemento di riprovevolezza perché un comportamento necessario, un comportamento che ha la sua legge nello stato di necessità cui obbedisce.
C’è però anche il caso in cui il furto del bestiame può costituire offesa: e si perfeziona quando l’evento è prodotto ( = risulta prodotto) non solo per arricchire se medesimi, ma per procurare un effettivo danno altrui, anzi, più per questo che per quello. Si capisce che per porre in movimento il meccanismo della vendetta, occorrerà, in tal caso, accertare l’intenzione offensiva (che in casi di questo tipo non è immediatamente evidente, non è cioè resa immediatamente esplicita come nei casi di danno patrimoniale elencati nell’art. 14, il quale è in parte costitutivo di un elenco perfezionante il senso di questo art. 13), cosa che per lo più avviene nel corso di quell’operazione che si dice della « chirca de sa robba » (della ricerca del gregge), allorché per esempio il ladro rintracciato ponga al derubato condizioni di « abbuonamento » tali da rendere con la loro esosità evidente il proposito di produrre danno, di ridurre il derubato ad una condizione di disperazione ( «torrare a nudda», ridurre a zero, anzi, far tornare a nulla). Questo effetto per lo più si cerca di realizzarlo con lo sgarrettamento (v. art.14), ma se il soggetto attivo vuole con l’occasione realizzare un qualche vantaggio per sé, la pratica dell’abigeato ne fornisce appunto il pretesto: e quando appunto l’abigeato non è che un pretesto, ecco appunto che una pratica normale, e moralmente … di tutto riposo, finisce o può finire col diventare offesa e quindi causa di perfetta legittimazione della vendetta. Qui è uno dei punti in cui il circolo vizioso della vendetta barbaricina comincia a venire alla luce, e tuttavia a tal proposito, vedi anche il III degli Studi complementari, dove questo circolo sarà compiutamente e speriamo esattamente descritto.
(m) L’esistenza del concetto di circostanza nella pratica della vendetta, non è un fatto immediatamente esplicito: ma è risultata certa, una presenza certa e fondamentale nella struttura della vendetta barbaricina, dall’analisi dei fatti che interessano quella pratica, oltre che dall’analisi dei casi che costituiscono l’offesa. In più, quanto questo concetto sia perentoriamente presente alla coscienza barbaricina, è ben stato chiarito dalle interviste dirette che hanno continuamente puntualizzato, è il caso di dire, anche tale circostanza. I due frammenti di interviste riprodotti nella Introduzione, ne danno una diretta testimonianza, come già abbiamo posto in rilievo, sicché non resta in questa sede che richiamarsi ad essi ed al breve commento che abbiamo fatto seguire, nella stessa sede.
Tuttavia si tenga presente che anche il detto già ricordato (vedi sopra la nota i): « furat chle furat in domo o chie venit dae su mare », è assai significativo, l’esistenza del furto essendo evidentemente fatta dipendere in Barbagia non dall’evento che realizza l’indebito appropriarsi di cosa altrui, ma dalla circostanza oggettiva o soggettiva del fatto, dal luogo in cui l’evento è prodotto (in domo) o dalla condizione soggettiva del ladro rispetto alla comunità (chie venit dae su mare), o propriamente dall’assolutamente forestiere, come a dire da uno il quale non vivendo e non operando nella comunità non può essere da questa legittimato – sarà perché non offre possibilità di contropartita! – all’esercizio di ciò che per chi vive ed opera nella
comunità è di pratica affatto normale.
(n) Per la complessiva analisi degli artt. 14, 15, 16, vedi il III degli Studi complementari.
(o) Anche per questo punto che rimette in discussione l’atteggiamento della comunità barbaricina nei confronti dell’ordinamento giuridico dello Stato é in particolare – tema variamente sfiorato – del «processo», vedi il primo e il secondo degli Studi complementari. Però anche in questa sede, per una prima indicazione, cfr, la nota 8, scritta ad integrazione di quanto recitato dal precedente art. 7.
(p) « A uccidere toccata Deus », spetta a Dio, uccidere: « su sembene no est aba », il sangue non è acqua; « morte in chentu annos, no si immenticat mai », la morte – per uccisione – non si dimentica mai, neppure in cento anni. Questi tre proverbi danno la misura delle ragioni per cui la pratica della vendetta ed il sistema normativo che essa esprime, fanno così frequentemente un caso speciale dell’offesa del sangue, anche se l’idea, del resto sociologicamente inverificata, che la vendetta è necessariamente legata alla « memoria » del sangue, resta nel complesso rigorosamente smentita in questo codice, nel quale l’offesa del sangue rappresenta, nel crescendo delle offese, l’offesa più grave; ma altrettanto non nel ritmo che misura l’intensità della pena, non l’unica a legittimare il ricorso « al peggio ».
Accade, anzi, come si può vedere ed è qui reso esplicito, che l’offesa del sangue rappresenta, nel crescendo delle offese, l’offesa più grave; ma altrettanto non si può dire per l’uccisione a scopo di vendetta. La differenza fondamentale è che l’offesa del sangue crea condizioni di maggior difficoltà al componimento della vertenza conseguente l’offesa stessa e, soprattutto, nel fatto che questa non può cadere in prescrizione: che può, pro tempere, essere « perdonata » ma non « dimenticata », creando quindi di fatto, tra le parti interessate, uno stato di tensione permanente importantissimo per il peso che può avere, in nuove circostanze, nello stesso meccanismo della vendetta. L’offesa del sangue – in assoluto – e cioè anche se immediatamente composta, crea una serie di rapporti estremamente precari, un regime quantomeno di latente disamistade (= di latente inimicizia) che di norma ha periodi di drammatica riacutizzazione (le inimicizie di Orgosolo e di Orune, vicende già secolari), bastando, a tale riacutizzarsi, episodi che, senza quel presupposto, potrebbero facilmente passare inosservati: e che l’antica memoria, al contrario, non consente che passino inosservati, costituendo la situazione remota, una circostanza gravemente « aggravante » anche per le successive offese più lievi.