EMERGENZE EPIDEMICHE E SANITARIE NELLA SARDEGNA DEL PASSATO, di Federico Francioni
Premessa – Nel Medioevo – Nel Cinquecento – Nel Seicento – La peste di metà Seicento: alcuni dati – Medici in Sardegna (nella foto: Giovanni Tommaso Porcell) – Conclusioni.
Premessa. La storia sociale di secoli di malattie può essere utile per un approccio alle problematiche odierne. L’emergenza che stiamo attraversando dovrebbe farci approdare ad un cambio di paradigma sulla sanità pubblica, depauperata da decenni di politiche ispirate al liberismo selvaggio: i risultati di questa logica sono stati deleteri anche e soprattutto per la Sardegna. Notevoli danni, d’altra parte, sono stati causati, nel Mezzogiorno e nell’isola, dall’utilizzo delle logiche clientelari, nella spesa sanitaria e nella distribuzione dei posti di lavoro, nonché da criteri di assistenzialismo e non di servizio. A ciò si aggiungano appalti e stanziamenti su strutture poco o nulla utilizzate. Occorreranno in ogni caso nuovi investimenti che puntino, fra l’altro, all’immissione stabile delle energie professionali di giovani leve.
Il tema di un intervento statale e delle singole municipalità, indispensabile per combattere le epidemie, è stato affrontato da secoli. Ignorare quanto la conoscenza storica offre alla riflessione attuale intorno al tema della sanità pubblica potrebbe contribuire all’approdo verso devastanti regressioni.
Nel Medioevo. Com’è noto, la Sardegna, dal Medioevo all’Età moderna, non si è certo sottratta alle pestilenze: contemporaneamente al picco registratosi in Europa, la peste, nel 1347-48, investe prima Cagliari e si estende poi a tutta l’isola. Il morbo si ripresenta nel 1376 e falcia, fra gli altri, il giudice d’Arborea Mariano IV, fermandone il disegno antiaragonese, volto alla conquista di tutta l’isola, ripreso dalla figlia Eleonora, caduta ad opera dello stesso male. Peraltro, escluse le roccaforti di Cagliari ed Alghero, i sovrani arborensi, compreso Ugone III (figlio di Mariano, fratello e predecessore di Eleonora) signoreggiavano ormai su tutta la Sardegna.
La peste ricompare nel 1398, nel 1403 e nel 1424, quando colpisce Alghero che deve essere ripopolata con nuovi coloni; nel 1442 infuria ad Oristano, dove dura per ben sette mesi, provocando 700 morti; nel 1477 si manifesta a Sassari e quindi di nuovo ad Alghero.
Nel Cinquecento. La peste torna ad imperversare nell’arco di tempo 1522-1530: la fase più acuta si verifica a Sassari, occupata dai soldati francesi di Renzo Ursino de Ceri. Diverse, a seconda degli autori, le stime riguardanti le vittime: pare che i superstiti siano stati 3.000.
Nel 1582-83, la peste annienta, o quasi, la popolazione di Alghero in un tragico momento storico che sottopone ad una prova tremenda anche Sassari. Si può parlare in ogni caso di spaventose emorragie che nel XVI secolo contribuiscono allo spopolamento di un mondo sardo già “vuoto”, come può essere definito in base alle indagini di Maurice Aymard, di John Day (lo storico franco-americano, grande amico della Sardegna, chi apo àpidu sa bona sorte de connòschere), di Maurice Le Lannou, dei cari e compianti Francesco Manconi e Giuseppe Serri.
Si delinea così il paradosso in base al quale gli spazi resi deserti, o quasi, dall’infuriare dell’evento epidemico creeranno, in momenti successivi, un nuovo limite all’estensione ed all’incidenza del contagio, soprattutto verso le zone interne, a prevalente economia agropastorale, fino alla costa tirrenica, uscite indenni, a quanto pare, dall’epidemia di metà Seicento.
Nel Seicento. Il 1602-1603 è un anno funestato dalle cavallette e da sa pigotta manna (in lingua sarda=il grande vaiolo). Nel 1638 il tifo infuria a Sassari; il 1648 è caratterizzato da una prolungata siccità. L’interrelazione, peraltro assai complessa, fra carestia e morbi epidemici sembra in parte confermata dai 46 fanciulli che in quello stesso anno periscono per vaiolo a Thiesi. Nel 1652, prima della comparsa di una nuova ondata di peste, si verifica una nuova, terribile invasione – dall’Africa – di cavallette che distruggono i raccolti, specialmente nel sud dell’isola. Il cielo sembra oscurarsi e ricordare la maledizione biblica – evocata del resto, per quanto riguarda il XVII secolo, dal cronista Giorgio Aleo (si veda la sua importante Storia cronologica, riproposta a cura dal prima ricordato Manconi) – ma aleggia sinistramente anche nella Sardegna del Novecento, tramandata dalla voce viva di testimoni oculari, perpetuata dalle immagini che ci ha lasciato il grande documentarista Fiorenzo Serra.
Alghero, porta del morbo e del contagio, si presta assai bene, con Sassari, a questo ruolo, sia come approdo di naviglio di varia provenienza, sia per la temperatura dei mesi estivi – e non solo – sia per le condizioni igieniche in cui si moltiplicano ratti e pulci che possono sopravvivere agevolmente nei pavimenti di parecchie case, che sono in terra battuta. Lo stesso regista Serra, del resto, documentava, per il secondo dopoguerra, l’irrompere dalle case dei bastioni algheresi di frotte di bambini, quasi tutti a piedi nudi, accompagnati da cani, gatti e galline starnazzanti.
Se le pulci hanno incidenza decisiva durante l’estate, in inverno vengono egregiamente sostituite dai pidocchi. Si tenga presente che, generalmente, la peste in inverno si attenuava o scompariva ma ciò non si verifica nella Sardegna di metà Seicento.
Il tema della peste e delle malattie complementari comprende un lungo elenco: tifo (in spagnolo tabardillo, petecchiale o esantematico), morbillo, difterite, polmoniti, febbri terzane e quartane.
In Sardegna ed in Sicilia agisce poi la complicazione della malaria, costante plurisecolare che contribuisce in misura decisiva, nella sua ripetitività, ad in debolire l’organismo umano, a fiaccare le energie lavorative, non solo nei campi, aggrava il problema dello spopolamento delle coste, rende difficili le comunicazioni. Soprattutto in estate, la sarda intemperie spinge ricchi e poveri a starsene prevalentemente chiusi in casa, ciò che viene notato dai viaggiatori forestieri sino all’Ottocento. Sono indubbi gli influssi di questa piaga e di correlate abitudini su economia, comunicazioni, cultura e mentalità ed anche nella costruzione di uno stigma: la Sardegna come isola quasi o solo intemperiosa, malarica – immagine creata e teorizzata fin dall’antichità ad opera di autori classici - è tuttavia oggetto di critica già nell’età moderna da autori non solo sardi.
Le peregrinazioni della pestilenza di metà Seicento costituiscono – in negativo, s’intende – una lampante dimostrazione che è assolutamente errato insistere su una Sardegna pressoché tetragona o impenetrabile ad ogni influsso. Il morbo infatti, dalla Catalogna – e più precisamente da Tarragona - perviene ad Alghero: da qui passa a Cagliari che lo trasmette alla sponda italiana. Dal porto cagliaritano e tramite Napoli la peste si estende nel Mezzogiorno peninsulare e nello Stato pontificio fino alla Repubblica di Genova. Per affrontare e debellare il male, solo quest’ultima città dispone di una magistratura ordinaria, stabile, appositamente rafforzata per l’occasione; invece la Congregazione della sanità a Roma, la Deputazione sanitaria a Napoli e la Giunta centrale a Cagliari sono corpi straordinari che entrano in funzione solo al palesarsi dell’emergenza. Nell’organismo isolano, che ha carattere puramente amministrativo, non siedono peraltro il protomedico di Cagliari ed il suo vice a Sassari che, una volta diagnosticata la malattia, devono attendere esclusivamente alle loro mansioni professionali.
Notevole attenzione ad epidemie, pestilenze e malattie viene data dalle autorità del porto di Livorno, su cui si è particolarmente soffermato il magistrato e storico Romano Canosa che si è occupato anche della Sardegna. Egli ha posto in risalto le differenze, nell’approccio al rischio del contagio, fra la città labronica e Genova, entrambe fra le più attrezzate per fare fronte a questo tipo di calamità. Anche Roma mise in atto notevoli politiche sanitarie, almeno in relazione alla temperie medico-scientifica e culturale; sono da ricordare le pagine di Carlo Maria Cipolla che ci informano inoltre su ben precisi programmi di intervento contro le epidemie nella Firenze dei primi decenni del Seicento.
La peste di metà Seicento: alcuni dati. Le conseguenze, nel tempo, della peste che colpì la Sardegna del 1652-57 sono di lunga gittata soprattutto per Sassari. La città perde il suo primato demografico su Cagliari che in quel tragico momento riesce a contenere (relativamente) le perdite. Il numero degli abitanti di Sassari potrà riavvicinarsi a quello di Cagliari solo nel passaggio dall’Ottocento al Novecento (lo ha fatto presente Manlio Brigaglia, nel suo libro su La classe dirigente a Sassari da Giolitti a Mussolini, ricordando quanto disse allora il sindaco Pietro Satta Branca). Sino alla fine del XVIII secolo, la città non riuscirà a recuperare i livelli demografici antecedenti il 1652: dopo la pestilenza di metà Seicento, la sua popolazione crolla dalle circa 17.000 unità del 1627 alle 7.000 del 1655. Nel 1698 il capoluogo del Capo di Sopra non si era del tutto ripreso, se è vero che contava su 11.728 abitanti. Nel 1699 si tengono le sessioni dei tre Stamenti (ecclesiastico, militare e reale), cioè gli ordini o Bracci dell’antico Parlamento sardo, presieduti dal viceré Giuseppe de Solis Valderrábano, conte di Montellano (l’ultimo celebrato nell’isola pendente la dominazione spagnola); don Felice De Liperi Zonza, giurato in capo e sindaco di Sassari, riportava allora questi dati: 12.000 sassaresi morti in un’epidemia del 1648; 30.000 vittime nella peste del 1652-57; oltre 6.000 nel 1680-81. Dalla ricerca storica è emerso che si tratta di evidenti esagerazioni. In effetti, prima della pestilenza di metà XVII secolo, la città sarebbe pervenuta ad un picco demografico di 18-20.000 abitanti. Dopo il passaggio del morbo degli anni Cinquanta, i sopravvissuti sarebbero stati sui 4-5000.
Nel 1680-81, il capoluogo e la Sardegna vengono colpite da una carestia sicuramente intrecciata a fattori epidemici. Secondo fonti di fine anni Ottanta del Seicento, il totale delle vittime ammontava allora ad un terzo della popolazione isolana. Anche il 1687 è ricordato come anno di emergenza.
Nel 1688, Cagliari dispone di 16.276 abitanti, suddivisi in 8.638 maschi e 7.638 femmine. Negli anni precedenti, in vista del Parlamento presieduto dal viceré Nicola Pignatelli, duca di Monteleone, un censimento a fini fiscali viene ufficialmente compilato e – per la prima volta – si dispone di un quadro abbastanza credibile del numero complessivo non solo dei “fuochi” familiari, ma anche delle singole “anime”. Emerge che, alla fine del Seicento, il saldo demografico generale è negativo: i sardi, dai 310.000 abitanti del 1627, scendono a 230.321 nel 1688, per risalire solo parzialmente la china, fino a toccare le 260.551 unità nel 1699: le ultime due cifre sono quelle più attendibili (si vedano gli atti del Parlamento Monteleone, curato da Federico Francioni e quelli del Parlamento Montellano, curato da Giuseppina Catani e Carla Ferrante; si tratta dei volumi 22 e 23 degli Acta Curiarum Regni Sardiniae, disponibili gratuitamente presso il Consiglio regionale che inoltre li ha meritoriamente inseriti on line).
Medici in Sardegna. A partire dal Cinquecento, anche in Sardegna non mancarono gli studi, le ricerche, i trattati dei medici e le misure rigorose che però ben poco poterono contro la forza estrema del morbo. Se è vero che la medicina spagnola del Seicento andò incontro, se non alla decadenza, al declino, nel XVII secolo permangono l’orma profonda e le acquisizioni del medico cagliaritano Giovanni Tommaso Porcell, autore dell’opera classica dal titolo Información e curación de la peste de Saragoza y praeservación contra peste en general, considerata una pietra miliare nella storia di dottrine e terapie epidemiologiche, ancor oggi posta dalla ricerca storica ai vertici delle elaborazioni proprie di quel tempo. Dopo aver studiato in varie Università della penisola iberica, il Porcell si era laureato a Salamanca ed era diventato docente nell’Estudio general di Saragozza. Scoppiata la peste nella capitale aragonese (1564), egli era stato in buona sostanza precettato dalle autorità locali ed aveva lavorato assai duramente per otto mesi nell’ospedale generale di Nuestra Seňora de Gracia, in grado di assistere addirittura 800 pazienti al giorno.
Sul piano teorico, generale ed astratto, Porcell appare rispettoso di Ippocrate e di Galeno, ma nel suo trattato chiarisce che intende scrupolosamente attenersi ai risultati dei rilievi anatomici eseguiti su cinque cadaveri di appestati. Egli individua il fomite della peste nel contagio che si propaga attraverso gli uomini e gli indumenti che indossano. Porcell non nega l’esistenza di vapori velenosi nell’aria, i quali, all’interno dell’organismo umano, trovano un terreno particolarmente ricettivo nell’umore colerico: dalla vescica della bile, dallo stomaco, dalle ghiandole delle ascelle e dalla zona inguinale, il vapor velenoso y malo sale al cuore, provocando il decesso del paziente. Gli umori corrotti si manifestano attraverso i bubboni e le pustole. Criticando la tradizione di una prassi che doveva essere imperiosamente condotta, secondo le dottrine del tempo, con salassi e purghe, egli sostiene che l’apertura degli ascessi va effettuata tempestivamente e solo in certi casi; si tratta poi di lenire con impiastri ed unguenti. Il cambio di passo di cui Porcell è latore consiste in un metodo sperimentale che, ai suoi occhi, diventa preminente rispetto alla conferma ed alla smentita della solidità dei principi sostenuti dagli autori classici. Egli inoltre intende razionalizzare l’assistenza agli infermi e propone la compilazione di una statistica medica onde acquisire nuove conoscenze e perfezionare la prassi terapeutica.
Forse Porcell riuscì infine a tornare in Sardegna. La sua ricca biblioteca sarebbe stata venduta dal figlio ed avrebbe arricchito la già straordinaria collezione di Monserrat Rossellò, bibliofilo cagliaritano che arrivò a possedere ben 5.000 volumi, cifra enorme per una biblioteca privata (non solo del suo tempo): fra questi, i più importanti trattati sulla peste del Cinquecento spagnolo. Non è azzardato dunque sostenere che Porcell abbia lasciato traccia anche nella storia della medicina isolana (si veda quanto ha scritto al riguardo Manconi nella sua consistente monografia Castigo de Dios).
Accanto a Porcell va ricordato il medico di origine calabrese Quinto Tiberio Angelerio, operante prima a Messina nel corso della peste del 1575-76, in seguito assunto dalla muncipalità algherese. Anche questa interessante figura pensa di contemperare il paradigma aerista di Galeno con i seminaria di cui aveva parlato Girolamo Fracastoro nel trattato De contagione et contagiosis morbis (1546). Angelerio, da una parte, non viene meno all’ostinata credenza nelle influenze e nelle congiunzioni astrali ma, in occasione della pestilenza propagatasi ad Alghero, prova a concretizzare le sue idee in materia di igiene e profilassi: ciò sembra aver avuto effetti di una certa portata. Non si tratta solo di curare il singolo ma di prendere rigorosi provvedimenti per circostanziare il male, per assicurare la salute pubblica nella città e nel territorio, che vanno tutelati da Consigli di sanità cittadini, cioè da appositi deputati cui spetta il compito di sopraintendere al rigoroso rispetto delle norme preservative. Bisogna continuare ad assistere gli infermi poveri non appestati, creare un sistema integrato fra ospedali e lazzaretti, accendere dappertutto grandi falò, costruire forni per la disinfestazione di prodotti e merci, seppellire in cimiteri lontani dalle chiese (viene in mente l’editto napoleonico di Saint Cloud, del 12 giugno 1804, sui cimiteri suburbani, da cui prende l’avvio il carme I sepolcri di Ugo Foscolo).
Altri provvedimenti adottati nella Firenze del 1620-1630 contro il tifo petecchiale e la peste sono citati nel testo del già ricordato Cipolla: bruciare subito i vestiti dei malati e dei morti, serrare le case degli infetti per almeno 22 giorni e poi disinfettarle, in particolare con lo zolfo. In tal modo si giunge ad individuare il principio chiave della socializzazione nella lotta ai morbi: è una scoperta destinata ad approdare a risultati determinanti; certo, più sul lungo periodo, a causa della forza comunque devastante dell’agente patogeno in atto, nonché di ambienti pressoché privi di cura igienica, propri dei tempi di Angelerio ed anche dei secoli successivi.
Nel più ampio contesto dell’Impero spagnolo, considerato non a torto come abbastanza sclerotizzato, l’azione di Angelerio è importante. Egli venne influenzato da un’altra notevole personalità, il protomedico siciliano Gian Filippo Ingrassia che, nell’Università di Padova, era stato allievo di Andrea Vesalio, autore di De humani corporis fabrica, critico della tradizione galenica, soprattutto sul piano anatomico: si tenga presente che nella sua Informatione del pestifero e contagioso morbo, Ingrassia riconosce e loda il magistero di Porcell. Nel Seicento il Tratado universal di Juan Nuňez de Castro fa riferimento, sia in materia teorico-dottrinaria, sia sul piano pratico dell’organizzazione sanitaria, all’eredità del medico cagliaritano e dello stesso Angelerio (cfr. ancora Manconi, Castigo de Dios, pp. 109-119, opera che va considerata importante non solo nell’ambito della storiografia sulla Sardegna; si veda anche Antonio Budruni, Storia di Alghero. Il Cinquecento e il Seicento).
Altre significative personalità che emersero allora nel campo medico isolano furono Andrea Vico Guidone (o Guidoni), Gavino Farina e Pietro Achenza Mossa, per niente avulsi da ricerche e dibattiti di più vasto respiro.
Il Vico analizzò la natura delle febbri perniciose e di altre malattie che falcidiavano la popolazione di Sassari. Il Farina fu archiatra del duca di Montalto Luis Guillem de Moncada, seguì questi nei mandati vicereali in Sardegna, Sicilia e Valencia; fu inoltre medico di Filippo IV, di Carlo II e di Marianna d’Austria, moglie e madre, rispettivamente, di questi due sovrani, gli ultimi della dinastia asburgica nell’Impero spagnolo. Il Farina diede un notevole contributo allo studio della malaria, la sarda intemperie. Tali indagini furono riprese dall’Achenza Mossa, discepolo del Farina, nato a Tempio nella seconda metà del Seicento. Sulle tracce del maestro, egli intuisce la specificità eziologica della malaria, distinguendola dalla peste e da altre malattie. Non era poco, in un contesto ancora dominato dal paradigma aerista di Galeno ma nel quale si verificano significative aperture alla teoria dei seminaria di Fracastoro (si vedano in proposito pagine di Manconi, di Paolo Cau, direttore dell’Archivio storico del Comune di Sassari e di Antonello Mattone).
Nel 1702 – come si apprende da carte dello stesso Archivio – la municipalità sassarese era assai scossa dal numero di morti che si verificava ogni giorno in città: un’altra, non meno precisata influencia? Siamo ormai agli sgoccioli della dominazione spagnola che finirà con la Guerra di successione.
In ogni caso, i primi decenni di quello che poi diventerà il secolo dei Lumi, con influenze decisive anche sul contesto sociopolitico e culturale sardo, metteranno fine a tali catastrofi: non risulta che la peste di Marsiglia del 1720 abbia colpito la Sardegna; per tutto il Settecento e l’Ottocento la popolazione sarda cresce. Non che manchino eventi la cui memoria ci fa ancor oggi rabbrividire: nel 1855 il colera uccide 6.000 sassaresi su 25.000: le pagine di Enrico Costa sulla storia del capoluogo rammentano certi passi del Manzoni, ma Sassari e la Sardegna hanno superato anche quelle tragiche circostanze.
Conclusioni. Già dal Cinque-Seicento – come sviluppo di una rivoluzione scientifica che è anche culturale e politica – si è pervenuti alla consapevolezza che cura e sanità sono problemi che richiedono una socializzazione, non vanno esclusivamente affidati ad interventi di privati, alla beneficenza o ad organismi caritativi. Negli anni Ottanta del Novecento abbiamo assistito ad una vera e propria controrivoluzione, quella intrapresa da Ronald Reagan e Margareth Thatcher, cui non è stato posto un argine: tagli alla spesa pubblica, alla sanità, alla pubblica amministrazione, all’Università, alla scuola ed alla cultura. Ora Donald Trump, Boris Johnson, in Italia Mario Monti (quando era a Palazzo Chigi aveva introdotto il pareggio di bilancio nella Costituzione e tagliato le risorse per la sanità di quasi 7 miliardi di euro), gli economisti Carlo Cottarelli, Alberto Alesina, Francesco Giavazzi e tanti altri si riscoprono più keynesiani del grande John Maynard Keynes, aborrito fino ad un minuto prima. Qualcuno dovrà ricordare a tutti questi signori chi sunt istados de aberu dannàrgios. Tzertu, comente amus iscritu in antis, a costàgiu de su liberismu devimus ammentare sos dannos fatos in sa sanidade dae su clientelismu.
By Francesco Caracciolo, 31 marzo 2020 @ 19:15
Impressiona molto di questi tempi