Esploriamo il cosmo ma senza colonizzarlo. La Terra va salvata, di Emilio Cozzi

Didier Queloz ha  vinto l’ultimo Nobel per la Fisica e «la Lettura» l’ha incontrato in Guyana, dove ha assistito al lancio del satellite Cheops, da lui ideato: «La nuova frontiera è lo studio degli esopianeti. Non per abitarli».

Quando si parla della possibilità di emigrare nello spazio, bisogna quindi essere cauti. Sia chiaro, non sono contro l’esplorazione anche umana di altri  pianeti del Sistema solare, ma data l’estrema difficoltà di queste imprese, ritengo più sensato preoccuparsi della Terra, cercando di mantenerla nelle migliori condizioni possibili. Sono convinto che questa dovrebbe essere una priorità per tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo di lui ne sono stati scoperti 4.100, anzi: cinquemila se si contano anche i «candidati». Ma lui, 51 Pegasi b, fu il primo degli «esopianeti» di cui si ebbe evidenza, il primo a essere individuato nell’orbita di una stella di tipo solare, precisamente nella costellazione di Pegaso, a cinquanta anni luce da noi. Era il 1995 e quando lo si individuò con il metodo della velocità radiale — basato sulla ricostruzione dell’orbita di un corpo celeste attraverso le variazioni della luce emessa dalla sua stella — all’Observatoire de Haute-Provence, in Francia, lo si ribattezzò Bellerofonte, come l’eroe mitologico che, appunto, riuscì a domare il cavallo alato Pegaso. Fino ad allora si credeva non esistessero sistemi planetari come quello che ci ospita. «È questo l’aspetto innovativo, la continuazione moderna della rivoluzione copernicana», dice a «la Lettura» Didier Queloz, uno dei due astronomi — l’altro è Michel Mayor — cui la scoperta di Bellerofonte ha valso il premio Nobel per la Fisica lo scorso ottobre.

Lo incontriamo nella Guyana francese, dove assiste al lancio di Cheops, il satellite da lui ideato per l’Agenzia spaziale europea che, partito mercoledì 18 dicembre da Kourou, da aprile comincerà a misurare 2.500 esopianeti scoperti dopo 51 Pegasi b.

Nato a Ginevra 53 anni fa, occhiali con due lenti come quelle di un telescopio, bermuda e sandali, Queloz ricorda uno di quegli scienziati inventati da Hollywood per fare sembrare abbordabili anche le scienze più complesse. Solo che lui è vero, come sanno gli studenti che affollano le sue lezioni a Cambridge.

«Hanno cambiato per sempre il nostro modo di concepire il cosmo», ha spiegato la Reale accademia delle Scienze svedese al momento di consegnargli il Nobel.

Professore, il vostro lavoro è all’origine o, forse, è l’origine di una rivoluzione. All’epoca ne eravate consapevoli?

«Ci rendemmo conto di essere di fronte a un risultato importante ma nessuno capiva quanto, poiché 51 Pegasi b, che oggi si chiama Dimidium, è un pianeta bizzarro (ha un periodo orbitale di soli 4 giorni, contro i 365 della Terra, ed è simile a Giove ma senza una controparte nota in altri sistemi, ndr). Subito dopo la scoperta, prevalse uno scetticismo estremo da parte di tutta la comunità scientifica, molti pensavano si trattasse di un fruscio stellare che avrebbe falsato il risultato. L’incredulità non si smorzò fino al 1999, quando altri ammisero di avere individuato il transito di un esopianeta. Fu la conferma ufficiale di ciò che sostenevamo da quattro anni».

E poi?

«La comunità scientifica ha progressivamente cambiato l’approccio all’indagine delle origini dei pianeti, fino a stravolgerlo. Abbiamo dimostrato che il nostro non è altro che un sistema tra molti: la Terra non è più al centro del Sistema solare, è quest’ultimo, oggi, a essere studiato in relazione ad altri sistemi. Che poi è quello che facciamo adesso».

Con missioni come Cheops?

«Cheops è solo l’inizio. Misurerà le dimensioni degli esopianeti noti con una precisione senza precedenti. Sono dati fondamentali, perché dal rapporto fra il volume, calcolato dal satellite, e la massa, misurata dal suolo, potremo dedurre la densità di un pianeta e capire se sia un gigante gassoso, una sfera di roccia, di acqua o di ghiaccio».

Solo l’inizio?

«Certo. E sappiamo già quali saranno i prossimi passi: anzitutto approfondire la conoscenza degli altri esopianeti conosciuti, poiché molti di questi non hanno una controparte nel Sistema solare e vanno quindi studiati. Mi riferisco a una super Terra (un esopianeta di tipo roccioso con una massa compresa fra 1,9 e 10 volte quella terrestre, ndr) o un mini Nettuno, per citarne alcuni. Un’altra ambizione è individuare pianeti uguali a quelli del Sistema solare: cerchiamo un pianeta simile alla Terra, o un pianeta come il nostro Giove. Il progetto è già iniziato e stimiamo di raggiungere l’obiettivo entro i prossimi vent’anni. A quel punto studieremo l’atmosfera di alcuni di questi corpi celesti».

Con missioni satellitari come Plato e Ariel, già programmate per il 2026 e 2028?

«Non solo: presto useremo anche telescopi di nuova generazione come il James Webb Space Telescope, il più potente mai costruito (il cui lancio in orbita è previsto a marzo del 2021, ndr). Mentre la missione Plato cercherà esopianeti nuovi e Ariel analizzerà l’atmosfera dei corpi celesti di maggiori dimensioni, il James Webb osserverà i più piccoli. Inoltre, nuove attrezzature in futuro si occuperanno della Terra, dedicandosi all’individuazione di pianeti come il nostro o come le super Terre. A questo punto, inizierà un capitolo entusiasmante: lo studio della geofisica di questi corpi celesti, che ci aiuterà a capire se esistano particolari caratteristiche chimiche sulla loro superficie compatibili con la vita. Non sappiamo quando tutto questo accadrà, ma siamo certi che succederà presto».

Cercate la vita extraterrestre?

«Crediamo esistano diverse forme di vita un po’ dappertutto, poiché la vita è chimica e la chimica è presente in varie forme nell’universo. Sia chiaro, non ci aspettiamo di trovare forme di vita basate su principi uguali a quelli che conosciamo, o sulle stesse combinazioni di aminoacidi».

Quindi qual è l’importanza di questo tipo di ricerche?

«L’uomo è un essere curioso: vogliamo capire dove viviamo, comprendere che cosa c’è intorno a noi. Come astrofisici, l’obiettivo della nostra ricerca è conoscere meglio il mondo che ci circonda. Per questo scopo, realizziamo attrezzature e macchine incredibili, che a loro volta permettono di apprendere tecniche e procedimenti nuovi in grado di rendere l’industria più creativa, anche in altri ambiti come la sanità o le comunicazioni. Qualsiasi scoperta fondamentale ha un impatto sulla società: non si sa come o quando, ma ogni grande passo nella conoscenza spinge avanti la nostra specie. Ed è un flusso da alimentare: avremmo potuto migliorare molto il motore a vapore ma senza curiosità, immaginazione e un po’ di follia non saremmo mai arrivati sulla Luna. Lo scopo della nostra ricerca, tradizionalmente definita “pura”, è non estinguere quella curiosità innata: è un obiettivo di carattere globale, perché è alla base del progresso».

Oggi quali sono gli studi più importanti?

«Stiamo ancora cercando di capire l’origine dell’universo e delle galassie e questo orienta molte nostre indagini attuali. L’universo è come un laboratorio, ma caratterizzato da condizioni estreme: esistono luoghi con temperature eccezionalmente elevate o molto basse, ci sono buchi neri dove il tempo si annulla. Sono tutte meravigliose attrezzature fornite dalla natura, un progetto globale di comprensione del cosmo. Presto aggiungeremo fotografie di nuovi pianeti a quelle di cui già disponiamo, dati e misure, e tutto questo ci aiuterà ad avere una maggiore e più globale conoscenza di quello che ci circonda, della sua natura, dell’origine della materia stessa. In passato l’uomo aveva paura di tutto: persino un temporale lo spaventava. Il nostro fine è aiutare a capire il mondo in cui viviamo».

Sono ricerche che però non sembrano darci molte speranze: durante la seconda settimana di conferenze sui cambiamenti climatici a Madrid, la Cop 25, ha dichiarato che dovremmo smetterla di pensare alla colonizzazione di pianeti diversi dal nostro …

«E lo confermo: troppo spesso ho sentito parlare con superficialità dell’importanza di proteggere e salvaguardare la Terra, in virtù della convinzione, infondata, che prima o poi ci sarà possibile vivere su un altro pianeta. Credo che chi è convinto di questo abbia perso il senso della realtà. Staccarsi dalla Terra è un’impresa dalla difficoltà estrema, come ha dimostrato anche il lancio di Cheops, posticipato di 24 ore per un problema al software del razzo, nonostante i progressi tecnologici, combattere la gravità è ancora una fra le sfide più complesse per la nostra specie».

E a livello biologico?

«A livello biologico siamo peraltro fatti per vivere qui, sulla Terra, siamo il prodotto di un’evoluzione lunga tre miliardi di anni che ci ha resi compatibili con la vita su questo pianeta, ma non altrove. L’idea che presto potremo trasferirci su Marte, per esempio, è irresponsabile. Marte è un pianeta ostile. Probabilmente è più facile toccare il fondo oceanico che raggiungere il “pianeta rosso” e garantisco che arrivare sul fondo dell’Oceano è tutto fuorché uno scherzo. Quando si parla della possibilità di emigrare nello spazio, bisogna quindi essere cauti. Sia chiaro, non sono contro l’esplorazione anche umana di altri pianeti del Sistema solare, ma data l’estrema difficoltà di queste imprese, ritengo più sensato preoccuparsi della Terra, cercando di mantenerla nelle migliori condizioni possibili. Sono convinto che questa dovrebbe essere una priorità per tutti. Certo, già oggi lo spazio può aiutarci a capire il nostro stesso pianeta, per esempio ospitando i tanti satelliti che lo monitorano, ma non può essere considerato un piano B, da attuare nel momento in cui la vita sulla Terra sia resa impossibile dalle azioni sconsiderate dell’uomo».

A proposito di responsabilità, crede che il premio Nobel gliene abbia aggiunte?

«Personalmente non sono cambiato, sebbene la mia vita sia stata stravolta, almeno all’inizio. Adesso, devo ammetterlo, la situazione si è normalizzata. Anche l’atteggiamento nei miei confronti da parte di chi lavora nel settore non si è modificato: i colleghi conoscevano il mio lavoro ben prima del Nobel, che com’è doveroso è arrivato solo una volta verificato l’impatto di una scoperta, in questo caso 24 anni dopo. Ciò che è diverso sono le aspettative nei miei confronti da parte di chi non opera nel mio campo, gli “altri”: ci si aspetta che sia più saggio, ma non vedo come un premio possa rendere più saggi. Eppure per il pubblico è come rappresentassi un riferimento, qualcuno cui dare credito qualsiasi cosa dica. In questo senso sì, sento di avere una maggiore responsabilità. Allo stesso tempo, però, devo fare attenzione, poiché, ripeto, mi sento esattamente come prima: non c’è nulla di nuovo o di magico in me».

LA LETTURA, 29 dicembre 2019

 

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