La vera caduta dell’impero romano, di Silvia Ronchey
Il potere dei Cesari non si è chiuso nel 476, sotto l’onda delle invasioni barbariche, ma con il crollo del muro nel 1989..
Si dice che l’impero romano sia caduto nel 476, sotto l’onda d’urto delle cosiddette invasioni barbariche. Ma se osserviamo la storia nelle sue onde lunghe anziché nelle increspature di superficie, come ci ha insegnato lo storico novecentesco Fernand Braudel, e guardiamo ai millenni piuttosto che ai secoli o tanto meno ai decenni, vediamo che in realtà l’impero romano è caduto nel 1989, insieme al muro di Berlino.
Nel quinto secolo l’impero romano non cadde, perché aveva già cambiato indirizzo. Costantinopoli, la nuova capitale che l’imperatore Costantino aveva fondato nel 330, in quell’est del mondo che ciclicamente si impone alla gravitazione della storia, non era una Seconda Roma solo di nome. Lo era e lo sarebbe stata di fatto. In quello che fu chiamato impero bizantino, ma che i suoi cittadini continuavano a chiamare “romano”, si trasferirono senza soluzione di continuità non solo la tradizione statale e l’eredità giuridica dello stato romano tardoantico, ma anche la sua più importante eredità civile: la capacità di amalgamare e integrare sempre diverse etnie.
Nel quinto secolo l’ondata di genti straniere o “barbariche” che travolse la pars Occidentis investì anche la pars Orientis, ma fu inglobata all’interno delle sue strutture di potere, cosicché non solo non ne provocò la fine ma mescolandosi alle sue élite e rinnovandole inaugurò a Bisanzio un meccanismo di ricambio e ibridazione sociale e etnica che resistette per undici secoli, fino al 1453, data della conquista di Costantinopoli da parte dei turchi osmani. Ma neanche a questo punto l’impero romano cadde. La sopravvivenza della cultura statale romano-bizantina fu apertamente assicurata da un lato nell’impero multietnico ottomano, suo diretto conquistatore, dove il sultano assunse il titolo di imperatore di Roma (Rûm), d’altro lato in quello russo, suo immediato continuatore, dove la Terza Roma, Mosca, nacque sotto l’egida dell’ortodossia. Nelle due propaggini nord- e sud-orientale, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie continuò. I sultani mutuarono con rispetto e precisione strutture amministrative, fiscali e giuridiche dell’impero bizantino, a loro volta eredi di quelle romane. Nel mondo russo Ivan IV Groznij, detto il Terribile, fece programmaticamente discendere il proprio potere da quello dei cesari, ossia da una successione ininterrotta di imperatori romani e bizantini. Alla sua visione si adegueranno i successivi czar (“cesari”) della Russia zarista, ma anche gli autocrati dell’impero sovietico. Quando Sergej Ejzenstejn intraprese la sua trilogia sull’antico autocrate russo, Stalin, il moderno autocrate sovietico che in filigrana vi era raffigurato, lo convocò al Cremlino e gli contestò di “non avere studiato abbastanza Bisanzio”.
Solo con la caduta dell’impero ottomano all’inizio del Novecento e soprattutto con quella dell’impero sovietico alla sua fine, nel 1989, alla caduta del Muro, o meglio nel 1991, alla dissoluzione formale dell’URSS, l’eredità di Costantino rivendicata ininterrottamente da Ivan il Terribile a Stalin si è resa vacante, producendo, nell’implosione, un unico macroscopico sussulto tellurico in tutte le aree di irradiazione della civiltà multietnica romana, poi bizantina, poi ottomana e russo-zarista o russo-sovietica.
Guardando la storia da questo punto di vista, è forse meno difficile comprendere il turbolento esordio del ventunesimo secolo. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso in quelle aree geografiche in cui gli imperi romani epigoni avevano tenuto a freno gli scontri fra etnie: dall’Illiria, oggi Balcani, al Chersoneso, oggi Crimea, nel caso del blocco sovietico, e per il quadrante ottomano — nel veloce dissolversi delle temporanee custodie coloniali e dei fragili mosaici di successive alleanze — dalle antiche pianure della Sogdiana e della Bactriana, che oggi chiamiamo Pakistan, Afghanistan, Iran e Iraq, fino alla Siria e al Kurdistan.
Il fantasma di Bisanzio ha preso ad aleggiare vendicativo subito dopo il disgregarsi, all’inizio e alla fine del Novecento, degli ultimi due eredi di un’idea imperiale trasversale alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, e tanto più a quella tra religioni. Si è allora insinuata nella nostra fantasia collettiva occidentale l’idea di uno “scontro di civiltà” tra oriente islamico e occidente cristiano. Un altro muro si è alzato, a dividere due entità astratte — un preteso oriente da un preteso occidente — che a Bisanzio avevano programmaticamente e concretamente costituito, invece, un’unica civiltà. Categorie dimenticate dal medioevo gotico — crociate, infedeli, guerra santa — hanno pervaso il linguaggio della propaganda politica postmoderna. L’evoluzione integralista ha accomunato storicamente Asia e Europa, islam e cristianesimo — ed ebraismo, fra l’altro — tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio. E, poiché nella storia come in natura nulla si crea e nulla si distrugge, il fantasma del vecchio impero, ucciso ma non morto, ha tentato, come i vampiri, di produrne di nuovi, più assetati e meno esperti.
Due autocrati si sono insediati alla guida dell’ex impero zarista e dell’ex impero ottomano, in un tripudio di mezzelune e di croci. Il nuovo zar e il nuovo sultano hanno sostituito alle ideologie laiche nuove ideologie religiose, fondandovi il loro potere. Se quello romano era uno stato laico e se Costantino, il primo imperatore bizantino, aveva reso il cristianesimo religione di stato imponendo tuttavia l’estromissione del clero dal potere temporale, dopo la caduta del Muro novecentesco i potentati ecclesiastici e in generale gli estremismi religiosi hanno ripreso forza, creando, più o meno opinatamente, altri muri. Altri “barbari” si sono materializzati agli occhi di ampie fasce di opinione occidentali nelle colonne di migranti che il terremoto dell’inizio del terzo millennio ha sbalzato sulle sponde e tra le onde del Mediterraneo. Creando così altre divisioni, moltiplicando barriere e fili spinati esterni e interiori, in una quinta infinita di muri.
La Repubblica – Robinson, 02/11/2019