La saggezza, secondo Michel Onfray

«Saper morire significa saper vivere», scrive Michel Onfray (nella foto) , che nel nuovo libro Saggezza si rifà agli antichi Romani

Il «Parmenide»? Inutile. La «Metafisica» di Aristotele? Inutile. Le «Enneadi» di Plotino? Inutili. Michel Onfray chiude la sua trilogia — dopo «Cosmo» e «Decadenza» — con un testo che smonta la filosofia greca (i professionisti della filosofia) a favore di quella romana (i professionisti della vita)

Nel 79 dopo Cristo il comandante della flotta romana Plinio il Vecchio si trovava a Capo Miseno quando il Vesuvio cominciò a eruttare. Plinio si avvicinò per capire che cosa stesse succedendo e, quando intuì le dimensioni della catastrofe che avrebbe inghiottito Pompei, non si lasciò prendere dal panico. Anzi, cercò di dare l’esempio: fece un bagno caldo, consumò con calma la cena, si rese presentabile agli amici. «Saper morire significa saper vivere», scrive Michel Onfray, che nel nuovo libro Saggezza si rifà agli antichi Romani — in polemica con i Greci — per indicare come vivere «ai piedi di un vulcano».

 

Caro Michel Onfray, nella sua carriera lei ha già dato prova di coraggio intellettuale. Dopo essersela presa, tra gli altri, con Freud, Sartre e il cristianesimo, nell’ultima opera loda i Romani e si sceglie un altro bersaglio di alto livello: la filosofia greca. C’è in lei il bisogno, o il piacere, di smontare i miti? Perché?

«Mi sono scoperto, in effetti, un tropismo per la demistificazione. Non mi sono pensato così dall’inizio, ma è così che ho cominciato …  Quel che, con Il ventre dei filosofi (titolo dell’editore, il mio era Diogene cannibale), poteva passare per un libro divertente sui rapporti tra la cucina e i filosofi: era in effetti un invito a voltare la pagina filosofica idealista in base alla quale le idee piovono dal cielo, mentre con quel libro affermavo, da seguace di Nietzsche quale già ero, che le idee si sprigionano e salgono dal basso, da un corpo materiale animato da uno slancio vitale. Molto presto — tra i dieci e i quindici anni — ho intuito in modo confuso che il cattolicesimo era una finzione costruita in modo sottile. Mi sono allora riproposto di indagare il suo essere fittizio. Da allora ho sempre mantenuto questa direzione».

 

In che cosa la filosofia greca, a differenza della romana, la delude?

«È una filosofia da filosofi o da professori di filosofia: una filosofia che si può insegnare dall’alto della cattedra senza mai viverla, senza che produca mai alcun effetto nella propria vita. Ma a che serve una filosofia che non possa mai essere vissuta? Come imparare a nuotare sui libri e su uno sgabello senza mai tuffarsi in acqua. Il Parmenide di Platone, la Metafisica di Aristotele o le Enneadi di Plotino sono libri che servono per passare gli esami e ottenere diplomi di filosofia: ma come vivere secondo Parmenide? O sulla base della Metafisica di Aristotele?».

 

Qual è invece per lei il grande merito di Roma da un punto di vista filosofico?

«Il genio romano consiste nell’avere scartato la filosofia destinata ai filosofi professionisti che brillavano per i loro sofismi o le retoriche formali. Tutte cose che avevano il potere di innervosire all’estremo i Romani, che ci vedevano, a ragione, una palestra di errore e mistificazione. Del resto quando i primi filosofi greci hanno fatto il viaggio a Roma, i Romani li hanno invitati a ritornare in fretta a casa… I Romani non volevano una filosofia per filosofi, ma per tutti. Non volevano formare sofisti o retori, abbindolatori pericolosi, ma cittadini. Per farlo respingevano ogni teoria pura a vantaggio di racconti edificanti, di storie raccontate affinché servissero da esempio pratico, da linea di azione. L’aratro di Cincinnato, la lotta dei Gracchi, il suicidio di Seneca, le palpebre cucite di Regolo servivano a raccontare cose essenziali: il gusto del bene pubblico, la determinazione serena di fronte alla morte, il coraggio davanti al nemico, e tante altre storie destinate a costruire uomini in grado di affrontare la vita in piedi. Analizzo una trentina di queste storie in questo libro».

 

«Saggezza» si apre con la reazione controllata di Plinio il Vecchio all’eruzione del Vesuvio. Il massimo del «cool», potremmo dire oggi. Lo stile qui è talmente importante da diventare sostanza?

«Non le sarà sfuggito che questo racconto in compagnia di Plinio il Vecchio è un’allegoria: il vulcano che minaccia di ricoprire ogni cosa di fuoco e ceneri è la nostra civiltà giudaico-cristiana che va verso l’esplosione … Ho parlato nel dettaglio di questo sfaldamento nelle seicento pagine di Decadenza e questo libro, Saggezza, vi fa seguito al fine di rispondere alla domanda: se il vulcano sta per annientarci, come vivere nel frattempo?».

 

All’opposto del nobile sangue freddo di Plinio, Sant’Agostino fa la figura di un insopportabile piagnone. Qual è la sua colpa? Forse riassume in sé l’atteggiamento cristiano verso l’esistenza, che lei critica?

«Agostino si trova a cavallo tra un mondo che sta crollando, il paganesimo, e il mondo che sta per rimpiazzarlo, il cristianesimo. Lui stesso ha vissuto nella carne il nichilismo di una vita pagana — le donne, il vino, le serate, la depressione — e la redenzione nella vita cristiana dopo la conversione a Milano. L’agostinismo ha fornito il corpo dottrinale del cristianesimo degli inizi. Ma, in effetti, la lettura delle Confessioni lo mostra piangere di continuo. Siamo lontani dal modello romano della padronanza di sé. Quest’arte di piangere per un nonnulla segna la nostra epoca, nella quale i piagnucolosi trionfano».

 

Abbiamo imparato a considerare il gladiatore come una delle prove del carattere primitivo di Roma, e l’avvento del cristianesimo come un progresso sul cammino della civiltà. Lei invece riabilita la figura del gladiatore.

«È perché avete imparato quel che il cristianesimo ha detto del gladiatore e non quel che il gladiatore era davvero! Ma non si preoccupi, è così per quasi tutti… I cristiani hanno voluto presentare la Roma pagana come una Roma barbara. A questo scopo hanno fatto della gladiatura una istituzione inumana emblematica, basti guardare le critiche di Tertulliano per esempio. Ma invece, dal suo inizio religioso alla fine, passando per i momenti di gloria, quelli dell’Impero, la gladiatura è una scuola di saggezza che fa spettacolo delle virtù nelle quali crede: il coraggio, il valore, la bravura, l ’eleganza. Sa per esempio che tutti i combattimenti erano arbitrati? Ma ha mai visto un arbitro nell’arena guardando un film peplum al cinema o alla televisione? Sono i padri della Chiesa e i peplum che hanno dato dei gladiatori questa immagine sbagliata».

 

Qual è il pensatore romano che considera più utile oggi?

«Difficile scegliere, ma opterei per Seneca, anche se è ingiusto per Cicerone… Le Lettere a Lucilio sono in effetti un apice di saggezza che mescola epicureismo romano e stoicismo imperiale. Vi si apprende a vivere, amare d’amore e amicizia, e come usare il denaro, i beni, il potere, gli onori; come invecchiare, soffrire, morire, e questo in relazione con l’ordine del mondo, il che permette di puntare al sublime nella vita quotidiana».

 

«Saggezza» arriva dopo «Cosmo» e «Decadenza» e conclude così la trilogia. Ma la sua enciclopedia del mondo non finisce qui. Quali saranno le prossime tappe?

«È vero, mi faccio sommergere dal mio argomento… Ci sarà in effetti una seconda trilogia. Anima riaffermerà che esiste una natura umana e che il nichilismo della nostra epoca si fonda sulla negazione di essa. Seguirà poi Nichilismo che si interrogherà sulla fine dell’uomo e l’avvento del post-umano. Per finire, Estetica affronterà la questione dell’arte, seguendo le linee di forza delle metamorfosi di uno stesso istinto vitale che si dispiega dall’inizio dell’umanità».

 

La lettura, 3 novembre 2019

 

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