Note sulla più recente storiografia della “Sarda Rivoluzione”, di Luciano Carta

 

1. Negli ultimi trent’anni la storiografia sulla Sardegna ha registrato un insolito fervore di studi sull’ultimo decennio del Settecento, che ha il suo epicentro nel “triennio rivoluzionario sardo”, scandito da tre momenti cruciali: l’invasione francese nel 1793, la cacciata dei piemontesi nel 1794 e le sollevazioni antifeudali nel 1795-96 culminate nella sfortunata epopea di Giovanni Maria Angioy. Sull’onda delle celebrazioni bicentenarie della Rivoluzione francese, la storiografia sarda ha sviluppato una riflessione su questo evento epocale della storia dell’Occidente, rivisitando le vicende storiche locali alla luce della “mentalità” del secolo dei lumi e delle conquiste della Grande Rivoluzione e individuando in quel momento cruciale della storia europea, che segna tradizionalmente l’inizio dell’età contemporanea, l’alba della Sardegna contemporanea.

Non è facile fare un’analitica rassegna di tutti i contributi sull’argomento apparsi dal 1988 ad oggi, soprattutto se tra questi si volessero comprendere, oltre ai libri e agli articoli di riviste, anche gli articoli apparsi sui quotidiani locali, che spesso hanno offerto un contributo significativo di idee e di critica. Queste note, che non intendono fare una rassegna esaustiva delle pubblicazioni disponibili sull’argomento, si propongono di offrire un quadro delle iniziative realizzate e dei contributi più importanti, al fine di inquadrare nell’ambito del recente dibattito storiografico sulla Sardegna di fine Settecento e degli inizi dell’Ottocento, il contenuto di questo libro, che raccoglie gli atti del convegno di studi La Rivoluzione sulle bocche. Francesco Cilocco e Franceso Sanna Corda ‘giacobini’ in Gallura (1802), svoltosi a Santa Teresa di Gallura il 14-15 giugno 1991.

Le iniziative di studio più significative sulla fine del Settecento sardo hanno preso l’avvio, in modo emblematico, con il convegno promosso dall’Amministrazione comunale di Bono nel dicembre 1988 su Giovanni Maria Angioy e i suoi tempi (15-17 dicembre 1988), in occasione del centottantesimo anniversario della sua morte; sono quindi seguite le numerose iniziative di “Archivio sardo”, la rivista diretta da Girolamo Sotgiu scomparso nel 1996, che ha promosso il convegno internazionale di studi Francia e Italia negli della Rivoluzione, svoltosi a Quartu Sant’Elena e a Cagliari nell’aprile del 1994 in occasione del bicentenario della cacciata dei piemontesi, con la partecipazione di studiosi italiani e francesi; si sono idealmente concluse con il convegno Patriottismo e costituzionalismo nella ‘sarda rivoluzione’. L’Alternos Giovanni Maria Angioy e i moti antifeudali (26-27 aprile 1996), organizzato dall’Università di Sassari, con il contributo del Comune di Sassari e della Regione Autonoma della Sardegna. Dei primi due convegni sono stati pubblicati due stimolanti volumi di atti (1).

I saggi e gli articoli sull’argomento apparsi dal 1988 ad oggi, tanto numerosi da rendere problematica una puntuale ricognizione bibliografica, presentano impostazioni metodologiche e tematiche diversificate. Molti hanno seguito la tradizionale e frequentatissima strada della storia politica e sociale; qualcuno ha egregiamente dissodato il terreno della storia delle istituzioni, pochi hanno timidamente aperto il varco della storia delle idee ed anche, sulla falsariga della storiografia “annalistica”, della “mentalità”; diversi hanno offerto importanti contributi sul versante della pubblicazione di fonti sinora ignorate o poco note (2). Si è trattato, in generale, di un importante e valido lavoro critico rivolto ad un periodo della nostra storia che ha costituito a lungo, e per certi versi costituisce ancora, un momento storico attraverso il quale si sono confrontate e spesso scontrate, sul terreno dell’interpretazione storiografica, concezioni politiche ed ideologiche diverse e talvolta contrapposte, dettate in modo troppo marcato dai bisogni e dalle contingenze del presente. Lo studioso che volesse cimentarsi nello studio della storia della storiografia angioiana non faticherebbe molto a rendersi conto che, nelle ricostruzioni delle vicende storiche della Sardegna di fine Settecento, passano gli orientamenti ideali e le battaglie politiche di momenti diversi della nostra storia contemporanea. Quelle vicende hanno rappresentato il terreno sul quale i “maestri” della storia  hanno veicolato “visioni del mondo” ora reazionarie ora moderate ora progressive. Inoltre, poiché la ricerca dei “valori” in ambito storico s’incarna sempre in questo o in quel personaggio, ne è scaturita, nell’arco di due secoli di storiografia, la mitizzazione, in senso ora positivo ora negativo, di Giovanni Maria Angioy, a torto considerato la sola figura emergente e significativa del periodo.

La storiografia più recente ha contribuito non poco a spostare l’attenzione dalla figura mitizzata dell’Angioy alle cause strutturali dei sommovimenti politico-sociali del periodo; alla formazione culturale degli uomini che hanno guidato quei moti che furono insieme antipiemontesi antifeudali e antiassolutisti; al profondo significato autonomistico che sottende la reviviscenza dell’attività degli Stamenti, i bracci dell’antico Parlamento cetuale non più convocato da un secolo; alla “mentalità” degli uomini di quel tempo e conseguentemente alla circolazione in Sardegna, reale per quanto limitata, delle “idee francesi” e più in generale di una visione del mondo in sintonia col secolo dei lumi e con i valori e  le conquiste dell’Ottantanove; al protagonismo politico della nascente borghesia, delle plebi cittadine e delle masse contadine. Ne è emerso un quadro, ancora in via di definizione e di completamento, molto vivace e dinamico, in cui ad una rappresentazione eroica del periodo è succeduta una rappresentazione articolata di tutte le componenti della società, con le loro passioni, i loro progetti, le loro contrapposizioni: in breve una storia non di eroi ma di uomini in carne ed ossa.

Tra i lavori più recenti, alcuni hanno aperto nuovi campi di ricerca: il volume di Italo Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le “leggi fondamentali” nel triennio rivoluzionario (1793-96) (1992); i quattro saggi scritti in collaborazione da Antonello Mattone e Piero Sanna, I Simon, una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione (1994), Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del “Diritto Patrio” del Regno di Sardegna (1802) (1994); La “rivoluzione delle idee”: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790) (1998), La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali (1999); recentemente i due storici sassaresi Mattone e Sanna hanno raccolto il meglio della loro produzione storiografica sulla seconda metà del Settecento nel volume Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nelle crisi dell’Antico Regime (Milano, Franco Angeli, 2007); i lavori di Federico Francioni, fra cui la raccolta di saggi Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento (1996); il volume 24° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae” L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione” (1793-1799), a cura di chi scrive, pubblicato nel 2000.

Al di là delle differenze di impostazione tematica e metodologica, è possibile individuare almeno tre grandi temi che accomunano gli autori di quella che potremmo chiamare la nuova storiografia sulla fine del Settecento sardo:

1) La Sardegna di fine Settecento non è avulsa sotto il profilo ideologico, politico ed economico, dalla temperie culturale dell’Europa del periodo, come pure numerosi autori nel passato e in tempi a noi più vicini hanno sostenuto.

2) La stagione della “Sarda Rivoluzione” di fine Settecento non si risolve nella rivendicazione di interessi particolari e neppure in scomposte sommosse di plebi cittadine affamate o in tumultuose jacqueries di contadini, ma è il risultato di una piattaforma politica, complessa per la diversità delle istanze che rappresenta, ma coerente nei suoi obiettivi di fondo; una piattaforma politica che fondandosi sul riconoscimento di una specificità politica e culturale della nazione sarda, rivendica una autonomia a tutto campo ed elabora un piano di riforma della società e dello Stato di carattere progressivo intonato alla mentalità dei tempi.

3) La piattaforma politico-ideologica del periodo, soffocata e ferocemente repressa dal governo sabaudo, è rimasta sommersa ma viva lungo tutto il cinquantennio della Restaurazione, per riaffiorare agli albori del Risorgimento e per informare di sé l’ideologia e l’azione politica della componente democratica dell’intellettualità sarda, che annovera tra i suoi componenti più rappresentativi Giorgio Asproni e Giovanni Battista Tuveri.

 

2. Gli anni della “Sarda Rivoluzione” 1793-1796 rappresentano ancora oggi un periodo di difficile interpretazione e ricostruzione storica, nonostante i grandi passi avanti fatti dalla ricerca storica nell’ultimo quindicennio, grazie soprattutto alle nuove cospicue acquisizioni documentarie relative all’attività degli Stamenti.

La difficoltà della ricostruzione storica dipende in primo luogo dagli avvenimenti stessi, per la loro complessità, una certa contraddittorietà di comportamento dei protagonisti, la passionalità viscerale con cui sono stati vissuti, l’incalzare degli eventi che imponeva un continuo adattamento di progetti politici e di coordinate ideologiche, le repentine e profonde fenditure che si verificarono nel breve periodo del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796) tra le forze sociali che ne furono protagoniste, diverse per interessi e per obiettivi politici, anche se durante e dopo la vittoriosa guerra contro l’invasione francese nel 1793 avevano trovato un comune terreno d’intesa nella nebulosa cornice dell’unità patriottica. Siamo in presenza delle dinamiche proprie di ogni rivoluzione; nel caso specifico, di quella che viene definita la “Sarda Rivoluzione”.

In secondo luogo la difficoltà della ricostruzione storica dipende dalle differenti e talvolta contrapposte valutazioni che di quell’importante periodo hanno dato gli storici, i quali lo hanno spesso rivestito di sembianze che non gli appartenevano, ora denigrando ora esaltando oltre misura l’evento e i suoi protagonisti. Da una parte Giuseppe Manno, massimo storico sardo dell’Ottocento e uomo di convinzioni politiche moderate, il capostipite dei denigratori della “Sarda Rivoluzione” ha offerto nella Storia moderna (3), un superbo e ancora oggi insuperato affresco in negativo delle vicende dell’ultimo decennio del Settecento sardo, ai cui protagonisti egli ascrive la responsabilità di essersi invischiati nelle maglie dei chimerici princìpi dell’Ottantanove; dall’altra parte, uomini di spiriti liberali, tra i quali spicca nella seconda metà dell’Ottocento l’illustre giurista e uomo politico sassarese Francesco Sulis, desiderosi di riscattare la rivoluzione sarda di fine Settecento dalla luce sinistra in cui l’aveva collocata la storiografia della Restaurazione, ne fecero l’improbabile incunabolo del triennio giacobino italiano (1796-1799), il luogo storico in cui attecchì il seme dei «grandi veri» della Rivoluzione francese (4).

Come avviene spesso per i momenti cruciali della storia dei popoli, anche la “Sarda Rivoluzione” di fine Settecento è divenuta oggetto preferito della ricerca storica e agone privilegiato di contrapposte scuole di pensiero politico. Il risultato di un approccio così marcatamente ideologico a questo argomento, il cui termine di paragone, in positivo o in negativo, è rappresentato dalla Rivoluzione francese, è stato quello, secondo la felice intuizione di Antonello Mattone e di Piero Sanna, di “offuscarne i tratti essenziali di rivoluzione ‘patriottica’ di Antico Regime” (5).

L’interpretazione che i due studiosi sassaresi hanno recentemente proposto della rivoluzione sarda di fine Settecento, convincente e solidamente argomentata, fa tesoro del ricco fervore di ricerche e di studi che all’argomento hanno dedicato nel secondo dopoguerra illustri storici, come Antonio Era, Franco Venturi, Carlino Sole, Lorenzo Del Piano, Tito Orrù, Girolamo Sotgiu e, in tempi a noi più vicini, Giuseppe Ricuperati, Italo Birocchi e Federico Francioni.

Alla luce di uno studio organico delle vicende della fine del Settecento, attento alla complessità e alla specificità dei fenomeni storici, Mattone e Sanna ritengono che

 

la Sarda Rivoluzione non è […] una sorta di anticipazione del triennio repubblicano italiano ma piuttosto l’ultima significativa rivoluzione patriottica del Settecento, ancora indissolubilmente legata alle dinamiche sociali, alla cultura e alla prassi istituzionale di antico regime (6).

 

Questa interpretazione, fondata su solide fonti documentarie e su un corretto inquadramento delle peculiarità proprie della società sarda di fine Settecento, non è condivisa da quegli studiosi i quali ritengono di individuare nella “Sarda Rivoluzione” lo snodo cruciale della storia contemporanea della Sardegna, che ne ricongiunge le aspirazioni e le idee con le aspirazioni e le idee della Rivoluzione francese. Tra questi studiosi, i contributi più significativi sono dovuti a Federico Francioni. Egli, attraverso una lettura ‘militante’ della rivoluzione sarda, che fa riferimento alla lezione di due maestri della storiografia contemporanea, Lucien Febvre e Marc Bloch, per cui “l’indagine sul passato serve a chiarire la situazione contemporanea” (7), si sforza di individuare e valorizzare all’interno della rivoluzione sarda, tutti quegli elementi dell’ambiente politico, economico e culturale della Sardegna che maggiormente si avvicinano alle esperienze più avanzate e progressive della Rivoluzione francese. Da questa lettura emerge una “Sarda Rivoluzione” fortemente venata di giacobinismo.

 

Col termine giacobino – scrive Francioni – non dobbiamo limitarci ad indicare, puristicamente ed astrattamente i seguaci di Robespierre e di Saint Just; più in generale possiamo fare riferimento anche a coloro che assunsero come modello da seguire la Francia repubblicana, lottando in modo intransigente contro l’Antico Regime. Non c’è dubbio che in Sardegna comparvero dei repubblicani filofrancesi, che combatterono il sistema feudale ed assolutistico con le armi in pugno; per questo si possono definire giacobini. […] Non dimentichiamo, come ha scritto Michel Novelle, che il giacobinismo è anche una mentalità: essa emerge senz’altro dalla continuità e dalla inflessibilità dell’azione, insomma dalla “militanza” propria, se non dell’Angioy, certo del notaio cagliaritano Francesco Cilocco e dell’avvocato sassarese Gioacchino Mundula” (8).

 

3. L’aspetto del triennio rivoluzionario sardo su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione degli studiosi e che ha prodotto la raccolta e la pubblicazione di una mole imponente di documenti, è stato quello relativo all’attività degli Stamenti. Nel 2000 ha infatti visto la luce, a cura dell’autore di queste note, il volume 24° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae”, opera in quattro tomi dedicata all’attività degli Stamenti negli anni 1793-1799 (9).

Le assemblee stamentarie di fine Settecento non hanno goduto nella storiografia di studi specifici e di adeguata valutazione. Giuseppe Manno, che pure ne loda la generosa tempestività nell’accorrere in difesa del suolo nazionale e ne riconosce il ruolo istituzionale, sempreché si eserciti entro il binario della consolidata pratica di governo di un illuminato assolutismo – “gli Stamenti non hanno autorità veruna: sono corpi abilitati a chiedere ed a rispondere al sovrano, tutt’al più a dargli consulta” (10), ne condanna aspramente l’operato quando, a partire dalla sollevazione antipiemontese del 28 aprile 1794, le assemblee stamentarie si rendono interpreti delle aspirazioni del popolo sardo e guidano di fatto il governo dell’isola con l’assecondare le spinte innovative, motivo per il quale esse si sarebbero poste in balia di quella che sprezzantemente egli stigmatizza come “tirannia plebea” (11).

Il Sulis, dal canto suo, in una lucida lezione tenuta nell’Ateneo sassarese nel 1854, attraverso un’improponibile ed anacronistica omologazione dell’antico Parlamento sardo con l’istituto parlamentare di uno stato costituzionale fondato sui princìpi del moderno liberalismo, contestava ad esso la legittimità di rappresentare la nazione sarda, attesa la sua composizione cetuale che escludeva «il principio della elezione dei suoi membri da un corpo politico elettorale» (12); nel saggio Dei moti politici dell’isola di Sardegna, inoltre, Sulis giudicava quell’istituto della costituzione sarda di Antico Regime incapace di interpretare e portare a compimento le trasformazioni politiche che la società sarda di fine Settecento reclamava, e ne denunciava “l’impotenza a grandi concetti politici” (13).

Tra i contemporanei, Carlino Sole, che ha considerevolmente contribuito ad illustrare con fondamentali lavori la storia della Sardegna nel secolo XVIII, ha costantemente ribadito “la regola di una Sardegna pressoché chiusa ad ogni fermento di rivoluzione politica” (14). In merito all’attività delle assemblee stamentarie e alla nota piattaforma politica delle “cinque domande”, che prevedeva in primo luogo il ripristino della convocazione decennale del Parlamento, asserisce:

 

La classe dirigente sarda non si rendeva conto che, chiedendo la conferma degli antichi privilegi e il ripristino integrale del Parlamento spagnolo, senza alcun adeguamento della rappresentanza da questo espressa allo spirito dei nuovi tempi, si faceva un gran passo indietro, si ignoravano le attese innovatrici alimentate da trent’anni di riformismo illuminato e si condannava ad una fatale involuzione la spinta rivoluzionaria che la nuova posizione di guida assunta dagli Stamenti in un momento difficile sembrava voler imprimere alle forze reali (15).

Nonostante la perentorietà di queste affermazioni, relativamente al problema storiografico della reviviscenza stamentaria di fine Settecento, Carlino Sole ha tuttavia, molto saggiamente, fatto professione di sano scetticismo, ha assunto un corretto atteggiamento di epoché storica, sostenendo la necessità di procedere a ulteriori acquisizioni documentarie tali da consentire un giudizio più approfondito. Egli stesso ha pubblicato i processi verbali dello Stamento militare dal 4 al 21 gennaio 1793, che asserisce di aver desunto da un prezioso manoscritto, da lui integralmente trascritto nei primi anni Cinquanta, che gli era stato consegnato dall’illustre giurista Antonio Era e che apparteneva in origine alla collezione algherese Simon-Lavagna. Riprendendo nelle brevi note introduttive a questa edizione di fonti il discorso relativo alla disparità di giudizi della storiografia passata e recente sull’attività degli Stamenti di fine Settecento, Sole osservava che se è corretto ricondurre tale disparità alla «differente connotazione culturale e ideologica dei singoli studiosi», non è meno corretto asserire che quella disparità è da riferire anche  «alla scarsezza di fonti edite e alla dispersività e frammentarietà (e, quindi, alle obiettive difficoltà di consultazione diretta) delle molte e inedite altre fonti». In sostanza egli osservava molto a proposito che quanti a vario titolo si sono occupati dei moti rivoluzionari in ordine all’attività parlamentare, si sono rifatti alla “diffusa ma non obiettiva narrazione del Manno» o ad una «tardiva e riassuntiva compilazione di Vittorio Angius” (16). Auspicava pertanto che gli studiosi, accantonando la sterile consuetudine di “rifarsi a citazioni di seconda e terza mano” (17), si dedicassero con rinnovata lena a ricercare i testi autentici dei processi verbali delle sessioni stamentarie tenutesi dal 1793 al 1799, passo obbligato per una più onesta e più compiuta valutazione storica del periodo in generale e delle assemblee stamentarie in particolare. Pago di aver aperto la strada, egli si rammaricava solamente “di non poter riprodurre per intero la serie dei verbali di tutti e tre gli Stamenti, che pure da qualche parte dovevano esistere” (18).

L’onere di progettare la ricerca e di avviare la raccolta sistematica degli atti stamentari fu affidata, nell’ambito della collana Acta Curiarum, a Girolamo Sotgiu ed egli l’ha in gran parte realizzata con la collaborazione di chi scrive e di Aldo Accardo (19). Sin dagli anni Settanta l’illustre storico, scomparso nel marzo 1996, aveva dedicato un’attenzione particolare alle vicende della Sardegna di fine Settecento, segnalando l’importanza di quel momento cruciale della nostra storia, in cui egli individuava i germi della contemporaneità, impostandone lo studio secondo categorie interpretative nuove e originali, rivalutando l’importanza delle assemblee stamentarie nel complesso periodo del triennio rivoluzionario sardo, sebbene fondasse la sua ricostruzione su una documentazione archivistica già nota, sull’opera del Manno e sulla ormai vastissima storiografia. Egli richiamava anzitutto l’attenzione su un grave limite della storiografia sarda, che, sul presupposto di una malintesa e non meglio definita ‘specificità’ dell’isola, dimenticava che la storia della Sardegna della fine del Settecento, come di qualunque altro periodo, non può essere compresa se non viene inquadrata nel più vasto panorama della storia italiana ed europea (20).

Si sforzava inoltre di individuare le cause strutturali dell’arretratezza della Sardegna, l’incidenza e i limiti del riformismo sabaudo, le motivazioni economiche, politiche e culturali che stavano alla base del rivendicazionismo autonomistico di fine Settecento, le forze sociali che se ne fecero interpreti. Secondo Sotgiu il riformismo sabaudo della seconda metà del secolo XVIII ebbe sulla società isolana un impatto decisamente positivo, che si tradusse in una complessiva per quanto limitata crescita economica e demografica e in un sensibile elevamento del grado di cultura specie tra le classi abbienti; avviò l’ammodernamento della struttura produttiva e la razionalizzazione dell’apparato amministrativo; favorì la crescita di una moderna per quanto poco intraprendente borghesia cittadina e terriera. Tale politica di riforme, funzionale ad un “assolutismo cieco e retrivo” e a un regime coloniale di governo che comportò una “alterazione arbitraria delle istituzioni esistenti” (21), non poté agire in profondità nella società isolana e nelle sue strutture produttive, che mantenne inviluppate nell’anacronistico sistema feudale; soprattutto non fu capace, dopo averne creato le premesse, di corrispondere alle aspettative della nuova intellettualità locale che, resa più cosciente della propria identità e dei propri diritti, aspirava legittimamente ad un coinvolgimento diretto nel governo dello Stato. Tale riformismo si risolse, dunque, secondo la definizione di Sotgiu, in una “razionalizzazione senza riforme” (22).

L’interpretazione del riformismo sabaudo proposta da Sotgiu, che ha come punto di riferimento la Rivoluzione francese ed è connaturata ad una concezione fortemente contestativa del rapporto tra centro e periferia nell’ambito dello Stato moderno, risulta oggi, alla luce dei più recenti studi che egli ha contribuito a rinnovare, alquanto riduttiva per mettere a fuoco il complesso rapporto tra Piemonte e Sardegna nella seconda metà del Settecento. Quella interpretazione presenta il limite di connotare come “coloniale” la politica di riforme dei monarchi illuminati negli Stati italiani del secolo XVIII, solo perché promossa dal potere centrale.

Già nella metà degli anni Ottanta Giuseppe Ricuperati, rivalutando una caratteristica della concezione politica e storiografica del Manno e facendo tesoro dei magistrali studi di Franco Venturi sul Settecento riformatore (23), osservava che un corretto approccio storiografico al riformismo settecentesco non poteva avere come unico punto di riferimento i valori e le conquiste politiche della Rivoluzione francese, alla luce dei quali il riformismo illuminato non poteva che apparire un progetto politico inadeguato e perdente. Il riformismo settecentesco, in particolare quello sabaudo, doveva al contrario essere considerato «dall’interno» della concreta realtà della Sardegna, periferia in situazione di grande arretratezza, per valutarne i risultati non tanto alla luce delle successive conquiste rivoluzionarie, quanto degli altri modelli di riforma attuati negli Stati italiani, ad esempio quello asburgico e quello borbonico. Con riferimento all’interpretazione di Sotgiu, ma anche di Bulferetti, Sole e Scaraffia, autori che partendo da ottiche diverse erano approdati a identiche conclusioni (24), Ricuperati scriveva:

 

Mi sembra di poter cogliere un residuo di moralismo, spesso in realtà superato dalle cesure interne, per il quale si tende a giudicare una realtà complessa e difficile, come quella che lo Stato sabaudo si trovò ad affrontare in Sardegna, sulla base del senno di poi, che in questo caso è l’eversione feudale, la quale venne teorizzata, è vero, negli ultimi decenni dell’antico regime (e perfino cautamente sperimentata, precocemente e in forme controllate, in Sardegna), ma che, avendo aperto contraddizioni incontenibili nel modello riformistico giuseppino e asburgico, era destinata a diventare una scelta concreta solo con la rivoluzione francese. E’ in questa direzione che intendo riaprire la discussione. Credo che una valutazione più articolata del rapporto tra Piemonte e Sardegna nel Settecento debba partire dai seguenti presupposti: per prima cosa considerare il progetto politico non con le lenti di un futuro inevitabilmente lontano e imprevedibile, ma in confronto col suo presente, cioè con gli altri modelli riformistici in corso, quello borbonico e quello asburgico. Per seconda cosa, tener conto della concreta realizzabilità del progetto, senza sovrapporvi immaginazioni che nascano dal nostro senno di poi. Per ultima, misurare solo a questo punto in termini di lungo periodo i problemi ai quali non si diede risposta, tenendo presente che spesso anche ciò che immediatamente non si realizzava con una carica trasformatrice rilevante, conteneva premesse di modificazioni future. Cerchiamo di esemplificare per chiarezza: il termine di confronto non può essere la rivoluzione francese e le sue scelte più radicali, ma ciò che capita negli spazi italiani e in Europa negli stessi decenni. In questo senso i modelli politici che si delineano a partire dal primo Settecento sono: la strategia delle riforme di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, il riformismo austriaco e le sue fasi, fino a Maria Teresa, quello borbonico di Carlo III, Tanucci e Du Tillot (25).

 

Sulla base di questa ipotesi storiografica, le cui premesse erano presenti in due lavori di Venturi sulla Sardegna apparsi tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, nel fondamentale saggio di Luigi Berlinguer su Domenico Alberto Azuni apparso nel 1966 e nei più recenti lavori di Emanuela Verzella sull’Università di Sassari (26), Mattone e Sanna hanno offerto in un importante saggio pubblicato sulla «Rivista Storica Italiana» (ora ricompreso nel succitato volume), un’interpretazione nuova e avvincente del riformismo sabaudo nella Sardegna del Settecento, valutandone gli esiti nell’ottica della “lunga durata”. Concentrando l’attenzione su quella che può considerarsi la vera grande riforma tra quelle volute dal ministro Lorenzo Bogino, ossia la riforma dell’istruzione primaria nel 1760 e delle due Università di Cagliari e di Sassari nel 1764-1765, i due studiosi hanno analiticamente ricostruito il percorso attraverso il quale la società sarda nella seconda metà del Settecento, disancorandosi dalle secche della ormai asfittica cultura iberica, si rinnova profondamente immettendosi nel circuito vitale della cultura italiana ed europea. Ciò grazie alla lenta ma progressiva introduzione della lingua italiana nelle scuole primarie e soprattutto alla folta schiera di docenti universitari «forestieri» che il Bogino aveva mandato in Sardegna dalla Dominante, che lungo un trentennio furono i promotori del rinnovamento della cultura. Alla loro scuola si formò una nuova classe di intellettuali, che in quella nuova temperie culturale maturò la coscienza di un nuovo “patriottismo”, terreno di coltura del risveglio della coscienza autonomistica nel triennio rivoluzionario. Secondo i due studiosi sassaresi, nel trentennio che precedette la “Sarda Rivoluzione” del 1793-1796, la società isolana è stata lentamente e irreversibilmente pervasa da una rivoluzione meno appariscente, ma non per questo meno importante, di quella di fine secolo: la “rivoluzione delle idee”, che rappresenta il vero incunabolo della rivoluzione politica degli anni Novanta.

 

In realtà nella Sardegna degli anni Ottanta si assiste alla progressiva diffusione di un sentimento “patriottico” che affondava le sue radici nel crescente malessere dei gruppi dirigenti locali e traeva alimento dalla penetrazione della cultura europea e dalla più ampia circolazione delle idee innescata dal rinnovamento degli studi. Mentre la politica sabauda verso la Sardegna ripiegava su schemi di ordinaria amministrazione e lasciava che il ministero e il governo viceregio apparissero via via sempre più chiusi e autocratici, confusamente le nuove generazioni di letterati licenziati dagli atenei riformati, educate ai valori della “pubblica felicità” ed animate da un rinnovato spirito di servizio per la monarchia, ricercavano nel confronto con le grandi correnti ideali dell’Europa settecentesca una propria identità culturale e civile. Così, attraverso i modelli culturali dell’Arcadia veniva riscoperta la “musa” locale; nello spirito muratoriano venivano rivisitate le vicende storiche della Sardegna; alla luce delle opere del giusnaturalismo, del contrattualismo e dell’illuminismo italiano e francese (Muratori, Montesquieu, Filangieri etc.) venivano studiate le leggi fondamentali e i privilegi del Regno; nel confronto con l’italiano e con il purismo della Crusca veniva rivalutato e ripulito l’idioma nazionale; facendo tesoro delle acquisizioni scientifiche del secolo s’iniziavano a studiare le risorse e la storia naturale dell’isola.

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta una vera impennata di “patriottismo” infiammò i letterati locali di fronte ai superficiali giudizi negativi espressi sulla Sardegna da alcuni osservatori forestieri, che spesso non avevano visitato l’isola (27).

 

Il riformismo sabaudo del secondo Settecento costituì, dunque, l’antecedente dei moti rivoluzionari degli anni Novanta. Delle istanze più significative di cui tali moti furono portatori, in particolare la forte coscienza dell’identità nazionale, la rivendicazione dell’autonomia politica del Regno sardo e della pari dignità nell’ambito degli Stati della monarchia sabauda, l’affermazione della capacità di autogoverno da parte della classe dirigente isolana, si fecero legittime interpreti le assemblee stamentarie, prima con la piattaforma politica unitaria delle “cinque domande” e successivamente con la partecipazione di fatto, negli anni 1794-1796, all’attività di governo, quando gli Stamenti e il popolo cagliaritano imposero una sorta di dittatura parlamentare e diedero ai loro atti “un tono che potremmo quasi definire, con le cautele necessarie, di assemblea costituente” (28).

Su questa linea interpretativa si era già inserito il fondamentale saggio di Italo Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno (1992), profonda analisi delle istituzioni del Regno di Sardegna di Antico Regime, prevalentemente impegnata sul versante storico-giuridico, che si avvale anche di nuove fonti documentarie. Secondo l’analisi di Birocchi, il significato complessivo dell’operato delle assemblee stamentarie durante il “triennio rivoluzionario” e la piattaforma politica delle «cinque domande» in particolare, risiede nella rivendicazione forte e decisa della nazione sarda intesa come “soggetto politico, cosciente dei propri diritti” (29); consiste nel ribadire che sotto il profilo giuridico la forma di governo della Sardegna è una monarchia mista, in cui il Regnum si trova in posizione autonoma rispetto al sovrano. Conseguentemente, sotto il profilo politico, la sfera di esercizio della sovranità si configura come una diarchia che comporta una compartecipazione nell’esercizio del potere. Il richiamo al rispetto delle “leggi fondamentali” e dei “privilegi” e la richiesta degli impieghi ai soli sardi non significano, come pure è stato scritto, indulgere a “rivendicazioni particolaristiche e classiste” (30); il nocciolo della piattaforma delle “cinque domande” consiste nella «richiesta di osservare le ‘leggi fondamentali’ del Regno, perché questo significa precisare la sfera di esercizio della sovranità sabauda ed affermare un potere concorrente e originario del Regnum» (31). Richiamare il rispetto dei ‘privilegi’ – che nel linguaggio giuridico e nelle istituzioni di Antico Regime s’identificano con le “guarentigie” o le “libertà” sempre rivendicate dai corpi intermedi contro i governi assoluti – significava “rivendicare un sistema normativo in cui la funzione primaria non era svolta dalla volontà del principe che si fa legge, bensì dal concorrere di più poli protagonisti del processo normativo, concepiti come soggetti di un ordinamento policentrico” (32).

È proprio sulla rivendicazione dell’autonomia del Regno, sul rispetto della «carta autonomistica» secondo l’espressione di Birocchi, che s’impernia l’azione del «partito patriottico». La piattaforma politica autonomistica, scrivono Mattone e Sanna, “costituì l’asse portante del movimento ‘patriottico’ per l’intero triennio rivoluzionario sardo»; e la vicenda del partito patriottico «ricalca la parabola complessiva della rivoluzione sarda” (33): di essa le assemblee stamentarie furono l’interprete e il motore. Attraverso il vetusto strumento istituzionale dell’ordinamento parlamentare una nuova classe dirigente sarda, costituita in prevalenza dai ceti emergenti della borghesia delle professioni e dalla piccola nobiltà cittadina e rurale, i cui organi di rappresentanza erano costituiti dagli Stamenti militare e reale, si affermarono le istanze politiche nuove del “triennio rivoluzionario sardo”. Come si dirà meglio oltre, soprattutto all’interno dello Stamento militare è possibile individuare in maggior numero gli homines novi della classe dirigente sarda, rappresentata da un numero cospicuo di esponenti della piccola nobiltà e del cavalierato rurali che a quello Stamento facevano capo e che si presenta, nonostante la rilevante presenza di rappresentanti della nobiltà feudale, come il braccio stamentario più fortemente ‘borghesizzato’. Ciò era, del resto, consono alla mentalità del tempo: l’acquisto di un titolo di nobiltà minore costituiva allora un passaggio quasi obbligato per l’ascesa nella piramide sociale. Non deve dunque apparire strano, ci sia consentita la metafora, che il vino nuovo sia stato versato in botti vecchie. Anche la Grande Rivoluzione ha avuto il suo preambolo negli Stati Generali, ha preso l’avvio nel Parlamento di Antico Regime. Ricade fuori da ogni corretta metodologia storica presupporre aprioristicamente «l’impotenza» di un antico ordinamento a fungere da motore di un processo innovativo, soprattutto quando i fatti ne testimoniano la vitalità.

Analoghe considerazioni svolgeva Antonio Era, uno tra i più acuti studiosi delle nostre antiche istituzioni, nel discorso pronunziato il 1° dicembre 1946 per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Sassari (34). Contestando l’errore di prospettiva che stava alla base del giudizio che Francesco Sulis aveva dato della reviviscenza dell’istituto parlamentare di fine Settecento, errore già rilevato negli studi di Giovanni Zirolia e di Antonio Marongiu (35), Era riconosce in primo luogo che il Parlamento di Antico Regime, nei paesi in cui durante l’Età Moderna fu vigente, fu “forse il più efficace dei vari correttivi dell’assolutismo […] uno degli argini, protettivi per quanto era allora possibile perché i soli concepibili, che si ammettevano idonei ad impedire la degenerazione dell’assolutismo in dispotismo” (36). Quanto all’azione politica delle assemblee stamentarie sarde di fine Settecento, egli afferma, sviluppando un’intuizione di Francesco Loddo Canepa, che l’opera loro, pur in assenza di una riforma di struttura e di attribuzioni, soprattutto a partire dall’aprile 1794 e fino agli inizi del 1796, “in riguardo alla loro composizione, alla loro funzione, ai loro diritti fu fondamentalmente innovatrice della vecchia costituzione dello Stato, fu, in confronto ad essa, apertamente rivoluzionaria” (37). L’esame della copiosa documentazione – che egli ben conosceva per averla a disposizione, compresi i processi verbali dello Stamento reale dal 29 aprile al 7 luglio 1793, che chi scrive non è purtroppo riuscito sinora a rintracciare – lo induceva a ritenere che la reviviscenza stamentaria di fine Settecento, qualificata dal Loddo Canepa «rivoluzione stamentaria», rappresentò un vero e proprio sovvertimento istituzionale.

Si deve riconoscere – egli scrive – che gli Stamenti attuarono una vera e propria usurpazione di funzioni e di poteri. Essi, che abbiamo riconosciuto [nel 1793] ossequienti fino alla meticolosità al formalismo prescritto per le loro adunate, se ne svincolano [nel 1794-96] e procedono per vie sempre nuove, ma, allo stato di una intelaiatura costituzionale non mai abrogata, prettamente illegali e arbitrarie – ho detto: rivoluzionarie (38).

 

 

4. Sono questi gli esiti più significativi della ricerca storica sulla “Sarda Rivoluzione” di fine Settecento in Sardegna: una ricerca che è stata di stimolo anche alla pubblicazione di importanti contributi biografici su gran parte dei protagonisti ma anche di figure minori di quella vicenda, come testimonia il volume di Vittoria Del Piano su Giacobini moderati e reazionari in Sardegna (39); a minuziose ricerche di storia locale, tra cui si distingue il pregevole contributo di Giovanni Cucca sul Settecento macomerese (40); a ricostruzioni in chiave di drammatizzazione storica delle vicende nel triennio; infine alla edizione critica dell’inno Procurade ’e moderare barones sa tiranìa (41).

Minore attenzione è stata rivolta allo scavo documentario e alla ricostruzione storica degli esiti della “Sarda Rivoluzione”, alla vicenda biografica e all’attività di Giovanni Maria Angioy negli anni dell’esilio francese e più in generale degli angioiani, alle vicende del Sulis, alle congiure di fine Settecento e a quella di Palabanda del 1812, sebbene anche in tutti questi ambiti siano apparsi, insieme a ricostruzioni generali, i pregevoli lavori monografici e letterari di Federico Francioni, di Antonello Mattone e Piero Sanna, di Giuseppe Marci e Leopoldo Ortu, di Maria Pes (42).

Sull’importante tentativo di sollevazione della Gallura nel 1802 ad opera dei due fuorusciti giacobini sardi Francesco Sanna Corda e Francesco Colloco, si inserisce ora questo volume che, pur proponendo contributi pensati e redatti da circa un decennio, qualcuno dei quali già pubblicato, offre una lettura esauriente dell’episodio e delinea aspetti nuovi relativamente al perdurare dell’ideologia rivoluzionaria e della volontà di lotta dei patrioti seguaci dell’Angioy negli anni che seguirono alla feroce repressione. Soprattutto, questo volume offre un ulteriore contributo ai non numerosi altri apparsi sinora, intorno all’importante problema storiografico dell’eredità delle idee della “Sarda Rivoluzione”di fine Settecento, del loro permanere nella cultura sarda, sebbene durante il periodo della Restaurazione gli intellettuali che furono gli artefici della cosiddetta “rinascenza sarda” abbiano fatto di tutto, in sintonia con la politica restauratrice del governo sabaudo, per cancellare o limitare la portata e l’incidenza di quella ventata di idee nuove, di volontà riformatrice, di aspirazioni al progresso politico e civile dell’isola che caratterizzarono il patriottismo sardo di fine Settecento. Non è credibile che il patrimonio di idee della “Sarda Rivoluzione” si sia dissolto nel nulla, come ha voluto sostenere e accreditare la storiografia della Restaurazione, il Manno, il Tola, il Martini, l’Angius e il Siotto Pintor in modo particolare.

Una delle ipotesi storiografiche con cui la ricerca storica è chiamata a cimentarsi, dopo l’importante stagione di studi dell’ultimo quindicennio sul “triennio rivoluzionario sardo”, è l’individuazione dei motivi per i quali l’ideologia politica del partito riformatore di fine Settecento, costretta dalla durezza della repressione seguita all’esilio dell’Angioy a vivere nelle condizioni di una tradizione sommersa, abbia potuto conservare una continuità prevalentemente nella tradizione orale e abbia potuto quindi riaffiorare, arricchita e corroborata dal progresso delle concezioni antiassolutiste e liberali della prima metà dell’Ottocento europeo, tra gli uomini più rappresentativi del nostro Risorgimento, in particolare in Giovanni Battista Tuveri e in Giorgio Asproni.

Che l’ideologia riformista legata ai moti di fine Settecento in Sardegna abbia continuato a lungo a ispirare in modo palese l’azione e le aspirazioni dei patrioti sardi, stanno a dimostrarlo il tentativo di sollevazione della Gallura nel 1802, cui è dedicato questo volume, e la cosiddetta “congiura borghese” di Palabanda del 1812. Una ricerca documentaria più approfondita potrà sicuramente apportare elementi nuovi in questa direzione.

Ma è ugualmente un dato storico acquisito che l’ideologia riformista legata ai moti di fine Settecento in Sardegna ha vissuto una tradizione sommersa. Ne costituiscono una testimonianza il modo in cui conservatori di provata fede come Giovanni Siotto Pintor, Vittorio Angius, Giuseppe Martini e Pasquale Tola hanno commentato e recensito la Storia moderna di Giuseppe Manno, apparsa nel 1842, salutata unanimemente come l’opera che faceva giustizia del mito di Giovanni Maria Angioy e dei suoi seguaci, offrendo una ricostruzione storica ritenuta da essi oggettiva ed imparziale, che consentiva finalmente di dare, come si esprime Pasquale Tola, la rimbeccata ai discendenti diretti o trasversali dell’antico maiolismo cagliaritano del 1793-94-95, e ai loro settatori, e agli uomini grossi che bevono da essi, e dalle false tradizioni che udirono ripetere come evangelio, quando voleano pur sostenere, che non fosse assassinio ciò che fu assassinio veramente, e che non fossero conventicole, e tumulti, e scempiaggini le pubbliche Corti di quel tempo venute in mani di mascalzoni, e prima, e dopo l’uccisione del Planargia e del Pitzolo (43).

 

L’esistenza di una tradizione sommersa delle vicende di fine Settecento in Sardegna, di cui si è occupato in particolare Lorenzo Del Piano,  è d’altra parte eloquentemente testimoniata dal fatto che il canto di quella rivoluzione, l’inno Procurade ‘e moderare, come ha scritto Raffa Garzia nel suo ancor oggi fondamentale studio sull’inno antifeudale di Francesco Ignazio Mannu apparso nel 1899, venne ristampato per la prima volta, dopo l’edizione corsa stampata alla macchia nel 1796, dallo scrittore inglese John Warre Tyndale nell’opera The island of Sardinia apparsa nel 1849, desumendone il testo dalla tradizione orale e manoscritta (44).

Chi scrive, in un contributo sul tema, attraverso l’utilizzazione della tecnica storiografica del paradigma indiziario, ha potuto ipotizzare con qualche fondamento che Giovanni Battista Tuveri, il cui nonno materno Domenico Vincenzo Licheri era stato un fervente seguace dell’Angioy, abbia attinto a questa tradizione molto di più di quanto sinora gli storici abbiano voluto ammettere e che il suo pensiero, di importanza fondamentale nell’ambito della cosiddetta “questione sarda”, sia debitore, e non poco, verso quella tradizione.

Giovanni Battista Tuveri, com’è noto, è uno tra gli intellettuali democratici sardi più significativi dell’Ottocento; a lui si deve, tra l’altro, l’invenzione dell’espressione “questione sarda”, con cui egli indicava quel complesso di storture e di problemi che la Sardegna ha dovuto vivere a partire dal 1847-48 a seguito del processo di fusione col Piemonte e di unificazione nazionale. Per la sua battaglia contro le storture del centralismo statale egli viene a giusto titolo considerato come uno dei padri fondatori del moderno autonomismo e del federalismo. A fondamento del suo pensiero democratico Tuveri pone una tenace e convinta concezione antimonarchica e antiassolutistica (45). Per questa caratteristica il grande filosofo del diritto Gioele Solari lo definì, in un fondamentale saggio apparso nel 1915, “un monarcomaco sardo del secolo XIX” (46). I presupposti teoretici del pensiero democratico del Tuveri affondano le radici, secondo Solari, non nelle recenti acquisizioni del pensiero politico europeo, ma nelle teorizzazioni di quella corrente di filosofi politici della tradizione cattolica del secolo XVI che durante le guerre di religione in Francia aveva asserito la legittimità del tirannicidio. Per supportare questa sua tesi interpretativa Solari richiamava la particolare situazione della Sardegna: una regione ancora feudale in pieno Ottocento e perciò stesso completamente avulsa dalle più moderne correnti di pensiero. Per questo incolmabile ritardo nella trasformazione delle sue strutture sociali ed economiche, la cultura dei sardi non potè essere vivificata, secondo Solari, dal benefico vento della riforma protestante e dai salutari principi della Rivoluzione francese; ancora nel secolo XIX quella cultura si attardava sulle teorizzazioni proprie della vieta filosofia scolastica. Su questo terreno era germinata l’opera teorica principale del Tuveri, pubblicata nel 1851, ma già conclusa nel 1848-49, Del dritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi. Trattato teologico-filosofico (47).

La rivisitazione del pensiero e dell’opera di Giovanni Battista Tuveri (Forru, oggi Collinas, 1815 – 1887), effettuata in quest’ultimo decennio, ha contribuito quantomeno a stemperare l’ipotesi interpretativa del Solari e a individuare tra le fonti di ispirazione del pensiero di Tuveri la filosofia politica del Settecento e dell’Ottocento, sebbene l’impianto teorico risenta in modo determinante della filosofia politica della seconda scolastica, in particolare dei gesuiti spagnoli Suarez e Molina vissuti tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Seicento (48).

Relativamente al problema della sopravvivenza dell’ideologia del moto angioano, un documento d’archivio recante Capi d’accusa contro l’angioiano Domenico Vincenzo Licheri, risalente all’estate 1800 e probabilmente inserito in un fascicolo processuale non ancora rinvenuto, consente di ipotizzare, attraverso la figura del nonno materno, un ragionevole nesso tra il pensiero del Tuveri e le aspirazioni ed i progetti che animarono i patrioti sardi di fine Settecento (49).

Il nonno materno del Tuveri, già ufficiale di giustizia del Campidano maggiore, consegnò Oristano e la Torre Grande all’Angioy, quando questi con i suoi seguaci occupò la città arborense l’8 giugno 1796, e fece in modo che i villaggi posti sotto la sua giurisdizione si recassero a giurare davanti all’Alternos l’atto di unione e di concordia, ossia quell’atto notarile già firmato nei mesi precedenti da gran parte dei villaggi del Logudoro, con il quale si dichiarava abolita la giurisdizione feudale mediante riscatto.

La madre Maria Angela Licheri, figlia di Domenico Vincenzo, aveva sposato nel 1814 l’avvocato di Forru Salvatore Tuveri, “giovine studiosissimo e onestissimo” che morì nel gennaio 1816, a soli cinque mesi dalla nascita del figlio Giambattista, avvenuta il 4 agosto 1815. Rientrata ad Oristano col fanciullo, la madre del Tuveri sposò in seconde nozze Giambattista Sequi e ne ebbe quattro figli, di cui sopravvisse solo il terzogenito Francesco, autore di un interessante Diario inedito citato dal Solari. Per inciso è opportuno ricordare che il fratellastro di Tuveri, Francesco Sequi, venne imprigionato ed espulso dal corpo militarizzato dei Cacciatori guardie, di cui era ufficiale, per aver pronunciato parole irriverenti contro Carlo Alberto e contro l’esercito piemontese. La fede antimonarchica era dunque una malattia di famiglia! (50). Nella casa del nonno in Oristano G. B. Tuveri trascorse l’infanzia ed in questa città frequentò presso i padri scolopi le scuole elementari. Di questo periodo della fanciullezza il Tuveri offre diverse testimonianze nei suoi scritti. Scrive Tuveri nell’autobiografia:

 

Mia madre, divenuta vedova dopo circa un anno e mezzo di matrimonio, si ricondusse con l’unico suo figlio alla casa del padre, che era quel Domenico Vincenzo Licheri d’Oristano menzionato dal Manno nella Storia moderna della Sardegna. Severo in famiglia non meno che nel tribunale, l’educazione che ebbi durante i primi 12 anni della mia vita ingenerò forse in me quella diffidenza di me stesso nel parlare in convegni alquanto numerosi (51).

 

A Tuveri fanciullo, durante le discussioni con persone di cultura che si svolgevano nella casa del nonno ad Oristano, e che egli ascoltava avidamente, non era consentito profferir parola. Non è improbabile che la circospezione e la rigidità del nonno derivasse più che dall’eccessiva severità, dall’oggetto di quelle discussioni probabilmente vertenti sull’argomento proibito del movimento antifeudale e del partito patriottico. Nel 1827 il giovinetto fu mandato a Cagliari per continuare gli studi presso il Seminario Tridentino, dove conseguì il diploma di Magistero nel 1833. Durante l’anno 1832 aveva perduto la madre cui era attaccatissimo e nell’autunno 1833, per le vive istanze dei parenti, si iscrisse alla Facoltà di leggi a Cagliari. Dopo aver conseguito il solo titolo di baccelliere nel 1836, per connaturata avversione – come egli scrive -  alla professione di avvocato, non volle portare a termine gli studi universitari e a partire dal 1837 si ritirò a Forru, dove si dedicò agli studi ed all’amministrazione dei pochi beni dell’eredità paterna. A partire dal 1833, anno dell’iscrizione all’Università, Tuveri iniziò la composizione dell’operetta giovanile Il veggente, che terminò attorno al 1839 e che non diede mai alle stampe; l’inedito è ora pubblicato nel primo volume dell’opera omnia di Tuveri (52).

Il veggente, operetta redatta in stile biblico ad imitazione delle celebri Paroles d’un croyant di Robert de Lamennais, altro non è che l’antecedente giovanile dell’opera maggiore del ‘monarcomaco’ Tuveri: impostata come un sorta di romanzo autobiografico, quando il Tuveri fu sul punto di pubblicarla nel 1846 – ne fu vivamente sconsigliato da Salvator Angelo De Castro – intendeva presentarlo come un pendant divulgativo delle tesi antimonarchiche e democratiche esposte nel linguaggio erudito del Trattato. Esso avrebbe voluto essere un pamphlet popolare, redatto in stile biblico e perciò stesso particolarmente adatto alla mentalità, alla sensibilità e alla cultura elementare della popolazione, quasi esclusivamente basata su concetti di contenuto religioso espressi in un linguaggio aderente a quel tipo di cultura. In effetti Il veggente altro non è, nella prima parte, che potremmo definire pars destruens, un violento e sarcastico libello contro l’istituto monarchico e contro la società delle caste caratteristica dell’ancien régime, mentre la seconda parte, la pars aedificans per restare nell’immagine, contiene una teoria della democrazia che risente in modo evidente di letture e concetti rousseauiani (53).

Un rapido raffronto delle idee antimonarchiche espresse dal Tuveri nel Veggente con quelle che i citati Capi d’accusa attribuiscono al nonno Domenico Vincenzo Licheri,  ne mette in luce la consonanza, e insinua il sospetto che nel pensiero del primo siano trasmigrati e per così dire tesaurizzati i propositi, le passioni dell’altro, come se il giovane Tuveri avesse proceduto a evocare, dando loro veste letteraria, principi semplici e radicati, di intonazione democratica e di forte coloritura antimonarchica, patrimonio della tradizione familiare, riscontrabili nel documento in esame. Nel Veggente si ritrova espressa in termini simili la rappresentazione dei principi gaudenti, inetti e vendicativi che vivono alle spalle dei sudditi; viene rimarcata  l’immagine del sovrano che rende il popolo schiavo, ora esoso e vessatore, ora “spilorcio e miserabile”, secondo le parole dei Capi d’accusa, sarcasticamente paragonato ad uno “di quei dipinti nelle carte da giuoco”, che  “vuol mantenersi a spese del sangue, e sudore dei poveri vassalli”, ora sacrilego in quanto dedito a spogliare “le chiese di tutta l’argenteria”, ora vile in quanto solo preoccupato di fuggire il pericolo, sempre descritto come persona di basso profilo morale, “pidocchioso, poco di buono e miserabile”. E si ritrova anche l’aspirazione, contenuta nei Capi d’accusa, ad una società giusta, capace di liberare gli uomini dalla “schiavitù, e oppressione”, l’invito rivolto ai popoli a ribellarsi contro i sovrani che sono per la loro stessa natura dei tiranni, l’edificazione di una società nuova basata sulle “massime repubblicane”. Questi concetti si ritrovano espressi nel linguaggio popolare e sentenzioso del Veggente, con le metafore semplici del linguaggio biblico. L’idea della libertà, ad esempio, è simboleggiata con la metafora dell’Angelo vendicatore che lungo il volgere dei secoli abbatte i tiranni di ogni specie: è l’Angelo vendicatore che ha ispirato gli Svizzeri nella lotta per la libertà contro gli Asburgo, che ha guidato il popolo dei Paesi Bassi contro il dispotismo della Spagna, lo stesso che ha percosso antichi tiranni come Antioco Epifane e Ramsete.

 

Io sono l’Angelo di Morgarten e di Sempach – Que’ che mena la speranza fra i popoli della terra – Que’ che sovrasta, colle paure, le orgie de’ lor tiranni – l’Angelo de’ Batavi e degli Elvezj – il percussore d’Antioco e di Faraone – Quegl’io mi sono (54).

 

È ragionevole ipotizzare che la missione civile dell’educatore politico, cui Tuveri si è dedicato lungo tutto l’arco della sua esistenza, trovi la sua radice nei ricordi segretamente evocati e nelle idee espresse con circospezione dal nonno nella cerchia riservata e guardinga della famiglia durante la lunga notte della restaurazione in Sardegna. E’ verosimilmente nell’ambito familiare che matura il veggente Tuveri, cioè colui che già dagli Anni Trenta dell’Ottocento si era proposto di assumere la missione civile, come egli scriverà nel Trattato, di dare lo sviluppo possibile alle forze del popolo, attivarle, ordinarle all’interesse sociale; sanarne l’opinione; divezzarlo dalle viziose abitudini, dalla venerazione verso le livree, i titoli, i privilegi, e tutti quei vani simulacri coi quali i monarchi soglion eludere le sue virtuose simpatie; chiamare a sindacato le pretensioni d’intere classi di cittadini, potenti d’opinione, di pecunia, di clientele, confortate da leggi, da consuetudini; esaminare i titoli degli emolumenti, delle esenzioni, degli onori, delle distinzioni in somma che godono, e sì pareggiarle che ciò che ritraggono dalla società sia sempre relativo a ciò che vi contribuiscono (55).

 

In questi punti fondamentali Tuveri compendierà nel Trattato il suo programma di educazione politica, programma già presente nell’operetta giovanile e nel quale non è difficile cogliere accenti che sono presenti nei Capi d’accusa. Contro lo “abominioso mercato” cui i re hanno ridotto la società, il veggente Tuveri come l’ufficiale di giustizia Licheri, invitano il popolo a ribellarsi, poiché a nessuno è lecito impinguarsi del sangue e del sudore dei deboli. Il veggente ricorda al popolo l’eguaglianza tra gli uomini e il fondamento della giustizia sociale che consiste nel “retribuire a ciascuno secondo le sue opere” e nel “desiderio del bene di tutti”. Di qui l’esortazione finale che il veggente rivolge ai popoli oppressi:

 

Gridate sui tetti Viva la Libertà! Gridate, Viva il Popolo! E, nelle alterate fronti dei vostri dominatori, scorgerete la scorza degli amari frutti delle loro viscere” (56).

 

Appare evidente, dal citato documento dei Capi d’accusa contro il nonno del filosofo di Collinas, la consonanza tra il pensiero del Tuveri e le idee e le aspirazioni dell’antico patriota sardo, di Domenico Vincenzo Licheri amico di Giovanni Maria Angioy. Il metodo del paradigma indiziario, cui l’esiguità e l’unicità del documento ha suggerito di ricorrere, induce a ipotizzare con verosimiglianza che il patrimonio ideale della “Sarda Rivoluzione”, che durante il lungo cinquantennio della Restaurazione in Sardegna – la Restaurazione in Sardegna ha inizio nel 1796 con la sconfitta del moto angioiano – si voleva cancellato e sepolto nell’oblio, è rimasto vivo; come le acque carsiche, quella tradizione sommersa è riemersa, nel pensiero e nell’azione politica degli uomini più rappresentativi dell’Ottocento sardo, come Tuveri ed Asproni, per alimentare il fiume della tradizione democratica del nostro Risorgimento.

Il documento sui Capi d’accusa contro il nonno del Tuveri, esaminato secondo il metodo del paradigma indiziario, ha portato un piccolo tassello al problema storiografico dell’eredità e della continuità dell’ideologia della “Sarda Rivoluzione” tra i patrioti e gli intellettuali della prima metà dell’Ottocento. Un tassello ulteriore è rappresentato da questo libro, che studia e rievoca l’episodio del generoso ma sfortunato tentativo del Sanna Corda e del Cilloco di sollevare nel giugno 1802 le popolazioni della Gallura contro il governo piemontese. Entrambi i contributi costituiscono il segnale della necessità di uno scavo analitico su minute vicende di storia locale: esse, oltre a riservare sempre scoperte interessanti e illuminanti, costituiscono la base su cui deve poggiare il più vasto affresco della memoria storica della Sardegna.

 

 

NOTE

 

(1) Cfr. La Sardegna e la Rivoluzione francese. Atti del convegno su “G.M. Angioy e i suoi tempi”, Bono 15-17 dicembre 198, a cura di M. Pinna, Sassari 1990; Francia e Italia negli anni della Rivoluzione. Dallo sbarco francese a Quartu all’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794. Atti del convegno internazionale di studi, Quartu Sant’Elena – Cagliari, 28-30 aprile 1994, a cura di L. Carta e G. Murgia, Roma-Bari 1995. Tra le relazioni lette in occasione del convegno organizzato dall’Università di Sassari il 26-27 aprile 1996 su Patriottismo e costituzionalismo nella “Sarda Rivoluzione”. L’alternos Giovanni Maria Angioy e i moti antifeudali, quella di A. Mattone e P. Sanna, ampliata e corredata di note, è stata in seguito sotto il titolo La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, a cura di Anna Maria Rao, Roma 1999, pp. 37-70. Di particolare interesse la relazione, tuttora inedita, di M. Brigaglia, Per un profilo biografico di Angioy, letta nell’Aula Magna dell’Università di Sassari il 26 aprile 1996.

 

(2) Oltre ai saggi contenuti nei due volumi citati nella nota precedente, ricordiamo in ordine cronologico i saggi più significativi apparsi negli ultimi anni, ai quali rimandiamo per una più completa informazione bibliografica: L. Del Piano, La Sardegna e la Rivoluzione francese, in “Annali della Facoltà di Economia e Commercio di Cagliari”, V (1991), estratto; I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le “leggi fondamentali” nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino 1992; L. Carta, Il triennio rivoluzionario sardo in due manoscritti inediti della Biblioteca Reale di Torino (codice 672 bis e codice 628), in “Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico” (di seguito citato ASMOCA), N. 41/43 (1993), pp. 133-205; 1793: i franco-corsi sbarcano in Sardegna, a cura di F. Francioni, Cagliari 1993; A. Mattone – P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in All’ombra dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814). Atti del convegno, Torino 15-18 ottobre 1990, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1994, pp. 762-863; Storia de’ torbidi occorsi nel Regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi. Opera anonima del secolo XVIII, a cura di L. Carta, Cagliari 1994; A. Mattone – P. Sanna, Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del “diritto patrio” del Regno di Sardegna (1802), in Studi e ricerche in onore di Girolamo Sotgiu, II, Cagliari 1994, pp. 231-308; M. Luigi Simon, La Sardegna antica e moderna, a cura di C. Sole e V. Porceddu, Cagliari 1995; L. Carta, Cagliari nel 1794-95: la bufera rivoluzionaria, saggio introduttivo al volume Pagine di storia cagliaritana 1794-1795, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cagliari, Cagliari 1995; V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari 1996; L. Marrocu, Procurad’’e moderare. Racconto popolare della Rivoluzione sarda 1793-1796, Cagliari 1996; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 1996; T. Orrù – M. Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La Sardegna nel 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei piemontesi, Cagliari 1996; A. Mattone-P. Sanna, La “rivoluzione delle idee”: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), in “Rivista Storica Italiana”, CX (1998), pp. 137-138;  A. Mattone – P. Sanna, La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, a cura di Anna Maria Rao, Roma 1999, pp. 37-70; L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione” (1793-1799), vol. 24° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae”, tomi I-IV, a cura di L. Carta, Cagliari 2000; F. Francioni, Vespro Sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Cagliari 2001; L. Carta, La “Sarda Rivoluzione”. Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001; F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, Cagliari 2002; 2a ed. 2006. Per un inquadramento generale del periodo cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984; C. SOLE, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari 1984.

 

(3) Cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna da 1773 al 1799, Torino 1842; di fondamentale importanza per la ricostruzione delle fonti del Manno è la Prefazione di A. Mattone alla recentissima edizione dell’opera del Manno: cfr. G. Manno, Storia moderna, a cura di A. Mattone, revisione bibliografica di T. Olivari, Nuoro 1998; di particolare interesse anche l’introduzione alla ristampa anastatica curata da G. Serri: cfr. G. manno,  Storia moderna, a cura di G. Serri, Cagliari 1972.

 

(4) Cfr. F. Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821. Narrazioni storiche, Torino 1857; la narrazione del Sulis si ferma al 1796.

 

(5)  A. Mattone – P. Sanna, La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, a cura di Anna Maria Rao, Roma 1999, p. 37.

(6) Ivi p. 39.

 

(7) F. Francioni, Vespro sardo, cit., p. 7.

 

(8) Ivi, p. 386

 

(9) Cfr. L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, cit.

 

(10) G. Manno, Storia moderna, cit., p. 182.

 

(11) Ivi, p. 186.

 

(12) F. Sulis, Degli Stamenti sardi. Lezione data nel dì 22 febbraio 1854 nella Regia Università di Sassari, Sassari 1854, p. 5.

 

(13)  Id., Dei moti politici, cit., p. 4.

 

(14) C. Sole, Politica, economia e società in Sardegna nell’età moderna, Cagliari 1978, p. 131.

 

(15) Ivi, p. 52.

 

(16) Cfr. C. Sole, Lo Stamento militare del Parlamento sardo nel gennaio 1793, in Sardegna, Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo ed Età moderna. Studi in onore di Alberto Boscolo, a cura di L. D’Arienzo, vol. I, La Sardegna, Roma 1993, p. 554 passim. La compilazione di Vittorio Angius cui Sole fa riferimento è l’ormai rara appendice al vol. XVIII quater, Sardegna, del Dizionario geografico- storico- statistico- commerciale degli Stati di Sua Maestà il re di Sardegna, Torino 1833-1856, di G. Casalis. L’appendice è un volume di 212 pagine senza frontespizio né data e senza indicazioni editoriali, che l’erudito cagliaritano pubblicò a proprie spese nel 1859, dopo che il successore del Casalis nella direzione del Dizionario Paolo Camosso e l’editore Marzorati rifiutarono di accogliere la continuazione della storia dei Parlamenti sardi contenuta nel vol. XVIII quater, che si ferma infatti al 1648. L’appendice dell’Angius, che è stampata con gli stessi tipi del Dizionario e ne riprende la numerazione da p. 796 (il vol. XVIII quater termina con la p. 795) fino a p. 1007, narra la storia parlamentare del regno di Sardegna dal 1648 fino alle riunioni stamentarie del 1793-1796. Relativamente al periodo sabaudo, dopo aver dedicato pochi cenni alla Interruzione de’ Parlamenti sardi dal 1700 al 1793 (pp. 911-914), l’Autore offre un ampio transunto delle sessioni stamentarie dal gennaio 1793 all’ottobre 1796 (pp. 914-1004), mentre dedica poche pagine all’attività degli Stamenti dal 1796 al 1847. Significativamente egli intitola l’ultimo capitolo Abdicazione dell’antica costituzione del regno di Sardegna (pp. 1005-1007): con la “fusione perfetta” e con l’adozione della nuova costituzione dello Stato sabaudo, secondo la sua opinione, fu «illegalmente soppresso l’antico Statuto della Sardegna». Fino alla pubblicazione degli atti dello Stamento militare del 1793 curata da Sole e fino alla recente pubblicazione degli atti stamentari del 1793-1799, l’appendice dell’Angius ha costituito l’unica fonte cui gli studiosi potevano riferirsi per una narrazione completa e sufficientemente analitica dell’attività degli Stamenti sino alla fine del Settecento. Si vedano in proposito le osservazioni di A. Mattone, Una progetto di edizione degli atti dei Parlamenti sardi, in “Quaderni sardi di storia”, n. 4 (luglio 1983-giugno 1984), pp. 212-213; un’analitica indicazione delle sedute stamentarie del 1793-1796 presenti nell’appendice dell’Angius è stata redatta da L. Carta, Le sedute stamentarie nel triennio rivoluzionario (1793-96): problemi di ricognizione documentaria e di edizione, tav. 4, in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 281-300.

 

(17) C. Sole, Lo Stamento militare del Parlamento sardo nel gennaio 1793, cit., p. 555.

 

(18) Ivi, p. 556.

 

(19) Nel secondo dopoguerra, quando fu ripreso il secolare progetto di pubblicazione degli atti dei Parlamenti del regno di Sardegna, che ha dato luogo alla edizione critica di tre Parlamenti (cfr. A. Boscolo, I Parlamenti di Alfonso il Magnanimo, Milano 1953, ora ristampato come volume 4° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae” con aggiornamenti, apparati e note a cura di Olivetta Schena; A. Era, Il Parlamento sardo del 1481-1485, Milano 1955; G. Sorgia, Il Parlamento del viceré Fernandez de Heredia (1553-1554), Milano 1963), la Deputazione di Storia Patria per la Sardegna aveva affidato l’incarico di raccogliere gli «atti stamentari del 1793» a Pietro Leo. Cfr. F. Loddo Canepa, La Deputazione di Storia Patria e la Raccolta degli atti parlamentari sardi, in Liber Memorialis Antonio Era, Bruxelles 1963, pp. 193-207; la citazione è a p. 197. Sui vari tentativi compiuti, a partire dal secolo scorso, di pubblicare gli atti dei Parlamenti sardi, cfr. A. Mattone, Problemi di storia del Parlamento sardo, in Assemblee di Stati e istituzioni rappresentative nella storia del pensiero politico moderno (XV-XX secolo). Atti del convegno internazionale tenuto a Perugia da 16 al 18 settembre 1982, I, Rimini 1984, pp. 165-172; Id., Un progetto di edizione degli atti dei Parlamenti sardi, cit., pp. 281-300; G. Olla Repetto, La collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae”, in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 75-83.

 

(20) Cfr. G. Sotgiu, Alcune conseguenze politiche dell’attacco francese alla Sardegna nel 1792-93, in “Annali delle Facoltà di Lettere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari”, vol. XXIII (1970); Id., La insurrezione di Cagliari del 1794, in “Studi Sardi”, vol. XXI (1971); le indicazioni di pagina relative a questi due lavori di Sotgiu si riferiscono agli estratti. Oltre che nei due saggi citati, Sotgiu si è occupato a più riprese del problema del riformismo sabaudo e delle vicende di fine Settecento in Sardegna: si veda, in particolare, la nitida sintesi contenuta in G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984; Id., Note per uno studio degli anni della Rivoluzione Sarda del 1793-1796, in ASMOCA, n. 29/31 (1990), pp. 11-44; Id., La Sardegna della prima metà dell’Ottocento: i germi della contemporaneità, in ASMOCA, n. 32/34 (s. d. ma 1991), pp. 46-47, ora anche in, Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta,  vol. I , Oristano 1991, pp. 23-42; G. Sotgiu, La Sardegna tra Rivoluzione e Restaurazione, in ASMOCA, n. 35/37 (1991), pp. 11-27.

 

(21) Cfr. G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari, cit., p. 49 passim.

 

(22) Cfr. Id., Storia della Sardegna sabauda, cit., pp. 89-131. Si veda, in proposito, il recente profilo di A. Accardo, Il filo rosso dell’autonomia. Alcune note introduttive allo studio dell’opera storiografica di Girolamo Sotgiu, in ASMOCA, n. 50 (1998), pp. 20-28.

 

(23) Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria (1730- 1764), Torino 1969; vol. II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino 1976; vol. III, La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776), Torino 1979; vol. IV,  La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), tomo I,  I grandi stati dell’Occidente, Torino 1984, tomo II,  Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Torino 1984;  vol. V,  L’Italia dei lumi (1764-1790), tomo I, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987, tomo II, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990. Su Franco Venturi  (1914-1994) e sulla sua opera si vedano i recenti saggi di E. Tortarolo, La rivolta e le riforme. Appunti per una biografia intellettuale di Franco Venturi (1914-1994), in “Studi settecenteschi”, 15 (1995), pp. 9-42; A. Mattone, Franco Venturi e la Sardegna. Dall’insegnamento cagliaritano agli studi sul riformismo settecentesco, in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 303-355; il volume collettaneo edito dalla Fondazione Luigi Einaudi di Torino, Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita, a cura di L. Guerci e G. Ricuperati, Torino 1998, con contributi  dei due curatori e di  Giuseppe Giarrizzo, Roberto Vivarelli, Edoardo Tortarolo, Furio Diaz, Bronislaw Baczko, Daniel Roche, Giuseppe Galasso, Ettore Cinnella, Abbott Gleason, Valentina A. Tvardavskaja, Pier Giorgio Zunino e testimonianze di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Vaccarino, bibliografia a cura di Paola Bianchi e Leonardo Casalino. 

 

(24) Cfr.L. Bulferetti, Il riformismo settecentesco in Sardegna, Cagliari 1966, 2 voll.; C, Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari 1984; L. Scaraffia, La Sardegna sabauda, in J. Day, B. Anatra, L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna, vol. X della Storia d’Italia diretta da G. Galasso, Torino 1984.

 

(25) G. Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino 1989, pp. 166-167.

 

(26) Cfr. F. Venturi, Gian Battista Vasco all’Università di Cagliari, in ASS, XXV (1957), fasc. 1-2, pp. 16-41; Id., Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese del secolo XVIII, in  RSI, LXXVI (1964), pp. 470-506; ma si veda anche Id., Giuseppe Cossu, in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 849-859; L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827). Un contributo bio-bibliografico, Milano 1966; E. Verzella, L’età di Vittorio Amedeo III in Sardegna: il caso dell’Università di Sassari, in AFLE, XXIV (1990), pp. 235-272; Id., L’Università di Sassari nell’età delle riforme (1763-1773), Sassari 1992.

 

(27) A. Mattone-P. Sanna, La “rivoluzione delle idee”: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), cit., pp. 137-138. Alla luce di questo importante saggio di Mattone e Sanna andrebbero confrontate e rivisitate le numerose interpretazioni restrittive sul riformismo boginiano in Sardegna, a partire dai contributi di L. Bulferetti, Premessa a Il riformismo settecentesco in Sardegna a cura di L. Bulferetti, Cagliari 1966; A. Boscolo – L. Bulferetti- L. Del Piano, Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco al Piano di rinascita, Padova 1962, ora ristampato con aggiornamenti bibliografici e con una Parte II  relativa ai tempi più recenti di Gianfranco Sabattini  presso l’editore Franco Angeli: A. Boscolo – L. Bulferetti – L. Del Piano – G. Sabattini, Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai Piani di rinascita, Milano 1991. In sintonia con questa interpretazione Stefano Pira ha scritto in un recente contributo che l’obiettivo della riforma delle Università voluta dal Bogino «era quello di creare nuovi quadri burocratici e tecnici non di formare una classe dirigente sarda autonoma» (S. Pira, Sardi, viceré e ministri: dal Bogino al 28 aprile 1794, in Studi e ricerche in onore di Giampaolo Pisu, Cagliari 1996, p. 113). Al contrario fu proprio la «rivoluzione delle idee» innescata dalla riforma del Bogino a favorire la crescita di una «classe dirigente sarda autonoma», cioè di quella intellettualità che proprio dalla cultura rinnovata trasse alimento per l’acquisizione di una matura coscienza dell’identità e di un rinnovato e solido “patriottismo” che costituì il terreno di coltura della rivoluzione sarda di fine Settecento. L’osservazione non va riferita solamente al riformismo sabaudo, ma al riformismo settecentesco in generale. Si veda, in proposito, l’acuta introduzione di Antonio De Francesco all’edizione critica di V. Cuoco, Saggio storico della rivoluzione di Napoli, edizione critica di A. De Francesco, Napoli 1998; cfr. anche B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, a cura di C. Cassani, con una nota di Fulvio Tessitore, Napoli 1998.

 

(28) G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari, cit., pp. 83-84.

 

(29) I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno, cit., p. 103.

 

(30) Ibidem. L’espressione è di C. Sole, Gli Stamenti e la crisi rivoluzionaria sarda della fine del XVIII secolo, in Liber memorialis Antonio Era, Bruxelles 1963, p. 187.

 

(31) I. Birocchi,  La carta autonomistica, cit., p. 95.

 

(32) Ivi, p. 103.

 

(33) Cfr. A. Mattone – P. Sanna, Il «partito patriottico» al potere. Dalla sollevazione antipiemontese ai moti antifeudali delle campagne del Logudoro (1794-1796), relazione tenuta nell’aula magna dell’Università di Sassari il 26 aprile 1996 in occasione del convegno Patriottismo e costituzionalismo nella “Sarda Rivoluzione” sopra citato, pp. 5-6 del dattiloscritto.

 

(34) Il discorso è stato pubblicato nell’annuario dell’Ateneo turritano: cfr. A. Era, Estrema reviviscenza di un secolare istituto (Gli Stamenti nell’ultimo decennio del secolo XVIII), in Universita’ degli Studi di Sassari, Annuario per gli anni accademici dal 1943-44 al 1946-47, Sassari 1947, p. 16; sulla reviviscenza dell’istituto parlamentare alla fine del Settecento cfr. anche C. Sole, Gli Stamenti e la crisi rivoluzionaria sarda della fine del Settecento, cit.; F. Francioni, Un’anomalia istituzionale: il Parlamento sardo nel triennio rivoluzionario (1793-96), in ASMOCA, n. 29/31 (1990), pp. 149-178. Circa l’attività degli Stamenti nel Settecento e la mancata convocazione del Parlamento cfr. G. Olla repetto, Il primo donativo concesso dagli Stamenti sardi ai Savoia, in Liber Memorialis Antonio Era, cit., pp. 101-111; M. A. Benedetto, Nota sulla mancata convocazione del Parlamento sardo nel secolo XVIII, ivi, pp. 1134-168; G. Todde, Proteste degli Stamenti sardi contro l’attività del governo piemontese nella seconda metà del secolo XVIII, ivi, pp. 170-177.

 

(35) G. Zirolia, Sugli Stamenti di Sardegna, Milano 1892; Id., Stamenti sardi, in “Archivio giuridico”, 1912; A. Marongiu, I Parlamenti di Sardegna nella storia e nel diritto pubblico, Roma 1932; il volume è stato poi ripubblicato dall’Autore, con notevoli integrazioni e arricchimenti contenutistici e bibliografici, col titolo: I Parlamenti sardi. Studio storico- istituzionale e comparativo, Milano 1979.

 

(36) A. Era, Estrema reviviscenza di un secolare istituto, cit., p. 16.

 

(37) Ivi, p. 24.

 

(38) Ibidem.

 

(39) Cfr. V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, cit.

 

(40) Cfr. G. Cucca, Macomer: documenti cronache e storia di una comunità. Settecento sabaudo, Cagliari 2000.

 

(41) Una pregevole drammatizzazione è quella di G. Putzolu, Alternos. Dramma in tre atti, Cagliari, 2002, che rievoca l’episodio della resistenza del villaggio di Macomer alla marcia di Angioy e dei suoi seguaci verso Cagliari nel giugno 1796. L’edizione critica dell’inno antrifeudale è contenuta nel volume: F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, cit.

(42) Cfr., oltre ai saggi già citati, A. Mattone-P. Sanna, Istruire nelle verità patrie. Il Prospetto dell’isola di Sardegna di Matteo Luigi Simon, in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma 2001, pp. 513-598; M. Pes, La rivolta tradita. La congiura di Palabanda e i Savoia in Sardegna. Introduzione di G. Serri, Cagliari 1994; V. Sulis, Autobiografia, a cura di G. Marci. Introduzione e note storiche di L. ortu, Cagliari 1994.

 

(43) Cfr. A. Accardo, Note sulla fortuna della “Striai moderna della Sardegna” di Giuseppe Manno nella seconda metà dell’Ottocento, in Francia e Italia negli anni della Rivoluzione, cit., p. 154.

(44) Cfr. J. W. Tyndale, The Island of Sardinia including pictures of the manners and customs of the Sardinians and notes on the antiquities and modern objects, London 1849, vol. 3, p. 279 ss.

(45) A partire dal 1973 il pensiero del Tuveri è stata spessi rivisitata nell’ambito del dibattito storico e politici sulla “questione sarda”: cfr. G. Contu, G. B. Tuveri vita e opere, Cagliari 1973; Giovanni Battista Tuveri filosofo e politico, fasc. 13-14 della rivista  “Quaderni di filosofia e scienze umane”, che contiene gli atti del convegno tenutosi a Sassari l’11-12 maggio 1984; G.B. Tuveri e i suoi tempi, fasc. 26/28 di ASMOCA, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi in occasione del centenario della morte del Tuveri (Cagliari-Collinas 4-6 dicembre 1987); è in corso di pubblicazione, da parte della Regione autonoma della Sardegna, l’opera omnia del Tuveri, di cui sono apparsi quattro volumi: G. B. Tuveri, Il veggente / Del dritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi, a cura di A. Accardo, L. Carta, S. Mosso, Sassari 1990; Id., Della libertà e delle caste / Sofismi politici, a cura di M. Corrias Corona e T. Orrù, Sassari 1992; Id., Opuscoli politici, a cura di G. Sotgiu, Sassari 1991; Id., Il governo e i comuni / La questione barracellare, a cura di L. Del Piano e G. Contu, Sassari 1994.

 

(46) Cfr. G. Solari, Il pensiero politico di G. B. Tuveri, in “Annuario della Regia Università di Cagliari”, 1915, estratto.

(47) Cfr. G. B. Tuveri, Del dritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi, Cagliari 1851, ora nel vol. I dell’opera omnia citata.

(48) Cfr. G. Solari, Il pensiero politico di G. B. Tuveri, cit., pp. 20-34.

(49) Il documento è pubblicato in appendice a L. Carta, Fermenti di ideologia rivoluzionaria nell’Oristanese tra Settecento e Ottocento, in Giudicato di Arborea e Marchesato di Oristano: proiezioni mediterranee e aspetti di storia locale, a cura di G. Mele, Oristano 2000, pp. 310-312.

 

(50) G. B. TuverI, Note autobiografiche, in G. Contu, G. B. Tuveri vita e opere, cit., p. 66.

(51) Cfr. ibid., p. 12.

(52) Cfr. G. B. Tuveri, Il veggente, edizione e note a cura di L. Carta, in G. B. Tuveri, Tutte le opere/1, cit., pp. 155-322.

(53) Cfr. L. Carta, L’inedito giovanile “Il veggente” e la formazione del pensiero politico-filosofico di G. B. Tuveri, In G. B. Tuveri, Tutte le opere/1, cit, pp. 72-77.

(54) G. B. Tuveri, Il veggente, cit., p. 202.

(55) G. B. Tuveri, Del dritto dell’uomo, cit., p. 11.

(56) Idem, Il veggente, cit., p. 301.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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