“Andartes”. Pro chi non morzat sa memoria. Ammentandhe sos “eroes”mannos e minores de domo nostra, di Luciano Carta

Altri Bolotanesi che hanno partecipato alla guerra sul fronte balcanico: la dolorosa esperienza di alcuni di essi nei campi di concentramento nazisti (OTTAVA PUNTATA, FINE).

 

La vicenda di Nico Motzo, “partigiano combattente” della Resistenza greca (ma un discorso analogo vale per Carlo Careddu), ha sicuramente tutti i caratteri dell’eccezionalità. Essa, per quanto a nostra conoscenza, in un ambito della ricerca storiografica che riserverà sicuramente altre sorprese, è paragonabile a quella del capo cannoniere della Marina Militare Pietro Carboni di Paulilatino, medaglia d’Oro al Valor Militare, che dopo l’8 settembre costituì una banda partigiana nell’isola di Rodi e fu trucidato dai tedeschi il 20 dicembre 1944[1].

Nel corso della ricerca di testimonianze locali che si sono rese necessarie per illustrare adeguatamente la particolare esperienza di Nico Motzo, è emerso un significativo numero di Bolotanesi che hanno preso parte al secondo conflitto mondiale; tra essi abbiamo constatato una notevole presenza di combattenti nella campagna di Grecia, alcuni dei quali hanno avuto esperienze personali particolarmente significative e tali da meritare di essere fissate nella memoria collettiva.  Allo stato delle nostre conoscenze essi sono una decina, ma abbiamo motivo di ritenere che il loro numero sia di molto superiore. Ci è sembrato un atto doveroso ricordarli al termine di questa narrazione, non solo per il rispetto che si deve nutrire verso chi ha molto sofferto, ma anche per l’alto significato civile ed etico che alcune di queste esperienze hanno rappresentato. In tal senso alcune di esse sono state nel recente passato già adeguatamente illustrate soprattutto ai giovani studenti, in una fase della nostra storia in cui anche le scuole sarde, attorno agli anni Ottanta del secolo scorso, grazie alla sensibilità di numerosi insegnanti, hanno preso coscienza della tragedia della Shoah e delle atrocità e sofferenze che la guerra in sé ha provocato nei superstiti di quel dramma dell’umanità, molti dei quali, anche a livello locale, hanno volentieri accettato, dopo lunghi decenni di silenzio, di raccontare e fissare nella memoria quelle esperienze[2].

Insieme a Nico Motzo hanno preso parte alla guerra sul fronte greco-albanese, e più in generale sul fronte balcanico, secondo le notizie ancora incomplete da noi recuperate, oltre a Giuseppe Antonio Sassu e a Costantino Sechi, ricordati nelle Memorie, i seguenti Bolotanesi che presentiamo in stretto ordine cronologico di nascita:

1) Pisanu Giovanni Antonio “Gambetta”, nato a Bolotana il 22 maggio 1916, che nel 1950 ha sposato la sorella minore di Nico Motzo, Chiara Francesca, vivente. Arruolato come “Allievo” nella Guardia di Finanza l’8 aprile 1934, ha svolto i primi anni di servizio come guardia di confine. Con l’inizio della guerra contro la Grecia, a seguito di domanda scritta è stato assegnato al I° Battaglione Mobilitato del Corpo di appartenenza e mandato sul fronte albanese il 23 gennaio 1943. Con l’occupazione della Grecia il I° Battaglione Mobilitato andò a presidiare l’isola di Cefalonia e nell’isola dello Jonio il finanziere Pisanu trascorse gli anni 1941-1943. A seguito dell’Armistizio il suo Reparto subì le vicissitudini delle truppe italiane a Cefalonia; fatto prigioniero dai tedeschi il 21 settembre di quell’anno, fu avviato ai campi di concentramento del Terzo Reich e internato in Polonia, nei pressi di Varsavia. Nel giugno 1944, a seguito dell’avanzata dell’Armata Rossa e del ripiegamento dei nazisti, fu catturato dai Russi e internato fino al marzo 1945 nel campo di lavoro di Tambov, lo stesso in cui fu internato Francesco Ortu, di cui si dirà appresso. Come quest’ultimo fu ulteriormente mandato in un campo di lavoro nel Turkestan fino al 7 ottobre 1945. Riuscito a fuggire dall’ultimo campo di prigionia, rientrò in Italia il 25 novembre 1945. Nel dopoguerra ha continuato a prestare servizio nel Corpo della Guarda di Finanza in diverse località della Penisola. È deceduto a Roma[3].

2) Meloni Raffaele (Bolotana, 28.11.1916 – 24.6. 1985), di cui si dirà appresso.

3) Meloni Salvatore Angelo (noto Angelino), nato a Bolotana il 2 marzo 1917, arruolato nell’Arma dei Carabinieri nell’agosto 1936: Colonnello dell’Arma, è deceduto a Napoli il 13 maggio 2004.

4) Mimmi Bachisio Antonio (Bolotana, 7 marzo 1917 – 8 dicembre 2008), arruolato in un Corpo di Artiglieria someggiata nel 1938, nel giugno 1940 ha partecipato alla guerra sul fronte alpino occidentale. Partito per il fonte greco-albanese nell’autunno 1940 con il 3° Reggimento Artiglieria Alpina someggiata, che durante la campagna venne affiancato alla Divisione Alpina “Julia”, ha operato in Albania nella zona meridionale del fronte, presso la cittadina di Argirocastro. Sia La Divisione “Julia” che il 3° Reggimento Artiglieria Alpina sono stati insigniti della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Bandiera per la Campagna di Grecia. Graduato come Caporal Maggiore, Bachisio Mimmi è stato promosso sergente per aver salvato la vita al capitano della sua Compagnia. Colto dalla malaria durante l’opera di presidio in Grecia, è stato curato presso l’ospedale militare di Bari e dopo la guarigione è stato mandato per qualche tempo a Palermo. È stato collocato in congedo nel 1944. Dopo l’esperienza della guerra ha ripreso la sa attività di pastore[4].

5) Careddu Francesco “Peddone”, nato a Bolotana il 2 aprile 1918, dopo aver preso parte alla prima fase del conflitto sul fronte alpino a Pian del Re, presso Cuneo, nel 260° Reggimento Fanteria,[5] fu destinato, dopo l’invasione delle truppe dell’Asse, alla Penisola Balcanica. Nel Ruolo Matricolare del Comune di Bolotana risulta essere stato «fante» del 260° Reggimento Fanteria, contingente che venne inserito nella 154a Divisione di Fanteria “Murge” e inviato nel 1942 in territorio jugoslavo con compiti di presidio e di contro-guerriglia avverso l’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, attività in cui l’unità italiana dell’Esercito subì gravissime perdite. Francesco Careddu trovò la morte il 7 maggio 1942 all’età di 24 anni in Croazia, nei pressi di Zagabria, a seguito di «ferite multiple»[6]. Addetto all’uso di fucili mitragliatori in qualità di Capo-arma, Francesco Careddu è morto nella cittadina croata di Samobor, dove egli si trovava in attività di anti-guerriglia, dopo una violenta sparatoria con le forze partigiane del Generale Tito, in cui resistete a lungo al nemico; dovette soccombere per la superiorità delle forze nemiche. Con decreto del Luogotenente del Regno Umberto di Savoia, essendo ministro della Guerra Alessandro Casati, fu insignito dell’onorificenza della Medaglia di Bronzo al Valor Militare e della Croce di Guerra dell’11a Armata.

 

Porta Arma – si legge nella motivazione della Medaglia -, durante un aspro combattimento, rimasto senza serventi perché feriti, continuava imperterrito da solo a far fuoco sui ribelli incalzanti, finché, colpito a morte, cadeva da prode. Samobor (Balcania), 7 maggio 1942».[7] La salma, com’è attestato dal verbale redatto in data 10 giugno 1942, «non [fu] potuta recuperare»[8].

6) Longu Bachisio Antonio, nato a Bolotana il 23 gennaio 1919, arruolato nel 1938, è stato chiamato alle armi nell’aprile 1939 ed è entrato a far parte della Guardia di Finanza come “Allievo”. Partito per il fronte greco-albanese presumibilmente nell’inverno 1940-1941; secondo i dati forniti da Commissariato Generale per le Onoranze dei Caduti in Guerra risulta deceduto l’8 settembre 1943 e non si conosce il luogo della sepoltura; nel Ruolo Matricolare del Comune di Bolotana è riportata la dicitura «disperso in guerra»[9]. Abbiamo motivo di ritenere, come nel caso di Careddu Carlo di cui si è già detto, che l’8 settembre 1943 come data di morte sia un’indicazione generica riferita a quanti risultano dispersi, intendendolo sia come terminus ad quem sia come terminus a quo, ossia come data di riferimento sia ai dispersi morti prima dell’8 settembre sia dopo questa data. È molto probabile che egli sia morto, in battaglia o a seguito delle ferite riportate, nella prima fase della campagna greco-albanese, ossia nell’inverno 1940-41.

7) Ortu Francesco (Bolotana, 15 marzo1919 – Nuoro, 1 ottobre 2013), arruolato nel 1938 e chiamato alle armi nell’aprile 1939, fece parte della Divisione “Acqui”, di cui si dirà appresso.

8) Longu Giovanni Maria “Ogrone”, nato a Bolotana il 1° settembre 1920, fu arruolato nel 42° Reggimento Fanteria “Modena” e nel giugno 1940 combatté sul fronte occidentale al confine con la Francia, tra il Mont Razet e la Val Roja sulle Alpi Marittime. Partì con il suo reparto nell’autunno 1940 per il fronte greco-albanese, in concomitanza con la dichiarazione di guerra alla Grecia e combatté nella zona sud del fronte, tra la Val di Drino e l’altipiano di Kurvelesh, oggi nel distretto di Tepeleni, non lontano dalla costa adriatica. Secondo la copia dell’atto di morte depositato presso l’Ufficio di Stato Civile del Comune di Bolotana, il soldato Longu Giovanni Maria risulta deceduto il 13 dicembre 1940 nella cittadina dell’Epiro albanese Lekdushaj «in seguito a ferite riportate in combattimento» e sepolto nella stessa cittadina, «cimitero B, tomba N. 344»[10], come consta dal verbale compilato in data 21 maggio 1941, giorno in cui è stato rinvenuto il cadavere[11]. In anni più recenti il Ministero della Difesa ha interpellato i familiari per sapere se desideravano effettuare la traslazione della salma. La pratica relativa fu istruita dalla sorella, signora Salvatorica Longu (tia Bichedda Ogrone), la quale, anche per l’interessamento del figlio, maresciallo in pensione Augusto Ninniri, ha provveduto a far traslare la salma, che è ora sepolta nel Cimitero di Bolotana. La foto presente nel loculo è stata desunta da una foto di gruppo datata 10 luglio 1940, di proprietà di Domenico Costeri, già presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci di Macomer, ora deceduto, autore di un volume di memorie sulla guerra, che pubblica anche la suddetta foto di gruppo[12]. La famiglia ha conservato una sola lettera autografa di Giovanni Maria Longu, favoritaci cortesemente dal nipote, maresciallo Salvatore Longu, datata Genova 21 maggio 1940, quindi relativa al periodo immediatamente precedente la partenza per il fronte greco-albanese. Si tratta di un documento di carattere strettamente familiare, scritto con grafia incerta e con un lessico ed un’ortografia elementari, che denota però un forte attaccamento ai genitori e alla famiglia, la quale, nelle condizioni di assoluta deprivazione di allora, compie ogni sforzo per far pervenire al congiunto sotto le armi qualche piccola somma per alleviarne i disagi. I familiari hanno ricambiato questo profondo affetto; il sig. Giuseppe Longu (tiu Zuseppe Ogrone) ha apposto in sua memoria il nome di Giovanni Maria al primo figlio nato dopo la scomparsa del fratello[13].

9) Dedola Giuseppe, figlio di Pepe Radeski “de sos de Fae e Lardu”, nato a Bolotana il 22 novembre 1919, arruolato il 24 gennaio 1939, ha fatto parte di una Reggimento di Fanteria dal 15 marzo 1940; come altri combattenti bolotanesi, è morto sul fronte greco-albanese il 16 dicembre 1940, nella prima fase dell’invasione della Grecia, e risulta «disperso».

10) Fois Salvatore (Bolotana, 1 dicembre 1919 – Oristano 6 marzo 2012), arruolato nell’Esercito, sergente maggiore del Genio di stanza a Trieste, Pola e Fiume. Durante il conflitto operò in Croazia. Nel dopoguerra si è arruolato nel Corpo degli Agenti di Custodia, per il quale si rimanda oltre.

11) Angioy Giuseppe Salvatore, noto Peppico (Bono, 2 febbraio 1920 – Bolotana, 10 dicembre 2001), chiamato alle armi nel marzo 1940 nel 59° Reggimento Artiglieria Mobilitato, ha partecipato alla guerra sul fronte alpino-occidentale nel giugno 1940; trasferito al 48° Reggimento Artiglieria di Montagna, 5° Battaglione Mobilitato, è partito per il fronte greco-albanese nel novembre 1940; nel giugno 1941 viene quindi trasferito nel Montenegro a presidio del territorio divenuto Governatorato Italiano. Rientrato in Italia al seguito del Quartier Generale della Divisione “Taro” nel settembre 1942, opera per qualche tempo sul confine francese fino al rientro in Sardegna in licenza di convalescenza nell’ottobre 1943. Nel marzo 1945 verrà assegnato al Battaglione “Logudoro”; verrà collocato in congedo nel novembre 1943. Gli è stata conferita la Croce al merito di Guerra «in virtù del R. D. 14.12.1947 N. 1728 per partecipazione alle operazioni durante il periodo bellico 1940-1943 con determinazione del Commiliter di Roma in data 30.11.1954».[14]

12) Longu Giovanni Angelo, noto “’Uannanghelu de Caporale”, vivente, nato a Bolotana il 12 settembre 1920. Arruolato nella Divisione di Fanteria dei “Lupi di Toscana”, ha partecipato alla guerra sul fronte greco-albanese. Opportunamente intervistato, il signor Giovannangelo conserva ricordi molto vaghi della sua esperienza bellica e del periodo successivo all’8 settembre 1943; ricorda comunque che è stato sicuramente a Durazzo, in Albania. Non conserva invece ricordi di una sua deportazione nei campi di concentramento tedeschi, circostanza testimoniata dalle sorelle.[15] Molto efficace l’espressione in logudorese con cui le due sorelle Longu ricordano la carneficina sul fronte greco-albanese: i combattenti «ruiana in terra che landhe» (cadevano a terra come ghiande). Sul fronte greco-albanese Giovannangelo era stato compagno d’armi di Peppico Angioy. Ferito, fu in seguito internato in campo di concentramento tedesco; la famiglia poté conoscerne la sorte a seguito di un biglietto da lui lasciato cadere in una stazione dal vagone bestiame della tradotta che lo conduceva in Germania, che fu spedito da uno sconosciuto e giunse a destinazione ai familiari a Bolotana molto tempo dopo. Dopo il campo di concentramento, probabilmente a seguito dell’arrivo dei Russi, venne trasferito, come altri, in una fattoria russa. È rientrato in famiglia a guerra finita.[16]

Tra le persone sopra richiamate, di tre di esse possediamo testimonianze dirette, che secondo modalità e tempi diversi, sono state rese note soprattutto nell’attività didattica delle nostre scuole, chiamati come diretti “testimoni” a raccontare la loro esperienza nella guerra e nei campi di concentramento nazisti in cui furono internati dopo l’8 settembre 1943.

La prima testimonianza registrata e scritta a fini didattici è stata resa da Raffaele Meloni nel 1985, poco prima della morte. Ha raccolto e utilizzato la testimonianza la figlia, prof.ssa Maria Antonietta Meloni, scomparsa nel 2016, che era stata a lungo docente di Lettere presso la Scuola Media “Dalmasso” di Macomer[17]. Pastore di professione, persona di una calma olimpica e grande lavoratore, sempre garbato e cortese, tiu Roffaelle Melone – come lo conoscevamo noi giovani – fu arruolato nel 19° Reggimento Cavalleria Guide Mobilitato di stanza a Parma, dove raggiunse il grado di sergente capo-squadra dell’impersquadra (ossia squadra dei veterani) del 2° squadrone con funzione di istruttore. Il Reggimento fu mandato sul fronte greco-albanese nell’ottobre 1940, all’inizio delle ostilità contro la Grecia. Pur non avendo mai fatto parte delle organizzazioni giovanili fasciste, nell’intervista del 1985 egli racconta che era partito per la guerra in Grecia con due convinzioni, che costituivano il comune bagaglio d’idee dei giovani di allora, veicolato dalla propaganda fascista: la guerra costituiva una «soluzione ai problemi economici degli italiani» in quanto in prospettiva «avrebbe offerto possibilità di lavoro per tutti»[18]; la guerra con la Grecia nasceva da un «tacito consenso»[19] con il governo del paese ellenico, poi ribaltato dal colpo di Sato seguito alla morte del dittatore Ioannis Metaxàs. L’esito delle operazioni di guerra italiane sul fronte greco-albanese, come si è detto, fu drammatico, avendo l’esercito greco respinto le nostre truppe «nelle zone più impervie dell’Albania»[20]. Dopo l’occupazione della Grecia, per qualche mese il Reggimento Cavalleggeri fu impegnato a presidiare il territorio ellenico. Nel novembre 1941 esso fu trasferito sul fronte jugoslavo, dove, subito dopo l’occupazione italo-tedesca dei Balcani nel marzo di quell’anno, aveva preso corpo la Resistenza slava in tutti i paesi dell’area balcanica. Non segnala alcuna azione di rappresaglia contro la popolazione civile nei territori occupati, anzi sottolinea un sostanziale reciproco «rapporto di correttezza»[21] con esse «perché si trattava soprattutto di anziani, donne e bambini», con cui era facile «stabilire un rapporto di amicizia».[22] Pone in evidenza, al contrario, la durezza di trattamento dei civili da parte delle truppe tedesche di occupazione, ricordando «in particolare l’accanimento nei confronti di una donna anziana»[23]. Considerato che nel corso della guerra le difficoltà più notevoli erano dovute alla mancanza di viveri sufficienti, fino a trascorrere diversi giorni senza toccare cibo, «si ricorreva al furto, per necessità, di qualche capo di bestiame»[24].

L’armistizio dell’8 settembre lo colse a Tirana, la capitale dell’Albania. Fatto prigioniero dai tedeschi, fu avviato ai campi di concentramento in Germania. Il trasferimento, effettuato in treno e a cavallo, durò un intero mese attraverso la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, l’Austria e la Germania. Durante il tragitto, soprattutto nei territori slavi, i convogli dei prigionieri subivano spesso gli attacchi dei partigiani. Giunto in Germania, trascorse il periodo di prigionia prima in un campo a Norimberga e successivamente nella cittadina bavarese di Regensburg (Ratisbona) in una fabbrica per la produzione di materiali bellici per l’Artiglieria. Dal Kriegsgefangenenlager (campo di prigionieri di guerra) della cittadina bavarese il 15 marzo 1944 egli, laconico di carattere come di scrittura, indirizzava un piccolo biglietto ai genitori in cui comunicava di godere ottima salute, anche se raccomandava la spedizione di un pacco di generi di prima necessità perché, egli scriveva, «questa vita sembra che non finisca più»[25].  È evidente che le notizie superlativamente positive sulla salute rispondevano alla preoccupazione di non allarmare i familiari. In realtà le condizioni di vita all’interno del Lager erano assai dure. La giornata di lavoro durava dalle 6 del mattino alle 18 del pomeriggio e il cibo consisteva in una razione giornaliera di «250 grammi di patate condite col burro e 200 grammi di pane»[26]. Per integrare la scarsità della razione giornaliera di cibo molti dei 400 internati italiani il sabato pomeriggio «lavoravano nei campi dei contadini locali che li pagavano con una manciata di patate per mezza giornata di lavoro»[27]. Per nutrirsi in non poche circostanze «non disdegnavano neppure le bucce»[28]; talvolta, a rischio della pelle, si compivano nottetempo dei piccoli furti di patate e di burro: «Chi veniva scoperto veniva picchiato a sangue o fucilato. L’appropriazione del cibo veniva considerato come sabotaggio: il regolamento prevedeva la fucilazione»[29]. E in una circostanza egli rischiò di finire fucilato; lo salvò la prontezza di spirito di un militare tedesco subalterno. Un giorno, si racconta nella sua interessante testimonianza, «fu notato da una SS il rigonfiamento della tasca in cui aveva nascosto un panetto di burro proveniente dalla mensa della fabbrica bombardata: fu fatto perquisire da un subalterno che dichiarò che si trattava di un pezzo di pane (brot), unico alimento consentito dal regolamento. Quel militare gli salvò la vita, mettendo a repentaglio la propria»[30].

Raffaele Meloni fu liberato dalla prigionia dagli Alleati il 24 maggio 1945 e rientrò a Bolotana il 5 giugno successivo. Sottoposto al rientro a interrogatorio dall’apposita Commissione insediata presso il Distretto Miliare di Oristano e incaricata di valutare il comportamento dei soldati italiani internati dai nazi-fascisti, risultò che non aveva «mai aderito agli inviti fattigli di collaborare coi nazi-fascisti» e che fu «addetto ai lavori coatti, senza aderire al lavoro volontario, limitandosi ad ubbidire passivamente agli ordini che, quale prigioniero, riceveva»[31].

Analoga all’esperienza di Raffaele Meloni fu quella del sergente maggiore del Genio Salvatore Fois, che, ottantenne, partecipava convintamente alle iniziative finalizzate a rendere testimonianza ai giovani delle scuole della Sardegna delle sofferenze subite nei Lager nazisti insieme a deportati di ogni genere: prigionieri di guerra, prigionieri politici, ebrei, omosessuali, rom e in genere appartenenti a presunte ”razze inferiori”. L’intervista sulla sua esperienza di internato è stata pubblicata nel volume Storia e Memoria, realizzato da una rete di scuole di Nuoro nel 2007.[32] A differenze di Rafaele Meloni, Salvatore Fois appare più “politicizzato” in quanto ha seguito fin da bambino tutte le tappe del curricolo formativo del regime fascista: balilla, giovane fascista, avanguardista. Desideroso di evadere dall’angusto ambiente agro-pastorale di Bolotana, a 18 anni si arruolò volontario nell’Esercito. Assegnato alla Divisione “Lombardia”, Compagnia del Genio Artieri, operò prevalentemente nell’Istria allora italiana. Con l’invasione della Jusgoslavia da parte delle truppe nazi-fasciste, prese parte alla guerra nel paese balcanico, dove combatté soprattutto contro le forze partigiane del generale Tito, che resistettero fin dalla prima ora agli invasori italo-tedeschi. Al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943, dietro la falsa promessa di poter rientrare in Sardegna, si preparò per il viaggio di ritorno con circa 300 commilitoni sardi, con l’obiettivo di raggiungere un porto d’imbarco per l’isola. Poco prima della partenza il drappello dei sardi fu fermato dai tedeschi e costretto a consegnare le armi. Dopo qualche giorno, egli racconta, «fummo caricati su un treno e venimmo portati in Germania»[33]; nella settimana successiva furono internati nel campo di concentramento di Stargard, non lontano da Stettino, nella Pomerania occidentale. Dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e la costituzione della Repubblica di Salò, ufficiali italiani cercarono di convincere gli internati ad arruolarsi, ma su 5.000 prigionieri raccolsero l’invito solo una trentina. Adibito ai lavori agricoli, per le sue competenze Salvatore Fois fu anche utilizzato sul fiume Oder per la costruzione di canalizzazioni per l’irrigazione. Il cibo si riduceva a un solo pasto al giorno consistente in una fetta di pane e un po’ di margarina. Con l’arrivo dell’Armata Rossa nel maggio 1945, i prigionieri furono liberati. Nel viaggio di ritorno, dopo un’operazione chirurgica d’urgenza, fu trasferito nel campo di concentramento appena liberato dagli Alleati di Bergen Belsen, nella Bassa Sassonia, dov’era morta una celebre vittima della Shoah: Anna Frank. Al rientro in Italia si arruolò nel Corpo degli Agenti di Custodia, dove raggiunse il grado di maresciallo[34].

Ancora più avventurosa è stata l’esperienza di Francesco Antonio Ortu, uno degli ultimi superstiti della Divisione “Acqui”, scomparso nell’ottobre 2013, dopo che negli anni recenti aveva accettato di fungere da “testimone” degli orrori della guerra e delle sofferenze patite nei campi di concentramento nelle scuole del centro-Sardegna e in pubbliche assemblee insieme con Nico Motzo e Salvatore Fois[35]. La prima “testimonianza” di tiu Franziscu Ortu è stata raccolta dalla prof.ssa Pierina Serra, docente di Lettere nella Scuola Media “B. R. Motzo” di Bolotana, nell’anno scolastico 1999-2000, nell’ambito del programma di Storia della classe 3a A[36]. Nato nel 1919, era stato chiamato alle armi nel 1939, inquadrato nel 17° Reggimento Fanteria della Divisione “Acqui”. Dopo aver preso parte alla guerra sul fonte occidentale nel giugno 1940, nel dicembre dello stesso anno la Divisone “Acqui” fu trasportata a Valona e quindi schierata a sud del fronte greco-albanese, presso le coste dell’Adriatico. Con la penetrazione italo-tedesca in territorio greco nell’aprile 1941, la Divisione fu assegnata al presidio dell’isola di Cefalonia fino all’8 settembre 1943, quando l’intero reparto rifiutò di cedere le armi ai tedeschi, contro i quali ingaggiò una lunga e coraggiosa resistenza fino al 22 settembre. Nonostante la resa, la terribile rappresaglia di cui si macchiarono le truppe tedesche nei confronti della Divisione “Acqui” è universalmente nota. Molto toccante, nella sua disadorna semplicità, è il racconto di questo momento drammatico fatto dal fante Francesco Ortu:

 

I tedeschi ci hanno detto di cedere le armi, ma non abbiamo voluto e abbiamo risposto che le cediamo quando andiamo in Italia. Noi non eravamo in comunicazione con nessuno, con nessuno. Siamo rimasti da soli a Cefalonia, da soli. La Divisione era costituita forse da 11 mila uomini. Eravamo in trattativa con i tedeschi e loro hanno disarmato i greci, hanno chiuso tutto, erano diventati più forti di noi, hanno distrutto la nostra contraerea, il 22 settembre c’è stata la resa di tutta l’isola. Ci hanno riunito nella caserma “Mussolini”, così detta, non ci stavamo tutti e allora ci hanno messo nel quartiere civile dove sono capitato io. Ci siamo chiesti come mai, nonostante la resa, sull’isola si sentivano ancora spari. Quando i tedeschi ci hanno fatto prigionieri non si è visto niente, neppure acqua, non solo da mangiare, ma neanche acqua. Dopo tre giorni ci hanno dato una galletta militare a testa e una scatola di carne in due, e ci hanno portato anche l’acqua. In quanto a quelle raffiche di mitraglia che si sentivano, abbiamo capito dopo di che cosa si trattava. È passata un’autocarretta carica di ufficiali; un nostro compagno napoletano ne ha riconosciuto uno e gli ha chiesto dove li portavano. “Se voi avete la fortuna di andare in Italia, a noi ci portano al macello”, ha risposto il tenente. I tedeschi fucilavano i prigionieri, prima è stato fucilato il generale Gandin, poi tutto il seguito. Li portavano alla “casetta rossa”, poco al di sopra di dove eravamo noi. Dopo pochi giorni ci mettono in nave; dopo la partenza, a distanza di appena qualche km dal porto di Argustoli, che era il capoluogo di Cefalonia, la nave è stata danneggiata da una mina, perciò è andata a fondo. Ci siamo potuti salvare ritornando sulla costa a nuoto»[37].

 

Dopo il rifiuto opposto dai sopravvissuti di combattere in Grecia a fianco dei tedeschi, i prigionieri, attraverso Patrasso, Atene, Salonicco, la Bulgaria e Varsavia, nel dicembre 1943 furono catapultati sul fronte russo, a Minsk, nella Bielorussia, dove i tedeschi erano impegnati nella guerra contro l’Unione sovietica. I prigionieri furono utilizzati, insieme alle donne russe, a scavare trincee nottetempo e «a fare i camminamenti nella terra gelata».[38] Con la rotta dei tedeschi nel giugno 1944, i prigionieri tentarono la fuga, ma furono intercettati dai partigiani russi e consegnati all’Armata Rossa e portati a Vilnius, in Lituania. «Era il mese di agosto – continua il suo racconto Francesco Ortu -. Da Vilnius ci hanno portato a Tambov, a sud-est di Mosca»[39]. Qui i prigionieri italiani, 25 in tutto, furono utilizzati nei lavori agricoli e nella raccolta delle patate in un kolkoz fino all’aprile 1945, in condizioni di denutrizione tali da essere costretti di nascosto a contendere le patate ai porci. Francesco Ortu era arrivato a pesare 35 chili!

Con l’aprile 1945, mentre per i prigionieri internati nei Lager tedeschi giungeva il sospirato rientro in Italia, l’odissea di Francesco Ortu e dei compagni caduti in mano ai russi continuava. In quel mese, infatti, furono trasferiti «a Tashkent nell’Uzbekistan, al confine con la Cina»[40] per lavorare nei campi di cotone. Riportati a Varsavia, furono accolti da famiglie polacche, che li adibirono al taglio della legna e li sfamarono. Giunti fortunosamente a Praga, furono presi in consegna dalla Croce Rossa e rimpatriati. Francesco Ortu rientrava a Bolotana solo nel 1946. «Mia mamma – egli racconta – portava già il lutto per me»[41].

La vicenda di Raimondo Uda, insegnante elementare conosciuto da quelli della generazione di chi scrive come Mastru Uda, che ha operato nelle Isole dell’Egeo, è tra tutte la più singolare. Giustamente il sito web sulla storia antica e moderna del Dodecaneso, da cui desumo in parte le notizie che lo interessano, intitola il paragrafo dedicato a lui e ad altri sei commilitoni Gli strani casi dell’8 settembre[42]. Nato a Bolotana il 10 marzo 1917 da Giuseppe Salvatore e Maria Tomasa Corrias, dopo aver conseguito il diploma magistrale, partì sotto le armi essendo stato dichiarato abile arruolato alla visita di leva il 24 settembre 1937. Avendo presentato domanda per essere arruolato nella Regia Aeronautica Militare, vi fu ammesso in qualità di «Aviere Allievo Ufficiale Pilota» il 28 dicembre 1938. Grazie al Libretto personale di volo messoci a disposizione dai familiari,[43] è possibile ripercorrere il periodo di addestramento e di formazione per il conseguimento dei brevetti aeronautici nonché la breve esperienza di pilota. Il Libretto personale di volo, secondo quanto recano i tre articoli inziali delle Prescrizioni, è il documento più importante degli allievi-pilota e dei piloti, di cui vengono indicati, insieme alle generalità del titolare, i tempi di volo effettuati, il mezzo pilotato, l’altezza dal suolo, le località di partenza e di arrivo, le finalità del volo stesso. Esso è visionato mensilmente dall’autorità superiore, che vi appone le osservazioni opportune; semestralmente vengono calcolate e convalidate le ore complessive di volo.

L’avventura nell’Arma dell’Aeronautica del quasi ventunenne «Allievo Ufficiale Pilota» Raimondo Uda ha inizio il 20 gennaio 1939 presso la Scuola di Volo di Puntisella, nella penisola d’Istria, a circa 10 Km da Pola, territorio che alla fine della I Guerra Mondiale era stato assegnato all’Italia ed è oggi situato in gran parte nella Repubblica di Croazia. Già idroscalo per idrovolanti sul Mare Adriatico sotto l’impero Austro-Ungarico, durante il ventennio fascista Puntisella (oggi in croato Puntizela) ospitò la Scuola Centrale per Idrovolanti della Marina Militare. Nel 1931 vi venne costituito il 30° Stormo di Bombardamento Marittimo, divenuto poi, nel 1936, anche di Bombardamento Terrestre. Dopo il primo periodo di addestramento a Puntisella, Raimondo Uda fu trasferito, nel giugno 1939, alla Scuola di Volo di Portorose, nella parte settentrionale della penisola d’Istria, a 25 Km. a sud di Trieste, oggi in territorio della Repubblica di Slovenia, dove, nel settembre dello stesso anno, conseguì il brevetto di «Pilota di Aeroplano» dopo aver effettuato 32,05 ore di volo a quote comprese tra i 300 e i 1500 metri di altezza. Tra il 7 ottobre e il 7 novembre 1939 frequentava la Scuola di Volo di 1° Periodo e conseguì il brevetto di «Pilota Militare» con Regio Decreto N. 2074 del 20 novembre 1939 dopo aver effettuato un totale di 55,30 ore di volo a quote comprese tra i 200 e i 1500 metri. Conseguito il brevetto il Sottotenente Pilota Raimondo Uda fu assegnato alla 185a Squadriglia R. M. L. (Ricognizione Marittima Lontana) di stanza nell’isola di Lero, nella Colonia Italiana del Dodecaneso.

È noto che le isole Sporadi Meridionali o Dodecaneso, di cui la principale è l’isola di Rodi,[44] nel 1912, a seguito della Guerra Italo-Turca conclusasi con l’occupazione della Libia, furono assegnate con la Pace di Losanna (12 ottobre 1912) al Regno d’Italia. Nel 1921 questo possedimento coloniale venne denominato ufficialmente Isole Italiane dell’Egeo con capitale Rodi. La popolazione del possedimento delle Isole egee, secondo l’ultimo censimento del 1936, superava di poco i 140.000 abitanti. Il territorio era amministrato da un Governatore, il primo dei quali fu il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (1884-1959), cui si avvicendò nel 1940 il Maresciallo d’Italia Ettore Bastico (1876-1972). Nell’isola di Lero, una delle più settentrionali dell’Arcipelago, poco distante dalle coste della Turchia e posta in mezzo tra le isole di Patmos a nord e di Calimno a sud, la Colonia Italiana del Dodecaneso aveva la più importante Base navale del Mediterraneo Orientale. In tale Base, situata sulla costa occidentale dell’isola, in un’insenatura naturale molto protetta e suggestiva, sorgeva la cittadina di Lakki, che Mussolini ribattezzò Portolago, che fu interamente ricostruita dal fascismo secondo i canoni dell’architettura del “Littorio” che la rende simile anche oggi molto simile alla nostra città laziale di Sabaudia. In appoggio al Comando Militare Marittimo delle Isole Italiane dell’Egeo operava nella Base navale di Lero la 185a Squadriglia dell’84° Gruppo Idrovolanti R. M. L. Inquadrato nella 185a Squadriglia, Raimondo Uda raggiunse Lero nel gennaio 1940. Non essendo l’Italia ancora entrata in guerra, il servizio da lui prestato fino al 10 giugno 1940 ebbe prevalentemente funzione di ricognizione, compito affidato alle Squadriglie aeree dell’Aviazione della Marina.[45] Il velivolo da lui pilotato era un CANT Z. 501 “Gabbiano”, idrovolante usato dall’Aeronautica italiana a partire dal 1934 con compiti di ricognizione, salvataggio in mare e bombardamento. L’idrovolante, il cui equipaggio era costituito da 4/5 uomini, era un monomotore a scafo centrale, con l’ala alta, di 14 m. di lunghezza, 4,40 di altezza e 22 m. di apertura alare. Il velivolo poteva raggiungere la velocità massima di 276 Km orari, aveva un’autonomia di 2400 Km., era dotato di una o due postazioni per mitragliatrici, una nella parte inferiore e una nella parte superiore adiacente alla cabina di pilotaggio posizionata centralmente; per il bombardamento poteva trasportare fino a quattro bombe di 160 Kg. Il velivolo fu in dotazione della nostra Aeronautica durante tutta la seconda guerra mondiale e dopo l’8 settembre 1943 fu utilizzato sia dalle truppe della Repubblica di Salò che dall’Aeronautica Italiana Cobelligerante con le Forze Alleate; nel dopoguerra fu utilizzato fino al 1950, anno in cui fu dismesso.

Come si desume dal Libretto personale di volo, tra gennaio e febbraio 1940 il sottotenente Uda effettuò 12 voli per un totale di 15,25 minuti ad una quota tra tra i 200 e i 1500 metri, con compiti diversificati all’interno dell’equipaggio del CANT Z. 501, ora di pilota, ora di bombardiere, ora di addetto alle mitragliatrici, ora di controllore degli strumenti di volo. A partire dalla metà di giugno, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra, effettuò, oltre a voli di ricognizione, anche «voli di guerra» per un totale di 5,30 ore. In tutto il primo semestre 1940 risulta aver maturato in tutto 61,25 ore di volo, come attestato dal capitano Pietro Nicola Cauchich, comandante della 185a Squadriglia R.M.L. Nel mese di luglio 1940 risulta che il pilota Uda ha effettuato cinque voli di esplorazione tra i 500 e i 1500 metri di quota.

L’ultimo volo di ricognizione, che durò 150 minuti dalle ore 12,25 alle 1455, fu da lui effettuato il 30 luglio 1940, quando fu costretto ad ammarare per avaria al motore nell’isolotto greco di Cerignotto, a sud del Peloponneso, a circa 600 Km di distanza dalla Base di Lero. Cerignotto o Anticìtera è una minuscola isola appartenente alla Grecia, che deve il suo secondo nome al fatto che è situata di fronte all’isola di Citera ed è posta tra quest’isola a nord e Creta a sud ed ha una superficie di 2,43 KM2; oggi vi risiedono stabilmente circa 50 abitanti, ma anticamente dovette avere una popolazione più consistente, attorno ai mille abitanti, come testimoniano gli edifici moderni rimasti, tra cui sei chiese e il piccolo porto di Xeropotamos nella baia omonima.

Costretto ad ammarare in acque territoriali della Grecia, sebbene l’Italia in quel momento non avesse ancora dichiarato guerra al Paese ellenico, il Sottotenente Raimondo Uda fu arrestato dalla gendarmeria greca e condotto ad Atene in attesa di essere rimpatriato. Con l’inizio delle ostilità dell’Italia contro la Grecia il 28 ottobre 1940, fu dichiarato prigioniero di guerra. È davvero singolare la circostanza che nell’arco di tre mesi, dall’agosto all’ottobre 1940, l’ambasciatore italiano ad Atene non si sia occupato del pilota italiano e, com’è da presumere, dell’equipaggio dell’idrovolante. Dopo la fine di ottobre 1940 la situazione di Raimondo Uda cambiò radicalmente, essendo divenuto prigioniero di guerra. Iniziavano i mesi della strenua difesa del popolo greco dall’aggressione fascista, che si risolse, come abbiamo visto, solo nell’aprile 1941 con l’avanzata delle truppe tedesche. Poco prima dell’ingresso delle truppe tedesche ad Atene il 27 aprile 1941, il Sottotenente Uda fu consegnato dai Greci alle truppe inglesi. Come mai? La ragione va ricercata negli agli avvenimenti del fronte di guerra ellenico tra gennaio e aprile 1941.

Alla fine di gennaio 1941, dopo la morte del dittatore Ioannis Metaxas, gli succedette come Primo Ministro l’ex governatore della Banca di Grecia Alexandros Korizis (1885-1941), il quale avviò trattative con il governo inglese che aveva interesse a mandare un corpo di spedizione in Grecia con lo scopo di arginare l’imminente avanzata tedesca nei Balcani. Nei disegni di Churchill l’Inghilterra, oltre a offrire un valido aiuto alla Grecia alle prese con l’aggressione da parte dell’esercito italiano, avrebbe anche potuto avere a disposizione le basi aeree e i porti greci, in particolare quello di Salonicco, testa di ponte importante per la penetrazione nella Romania meridionale, ricca di pozzi petroliferi nella pianura di Ploiesti. Fu siglato l’accordo tra l’Inghilterra e la Grecia ed ebbe così inizio la cosiddetta Operazione Lustre, che portò all’invio in Grecia dal Fronte orientale di un contingente di oltre 60.000 uomini, costituiti, oltre che da truppe inglesi, anche da truppe australiane, neozelandesi e polacche. L’operazione comportò in seno allo Stato Maggiore britannico una vivace opposizione da parte di alcuni generali perché essa sottraeva forze consistenti al Comando Alleato nel Medio Oriente, che aveva il suo Quartier Generale ad Alessandria d’Egitto, nel momento in cui si doveva fronteggiare nell’Africa settentrionale la spedizione tedesca dell’Afrika Korps sotto il comando del generale Erwin Rommel. Il contingente alleato, che fu schierato in Grecia sotto il comando del generale H. M. Wilson per le truppe inglesi e dei generali Thomas Blamey per le truppe australiane e Bernard Freyberg per quelle neozelandesi, non fu in grado di arrestare l’avanzata delle truppe naziste e nel mese di aprile fu costretto ad abbandonare le Grecia e a riposizionarsi nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Quando l’avanzata tedesca e italiana aveva ormai vinto la resistenza greca e alleata, il Primo Ministro greco Karazis, il 18 aprile 1941, si suicidò. Nell’immediato si ebbe un momento di scompiglio in seno al governo greco prima dell’insediamento di un governo collaborazionista guidato dal generale Georgios Tsolakoglu. È in questo contesto che riteniamo debba essere inquadrato il trasferimento in Egitto dell’ufficiale pilota Raimondo Uda, al seguito del contingente di Truppe Alleate australiane al comando del generale Blamey e del suo successivo invio nel successivo mese di agosto 1941 nel campo di prigionia 5 B di Myrtleford in Australia.

Il piccolo centro di Myrtleford nel Nuovo Continente fa parte dello Stato di Victoria, nel sud-est del Paese, ed è situato a nord-est di Melbourne, la capitale dello Stato, ad una distanza da essa di 274 Km e a 46 Km da Wangaratta nella Contea Alpina. La piccola località, che conta oggi poco più di 3000 abitanti, è stata sempre ad economia prevalentemente agricola, è ricca di allevamenti di bestiame e di legname e vi si è praticata a lungo la coltivazione del tabacco. Negli anni Quaranta del Novecento, come oggi, aveva un’alta percentuale di abitanti di origine italiana. Come tutti i prigionieri di guerra ivi destinati, Raimondo Uda lavorò per oltre quattro anni, dal 1941 al 1945, nelle attività agricole di Myrtleford e conservò, una volta rientrato in paese, una particolare passione per tale genere di attività. Com’era avvenuto per i mesi da lui trascorsi in mano alla gendarmeria greca, anche in Australia il governo italiano sembrava essersi dimenticato di lui. Solo grazie alle pressioni dei familiari e a una sua accorata lettera al Ministro della Guerra del luglio 1945 poté rientrare in Italia il 18 ottobre 1945. Aveva sofferto più di cinque anni di prigionia per una guerra che in pratica non aveva combattuto! Cinque anni dopo il rientro nel paese natale ha sposato, il 1° settembre 1952, Vittorina Scarpa e si è sempre dedicato all’insegnamento elementare e alla cura del patrimonio di famiglia. È deceduto a Bolotana il 13 giugno 1979.

Anche le persone che abbiamo voluto ricordare in quest’ultimo paragrafo della nostra narrazione, al rientro in Italia hanno ripreso, ciascuno nell’ambito proprio, la vita di ogni giorno. Molti di essi, come Raffaele Melone, Bachiseddu Mimmi, Franziscu Ortu, al pari di Nico Motzo, dopo le perigliose vicissitudini della guerra, hanno ripreso, nella piccola comunità di Bolotana, la loro attività tradizionale come pastori e contadini, secondo la tradizione familiare, con semplicità e dedizione. È stato acutamente detto: “Guai al paese che ha bisogni di eroi”. Siamo convinti che gli “eroi”, quelli veri, sono tutte le persone, “speciali” e al tempo stesso “normali”, di cui abbiamo illustrato brevemente le vicende in questa narrazione. La Storia si alimenta non con le gesta degli eroi, di cui in molti casi si può fare a meno, ma soprattutto con la vita semplice e operosa delle persone comuni.


[1] Cfr. P. Corrias, Il marinaio che non si arrese ai tedeschi, in “La Nuova Sardegna” del 20 dicembre 2005. Dario Porcheddu nel citato volume I Sardi nella Resistenza, ricorda, tra i militari italiani che fecero parte della Resistenza greca: Antonio Perseu di Monserrato, che si unì ai partigiano dell’E.L.A.S. (cfr. D. Porcheddu, I Sardi nella Resistenza, cit., p. 260); Giovanni Zoccheddu, che operò con le bande partigiane nei pressi di Volos e nelle montagne del Pelio (ivi, p. 261); Giovanni Monti, sottotenente del 5° Battaglione mobilitato della Guardia di Finanza, che offrì con tutto il suo plotone la sua collaborazione ai partigiani dell’E.E.L.S. quando si trovava nel nord del Peloponneso, ma tale collaborazione venne rifiutata (ivi, p. 266); Antonio Pintus di Nulvi, unitosi anch’egli alla Resistenza a Volos (cfr. ibidem); e ancora Silvio Tessi di Uta, Aurelio Scanu di Onanì, Sisinnio Murtinu di Gonnesa (cfr. ivi, pp. 266-267).

[2] Cfr. F. Sedda, A lezione con i reduci di guerra, in «La Nuova Sardegna», 13 marzo 2011.

[3] Devo le informazioni a Stefano Motzo, figlio di Giovanni Antonio, e ai cugini Giambattista e Brunella, che ringrazio.

[4] Ringrazio per le notizie su zio Bachiseddhu mio cugino Isidoro Mimmi.

[5] Di questo periodo la famiglia conserva alcune fotografie e una lettera alla famiglia scritta nel Natale 1939.

[6] Archivio dell’Ufficio di Stato Civile del Comune di Bolotana, Copia dell’Atto di morte del fante Careddu Francesco, redatto in data 10 giugno 1942 dal Sottotenente F. Veneziano, testimoni il Tenente Medicio Vito Messina e il Tenente Cappellano Gaetano Cocci Grifone.

[7] Ringrazio i nipoti Lina e Raffaele Careddu, che hanno fornito le notizie e la documentazione in possesso dei familiari. Il testo completo della pergamena recante l’assegnazione dell’onorificenza della Medaglia di Bronzo è il seguente: «Ministero della Guerra / Umberto di Savoia Principe di Piemonte / Luogotenente Generale del Regno, con suo Decreto in data 22 febbraio 1945 / Visto il R. D. 4 novembre 1932 n. 1423 e successive modifiche / Visto il R. D. 23 ottobre 1942 n. 1195 / Sulla proposta del Ministro Segretario di Stato per gli Affari della Guerra / Ha conferito la / Medaglia di Bronzo al Valor Militare / coll’annesso soprassoldo di Lire Trecento annuo / al Fante del 260° Rgt Fanteria alla memoria / Careddu Francesco di Raffaele da Bolotana (Nuoro) [segue la motivazione e la data riportate nel testo] – Il Ministro Segretario di Stato per gli Affari della Guerra rilascia quindi il presente documento quale attestato del conferimento onorifico distintivo».

[8] Archivio dell’Ufficio di Stato Civile del Comune di Bolotana, Copia dell’Atto di morte del fante Careddu Francesco, cit.

[9] Ringrazio Giovanni Nieddu, nipote materno di Giovanni Antonio Longu, per avermi fornito la notizia relativa al suo parente.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. ibidem.

[12] Cfr. D. Costeri, La guerra e le sue distruzioni 1940-1945. Amaro ricordo di un ex combattente, Bolotana, Grafica Mediterranea Editrice s.r.l., 1998.

[13] Devo le notizie particolareggiate al nipote di Giovanni Maria Longu, maresciallo Salvatore Longu, residente a Usmate Velate, provincia di Monza, che ringrazio sentitamente.

[14] Distretto Militare di Oristano, Foglio Matricolare di Angioy Giuseppe Salvatore, N. 6054, classe 1920. Ringrazio La figlia Maria Cristina e il nipote Dario Cosseddu per avermi favorito il Foglio matricolare.

[15] Ringrazio gli insegnanti Salvatore Pedde, Angela Maria Ortu e Pierina Serra che hanno effettuato l’intervista.

[16] Ringrazio le sorelle Rosa e Tonia Longu per le notizie fornite sul loro congiunto.

[17] Cfr. Meloni Rafaele. Notizie desunte dal Foglio matricolare e Intervista, a cura della prof.ssa M. Antonietta Meloni, dattiloscritto in nostro possesso. Ricordiamo sempre con affetto la prof.ssa Meloni che ci mise a disposizione il materiale da lei gelosamente custodito.

[18] Ivi, p. 3.

[19] Ivi p. 4.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22] Cfr. ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p. 1.

[26] Ivi, p. 4.

[27] Ibidem.

[28] Ibidem.

[29] Ivi, p. 5.

[30] Ibidem.

[31] Cfr. ivi, p. 1.

[32] Cfr. Storia e Memoria. Anno III. Un esperimento di didattica della storia, Nuoro, Studio e Stampa, 2007. L’iniziativa è stata promossa dalle seguenti scuole di Nuoro: Liceo Scientifico “Fermi”, Scuola Media N. 1, Scuola Media N. 2, Scuola Media N. 4, Scuola Elementare I Circolo, Scuola Elementare III Circolo, con la partecipazione dell’Istituto Professionale per i Servizi Sociali “G. Galilei” di Oristano e dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Commerciali e Turistici “Giovanni XXIII” di Sassari.

[33] Ivi, p. 183.

[34] Cfr. F. Sedda, Addio a Salvatore Fois, prigioniero B770, in «La Nuova Sardegna», 9 marzo 2012.

[35] Cfr. F. Sedda, A lezione con i reduci di guerra, cit.; Idem, Un sopravvissuto di Cefalonia incontra i ragazzi, in «La Nuova Sardegna», 24 gennaio 2008; Idem, Oggi l’ultimo saluto a Francesco Ortu soldato di Cefalonia, ivi, 2 ottobre 2013.

[36] Cfr. Ortu Francesco. Una testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, a cura della prof.ssa Pierina Serra, dattiloscritto in nostro possesso. Ringraziamo la prof.ssa Serra per averci messo a disposizione l’intervista.

[37] Ivi, pp. 2-3.

[38] Ivi, p. 4.

[39] Ibidem.

[40] Ivi, p. 5.

[41] Ivi, p. 6. L’esperienza di Francesco Ortu, raccontata da lui stesso, fa parte di una delle 25 video-interviste di ex internati nei campi di concentramento nazisti, pubblicate da Graziano Canu nel documentario Gli ultimi testimoni. Sardi nella seconda guerra mondiale (riprese e montaggio di Renzo Gualà, progetto grafico di Giovanni Cadinu, musiche originali di Daniele Barbato, voce narrante Gianni Cossu, DVD edito da Radio Barbagia.

[42] Cfr. Gli strani casi dell’8 settembre, in www.Dodecaneso.org/stranieri.htm, sito web dedicato a Dodecaneso – Il sito sulla storia antica e moderna delle isole dell’Egeo. Colgo l’occasione per ringraziare l’amico Italo Bussa, nipote di Raimondo Uda, per le informazioni fornitemi sullo zio.

[43] Libretto personale di volo di Uda Raimondo, Puntisella – Lero, 1939-1940, Ministero della R. Aeronautica. Ringrazio le figlie Graziella, Marilena e Giuseppina per avermi fornito la documentazione.

[44] L’isola di Rodi era appartenuta, tra il XIV e il XVI secolo, all’Ordine dei Cavalieri di Rodi; dal 1522 fu sotto il dominio dell’Impero ottomano, che la mantenne fino al 1912, quando fu assegnata all’Italia.

[45] I Gruppi di Idrovolanti di Ricognizione Marittima del nostro Esercito che operarono nell’Alto e Basso Adriatico e nello Jonio furono in questo periodo furono in tutto quattro, con 9 squadriglie: l’82° (squadriglie 139a e 184a), l’83° (squadriglie 180a,163a), l’84° (squadriglie 147a, 185a), l’85° (squadriglie 146a, 183a, 188 a).

 

 

 

 

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