Carlo Careddu, partigiano combattente nell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo tra Montenegro, Serbia e Bosnia Erzegovina (8 settembre 1943-18 marzo 1944). di Luciano Carta

“Andartes”. Pro chi non morzat sa memoria. Ammentandhe sos “eroes”mannos e minores de domo nostra (SESTA PUNTATA, continua).

Insieme alla vicenda di Nico Motzo, tra i Bolotanesi che hanno partecipato al Secondo Conflitto Mondiale riveste un particolare interesse quella di Carlo Careddu.

Carlo Careddu, nato a Bolotana il 7 aprile 1919 da Antonio e da Salaris Antonia. Come si rileva dal Foglio Matricolare e caratteristico[1], egli fu sottoposto alla visita di leva insieme ai coscritti della casse 1918 nel maggio 1938 e fu chiamato alle armi l’anno successivo, il 4 aprile 1939, contemporaneamente al compaesano Bachisio Antonio Longu, di cui si dirà in seguito. Fu arruolato nel 5° Reggimento Bersaglieri di stanza a Genova[2]. Nel corso di quest’anno trascorso nel corpo dei Bersaglieri beneficiò di una licenza di convalescenza di 30 giorni a partire dall’11 agosto 1939 e rientrò al reparto il 9 settembre successivo[3]. Dopo un anno trascorso tra i Bersaglieri, il 1° maggio 1940 entrò a far parte della Guardia di Finanza «per passaggio dal Regio Esercito»[4] e frequentò il corso per diventare Guardia nella Legione Allievi di Roma fino al novembre 1940.  Promosso Guardia di Terra, dal 1° novembre 1940 fu destinato alla Legione Territoriale di Trento. Per due anni prestò servizio nel Trentino prima nella Tenenza di Cles fino al marzo 1942, poi a Bolzano fino al mese di dicembre di quell’anno, successivamente a Colle Isarco come guardia di confine al Brennero, quindi nuovamente a Bolzano fino all’aprile 1943. Nel giugno 1943, dopo che in data 1° maggio aveva ottenuto la rafferma triennale, fu destinato a Firenze presso la Legione Mobilitata della Guardia di Finanza. Poco dopo veniva inquadrato nel 6° Reggimento Mobilitato, che il 29 giugno per via terra varcava il confine italiano a Postumia, nella Slovenia, con destinazione Montenegro a presidio dei territori occupati dall’Esercito Italiano nel 1941[5].  Da questo momento, ci informa il Foglio matricolare, «ha partecipato dal 29 giugno 1943 all’8 settembre 1943 alle operazioni di guerra svoltesi in Balcania nel 6° Reggimento Mobilitato della Guardia di Finanza»[6]. Lo stesso documento riporta, infine, oltre alle cosiddette note caratteristiche sulla persona, anche le sanzioni disciplinari irrogategli dai superiori tra il 1940 e il 1942. Relativamente alla morte il suddetto documento riporta testualmente: «Dichiarato disperso dopo l’8 settembre 1943 come da verbale di irreperibilità redatto il 5 novembre 1947 N. 108398 del 4 dicembre 1947»[7]. Tale verbale è allegato in originale e in copia al fascicolo personale del Disperso, insieme alla pratica di sussidio inoltrata dalla famiglia al Ministero della Difesa-Esercito nel luglio 1949. La sua vicenda di partigiano nelle file della Resistenza jugoslava siamo in grado di ricostruirla attraverso documentazione storiografica[8] e il racconto datone dal commilitone Dario Porcheddu nei due volumi da lui dedicati alla rievocazione autobiografica della sua esperienza di combattente e partigiano sul fronte slavo e ai Sardi nella Resistenza[9].

Carlo Careddu è l’unico tra i partecipanti bolotanesi alla Seconda Guerra Mondiale la cui esperienza sia assimilabile a quella di Nico Motzo. Sulla scorta del racconto offerto da Dario Porcheddu, Carlo Careddu fu uno di tanti soldati dei diversi Corpi del nostro Esercito che all’atto dell’armistizio fece una scelta coraggiosa, rifiutando di farsi disarmare dai tedeschi. Per questo la sua vicenda merita un’attenzione particolare[10].

Come abbiamo accennato sopra, il 6 aprile 1941 gli eserciti tedesco e italiano invasero la Jugoslavia e attorno alla metà del mese tutto il territorio dell’ex regno balcanico cadde in mano alle potenze dell’Asse. Il territorio del composito Regno della Jugoslavia tra le due guerre, sotto la corona della dinastia serba dei Karageorgevic, era amplissimo in quanto si estendeva dalla Slovenia a nord alla Macedonia a sud, inglobando, oltre alle due suddette regioni, la Croazia, la Bosnia, l’Erzegovina, il Montenegro e la Serbia. Esso ad occupazione avvenuta venne spartito tra le potenze vincitrici, mentre in una parte cospicua dei territori vennero creati dei governi collaborazionisti. Infatti, a nord una parte della Slovenia venne annessa al Terzo Reich, mentre il Banato,[11] in cui allora viveva una cospicua popolazione di lingua tedesca, venne occupato militarmente dai nazisti. I’Italia, già in possesso di vasti territori tra l’Istria e la costa dalmata, si annetté: la parte della Slovenia centro-meridionale denominata Provincia di Lubiana, la Croazia nord-occidentale che fu congiunta alla Provincia di Fiume[12]; a sud una parte della Dalmazia e la zona delle Bocche di Cattaro che, assieme a Zara già italiana, andò a costituire il Governatorato della Dalmazia; inoltre il Regno del Montenegro, di cui assunse la corona Vittorio Emanuele III, venne posto sotto il diretto controllo dell’Italia[13]. Infine l’Ungheria occupò la Voivodina occidentale. Nel restante territorio vennero creati i governi collaborazionisti dello Stato Indipendente di Croazia, con capitale Zagabria, che comprendeva una parte cospicua della regione balcanica, governata dal partito fascista croato degli ustascia (nazionalisti croati) sotto la guida di Ante Pavelic[14], e lo Stato Indipendente della Serbia sotto la guida del generale Milan Nedic[15]. In conseguenza del nuovo assetto politico-territoriale dato dai nazi-fascisti a tutto lo scacchiere balcanico, a partire dal 1941 ebbe inizio dovunque un forte movimento di resistenza contro gli occupanti, complicato dalle contrapposizioni etniche, politiche e religiose tra musulmani, ortodossi e cetnici. Questi ultimi, rappresentati dai patrioti nazionalisti e filo-monarchici serbi, fino al 1943 combatterono insieme contro gli invasori e i governi da loro instaurati, insieme alle formazioni partigiane d’ispirazione comunista, di cui la principale fu quella guidata da Josip Broz “Tito” (1892-1980), comandante dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, movimento comunista di Resistenza jugoslava, nel dopoguerra Presidente della Repubblica Socialista Jugoslava e leader dei Paesi non Allineati[16].

Alla confusione dei reparti del nostro Esercito seguita, anche nella zona balcanica, all’annuncio dell’armistizio, nel Montenegro pose tempestivo riparo il Comandante della Divisione “Venezia”, generale piemontese Giovanni Battista Oxilia[17], che diede ordine a tutte le unità italiane di presidio del territorio montenegrino di concentrarsi a Berane, importante centro del nord-est del Montenegro, sede del Comando della Divisione[18].  Tra settembre e ottobre 1943, mentre i tedeschi procedevano all’occupazione militare di tutto il territorio montenegrino, le truppe italiane ivi stanziate furono contese tra i gruppi armati dei cetnici e i partigiani titoisti. Alla fine di ottobre, dopo che il 13 ottobre 1943 il governo italiano di Brindisi aveva dichiarato la guerra contro la Germania, il generale Oxilia siglò un accordo con il comandante partigiano montenegrino Peko Dapcevic, vice del comandante generale delle truppe della Resistenza jugoslava Tito. In virtù di tale accordo la Divisione ”Venezia”, dovendo assolvere ad azioni di guerriglia a disposizione del II Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo (E.P.L.J.), subì una prima ristrutturazione: venne suddivisa in 7 Brigate “Venezia”, unità più agili di combattimento, ciascuna costituita di 1300 uomini. Il VI Battaglione delle Guardie di Finanza, di cui facevano parte i tre amici sardi Dario Porcheddu, Carlo Careddu e Giommaria Marras di Bonorva, fu assegnato alla II Brigata “Venezia”. Da questo momento e fino alla morte in combattimento di Careddu e di Marras nel marzo 1944, i tre amici furono inseparabili[19].  La II Brigata, comandata dal capitano Leonida Bertè, fu impegnata in continue azioni di guerra contro le truppe musulmane e i tedeschi, che cercavano di annientare le truppe italiane. Da Berane la II Brigata «si spostò verso Maturage per poi raggiungere Brodarevo»[20], dove le truppe musulmane avevano bloccato la V Brigata, che venne liberata dopo una cruenta battaglia in cui furono fatti molti prigioniero affidati alle truppe dell’E.P.L.J. Spostatasi le II Brigata, sempre lungo il percorso del Lim, nella fertile vallata di Sijenca, dovette subire una nuova imboscata da parte delle truppe musulmane coadiuvate dalle truppe tedesche, che inflissero notevoli perdite alle truppe italiane, per le quali iniziarono grandi disagi derivanti dallo scoraggiamento e dai grandi disagi dovuti al freddo, alla fame e alle lunghe marce forzate. In seno alle truppe partigiane titoiste, inoltre, si andava profilando un senso di ostilità. Il Comando partigiano decise di ridurre le truppe italiane a tre Brigate combattenti «comandate da ufficiali italiani, ma sotto il controllo di un commissario politico slavo»[21]. Fu in questa fase, durante il mese di novembre 1943, che ai militari italiani stanchi di combattere, fu proposto di lasciare le armi per passare ai battaglioni lavoratori. Molti accettarono la proposta. Nel reparto dei tre amici, solo loro tre non accettarono.

Furono in molti ad accettare – racconta Dario Porcheddu – e a passare nei battaglioni lavoratori: gettarono le armi in un mucchio e si radunarono nel lato opposto dello spiazzo. Restammo soltanto in tre immobili ai nostri posti: io, ed altri due colleghi, Carlo Careddu di Bolotana, e Giommaria Marras di Bonorva, in provincia di Sassari[22].

Il 2 dicembre 1943 il generale Oxilia negoziò con il Comando partigiano una nuova riforma delle truppe italiane della Divisione ”Venezia”. Questa a iniziare da quella data assunse la denominazione di Divisione Partigiana “Garibaldi”, costituita dalla volontaria adesione di diversi contingenti del Regio Esercito Italiano dislocati nel Montenegro[23] e constava di circa 16.000 unità. La 3 Brigate della Divisione, che per richiamarsi a Garibaldi portava il fazzoletto rosso al collo, restarono inquadrate, come autonome unità del Regio Esercito Italiano, nel II Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, sempre sotto il comando di Peko Dapcevic. All’interno di questo Korpus dell’E.P.L.J. la Divisione “Garibaldi” continuò a collaborare attivamente alla lotta contro i nazisti nei Balcani, dando un apporto di grande rilievo alle operazioni militari, apporto peraltro non riconosciuto da parte dei governanti della Repubblica Socialista Jugoslava all’atto della conferenza di Pace di Parigi nel 1947[24].

Dopo questa nuova ristrutturazione i tre amici finanzieri Porcheddu, Careddu e Marras, che avevano voluto rimanere tra le truppe partigiane combattenti che i tedeschi bollavano come “banditi” italiani e di Tito, furono assegnati alla III Brigata “Garibaldi”. Essi nel corso dell’inverno, in condizioni molto difficili, affrontarono nuove battaglie. Gli attacchi, le imboscate, i rastrellamenti, i bombardamenti, le rappresaglie contro le popolazioni civili, divennero sempre rabbiose e frequenti da parte dei nemici in un vasto territorio lungo i centri delle vallate del fiume Lim, tra il Montenegro settentrionale, la Croazia e la Serbia meridionali, «da Brodarev a Berane, da Bijelo Poljie a Zjenica, da Knin e Sarajev, da Karlovac e Pljevljie»[25].

Intanto i rapporti con l’Italia e con il Comando Generale dell’Esercito Regio stabilitosi a Brindisi non erano del tutto interrotti e di tanto in tanto giungevano alle Brigate “Garibaldi” generi di prima necessità. Fu nel corso di uno spostamento della III Brigata da Metalika, località della Serbia dove in genere operava la III Brigata, alla cittadina di Plevljia nel nord-est del Montenegro, per ritirare le nuove divise mandate dall’Italia meridionale che essa fu intercettata dalle forze tedesche dotate di carri armati. Si verificò una vera ecatombe. I tre amici, che trovarono riparo in zone diverse, si salvarono per miracolo. In quella circostanza l’unità combattente perse il Maggiore Piva e il comando della III Brigata fu assunto dal capitano Bertè. Compito specifico di essa, per disposizione dei Comandi dell’ E.P.L.J., durante il mese di dicembre 1943, fu quello di difendere il territorio del Sangiaccato. Qui, presso il Passo Jabuka (Passo delle Mele), la III Brigata conseguì un’importante vittoria contro le truppe dei Cetnici, meritandosi l’elogio dell’E.P.L.J. Gli scontri continuavano inesorabilmente a mietere vittime. Dopo questa battaglia, scrive ancora D. Porcheddu, «la Brigata [che] era nata con 1.300 uomini, dopo quest’ultima battaglia eravamo ridotti in 600. La Guardia di Finanza, da due Battaglioni, era ridotta ad una cinquantina di uomini: una vera strage!»[26].

Nel gennaio 1944, quando la morsa dell’inverno costringeva anche i tedeschi ad allentare la pressione, le forze partigiane pensarono di poter fruire di qualche settimana di tregua. Gli uomini di un contingente della III Brigata furono sistemati, due a due, presso le famiglie del piccolo villaggio montenegrino di Gore-Orlje. Si trattava di una popolazione schierata con i partigiani monarchici cetnici, alleati dei tedeschi, i quali, opportunamente avvisati, tentarono di sorprendere i partigiani. Ci fu un violento scontro e le forze partigiane riuscirono a sventare l’attacco. Al termine dell’evento ebbero encomi e la medaglia d’argento al valor militare per il comandante della Brigata e alcuni altri ufficiali che non avevano partecipato alla battaglia. Essa, infatti, commenta amaramente D. Porcheddu, «non venne diretta da ufficiali, ma portata avanti grazie alla volontà di uomini antifascisti che si opponevano per scelta all’espansionismo tedesco. Anche in quella guerra, come in tutte le guerre, ci furono eroi senza medaglia. Ed altri che ebbero medaglie grazie all’eroismo altrui»[27].

La Brigata da Gore-Orlje fu spostata a Mojkovac, cittadina montenegrina a sud di Pljevlja, dove i soldati furono sistemati alla bell’e meglio in alloggi fortuiti come stalle e ovili. Al rigore dell’inverno s’aggiunsero il tifo, la scabbia e la fame. Come accade in ogni guerra, i “furbi” trovarono il modo, all’interno della stessa Brigata, di profittare delle scarsissime risorse alimentari destinate alla truppa. Alcuni ufficiali, in particolare il sottotenente Ferraro, si appropriavano di una cospicua parte del poco cibo destinato ai militari che, in tempi di “abbondanza”, consisteva in una pecora da dividere tra cinquanta commilitoni, parte della quale veniva trattenuta nella mensa ufficiali. Dario Porcheddu, che ebbe a lamentare il fatto presso il suddetto superiore, non avendo ricevuto risposta adeguata, anzi essendo stato trattato in modo arrogante e becero, e i due amici Carlo Careddu e Giommaria Marras diedero a quel lestofante una dura lezione di vita, costringendolo a mangiare in loro presenza la buccia di poche patate che erano riusciti a reperire in un vicino villaggio insieme a pochi pani d’orzo e sottoponendolo ad una solenne lavata di capo da parte del commissario politico dell’E.P.L.J.[28]. Nella località montenegrina trascorsero i mesi di gennaio e febbraio. Ai primi di marzo per volontà del Comando dell’Esercito Partigiano di Liberazione si ebbe una terza ristrutturazione dei reparti, che coincise con l’avvicendamento al comando delle truppe italiane del generale Lorenzo Vivalda, essendo stato il generale Oxilia richiamato a Brindisi per un incarico di governo nel I gabinetto Bonomi. La III Brigata, che combatteva ora a più stretto contatto con i partigiani titoisti, fu spesso vittoriosamente impegnata in azioni di guerriglia e di sabotaggio anti-tedesche, tanto da meritare parole di elogio dello stesso comandante generale Tito, il quale così si espresse: «Questo è un piccolo reparto, ma è tanto grande perché è formato da truppe più che scelte!»[29].

A fine febbraio la Brigata riprese gli spostamenti, dal confine del Montenegro in direzione del territorio serbo, oggi territorio della Repubblica Federale di Bosnia-Erzegovina, in una situazione di estremo disagio per la rigidità del clima, lo sfinimento dei lunghi trasferimenti, la fame, i continui attacchi dei tedeschi, dei Cetnici e degli Ustascia. La fame era tanto dura che la soldatesca giunse a nutrirsi perfino della carne dell’ultimo mulo adibito al trasporto delle poche masserizie e delle munizioni, che cadde anch’esso sfinito negli impervi tratturi di montagna in mezzo alla neve[30]. A primi di marzo raggiunsero la cittadina bosniaca di Foca dove avevano sperato – ma fu speranza vana – di potersi rifocillare. Continuarono la marcia nelle montagne, per mulattiere impervie, costretti spesso a rifare la strada già percorsa per evitare di imbattersi nelle truppe nemiche, finché a metà del mese poterono sfamarsi a Resetnica, Vranici e altre piccole località bosniache. Le “cicogne” tedesche, piccoli aerei della Luftwaffe volavano a bassa quota per mitragliare i reparti partigiani. Questi furono costretti a nascondersi nei boschi di giorno e a effettuare gli spostamenti nelle ore notturne, con il rischio di congelamento per le lunghe ore diurne in cui erano costretti a stare fermi in mezzo alla neve. Scontri e imboscate si erano fatti più frequenti perché nel territorio serbo di allora, ai tedeschi, ai Cetnici, ai musulmani, si erano aggiunti gli Ustascia e i Dromobrani[31].

La III Brigata, guidata dal comandante Bertè, marciava nella direzione di Sarajevo e fungeva da scorta a un Battaglione di partigiani lavoratori che doveva raggiungere la costa dalmata; a tal fine, dopo aver costeggiato la cittadina di Gorazde,[32] dovevano superare il passaggio obbligato del ponte ferroviario sul fiume Prac[33]. Era il 18 marzo 1944. Trattandosi di una zona esposta e pericolosa, la formazione partigiana procedeva, guardinga e in silenzio, in fila indiana. Il grosso della III Brigata guidata dal capitano Bertè attraversava il ponte ferroviario quando si scatenò l’inferno: i tedeschi e le truppe locali loro alleate, che avevano preceduto il contingente italiano, avevano occupato le posizioni più favorevoli e si erano ben mimetizzati, avevano preparato un micidiale agguato.

Fucili, mitraglie, mortai, bombe a mano – racconta D. Porcheddu – intonarono il loro canto di morte, mentre il piombo pioveva da tutte le parti. La confusione fu indescrivibile e noi della Guardia di Finanza, che operavamo di retroguardia col compito di proteggere il Battaglione di lavoratori in trasferimento verso la costa e di coprire alle spalle la Brigata, fummo tagliati fuori dal grosso della truppa. I morti ed i feriti non si contavano più, e fu proprio in quella circostanza, prima di arrivare a quel maledetto ponte, che caddero Giommaria Marras e Carlo Careddu, compagni di tante battaglie, i miei amici più cari. Fui più fortunato di loro ed, insieme a pochi altri superstiti,  riuscii a mettermi in salvo e a venir fuori da quella battaglia sanguinosa[34].

Il partigiano bolotanese era un bel giovane, robusto, dai lineamenti forti, lo sguardo mite e fiero. Avrebbe compiuto 25 anni il 7 aprile 1944. Dopo l’8 settembre aveva compreso l’inganno, la boria, l’irresponsabilità, la crudeltà dei deliri di potenza dei regimi dittatoriali e aveva scelto di combattere per un mondo libero, cadendo «eroicamente durante un combattimento nel ponte ferroviario sul fiume Prac, lungo la ferrovia che dalla Serbia porta a Sarajevo»[35]. Come lui e con lui sono caduti innumerevoli compagni, eroi senza medaglie, che spesso hanno ricevuto come ricompensa solo il silenzio, che avevano fatto la stessa scelta, consci che il loro sangue e il loro sacrificio, come scrisse l’antico apologeta cristiano Tertulliano, sarebbe stato seme prezioso, seme di libertà e di democrazia[36]. (Continua)


[1] Devo l’acquisizione del documento e di altre carte relative a Carlo Careddu al capitano Gerardo Severino, direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza in Roma, che qui ringrazio.

[2] Di questo periodo i familiari conservano una magnifica fotografia. Ringrazio per le notizie fornitemi la signora Pes Giuseppina e la figlia Cristina Careddu nonché i nipoti di Carlo, Angela e Francesca Careddu.

[3] Cfr. Museo Storico della Guardia di Finanza, Foglio matricolare e caratteristico di Careddu Carlo, p. 1.

[4] Foglio matricolare, cit., p. 2.

[5] Cfr. ivi, pp. 2-4.

[6] Ivi, p. 5.

[7] Ivi, p. 1.

[8] Rimandiamo, in particolare, a P. P. Meccariello, La Guardia di Finanza nella seconda guerra mondale, Roma, Museo Storico della Guardia di Finanza, 1992.

[9] Cfr. D. Porcheddu, Ho baciato la morte (diario di un partigiano), cit.; Idem, I Sardi nella Resistenza, cit. La vicenda di Carlo Careddu è stata fatta conoscere personalmente dal Porcheddu ai fratelli a Bolotana a metà degli anni Novanta, prima della pubblicazione del secondo volume citato. Ringrazio per le notizie fornitemi la signora Pes Giuseppina e la figlia Cristina Careddu nonché le nipoti di Carlo, Angela e Franca Careddu. Un cenno si trova anche nell’articolo di A. Borghesi, G. Vulpes, Andrea Vulpes di Ittiri: un caduto sardo nella Resistenza jugoslava, in «Quaderni Bolotanesi», n. 37, anno XXXVII (2011), Cagliari, Lithosgrafiche, 2011, p. 263, nota 8.

[10] Anche nel sito dell’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini (A. N. V. R. G.), nel link che riporta i caduti, le notizie relative a Carlo Careddu sono inesatte. Egli, infatti, risulta «deceduto il 5 dicembre 1943 a Pljevlia», la cittadina montenegrina in cui operò inizialmente il reparto cui egli apparteneva; è invece corretto il Corpo miliare di appartenenza, ossia la Guardia di Finanza.

[11] Il Banato è una estesa regione storico-geografica dell’Europa centrale che oggi è suddivisa tra Ungheria, Serbia e Romania, la cui capitale storica era Timisoara.

[12] Propriamente il territorio annesso era costituito da parte della Bucovina croata, tra la Croazia e la Bosnia, la cui capitale storica era Banja Luka.

[13] Il piccolo regno montenegrino fu governato da re Nicola I dal 1910 al fino al 1921, quando dovette andare in esilio a seguito dei contrasti nati con la costituzione del Regno serbo-croato-sloveno con re Alessandro I Karageorgevic. Nel 1941, dopo la conquista dell’Albania e della Greci, fu creato il Regno Indipendente del Montenegro, la cui capitale era Cettigne, con un governo fantoccio legato all’Italia fascista. Analogamente all’Albania, la titolarità del regno fu affidata in unione personale a Vittorio Emanuele III, che aveva sposato la regina Elena del Montenegro e che governò in qualità di Reggente. Di fatto il governo venne esercitato da un Governatore italiano e ciò spiega la presenza di numerose truppe di occupazione italiane, tra cui la Guardia di Finanza, cui apparteneva Carlo Careddu e il citato Dario Porcheddu. Tale soluzione comportò l’insorgere di una violenta guerriglia partigiana da parte degli indipendentisti montenegrini, che nel 1943 fecero causa comune con la Resistenza slava guidata dal maresciallo Tito.

[14] Ante Pavelic (1889-1959) fu il fondatore del movimento croato filo-fascista degli ustascia, che governò lo Stato Indipendente di Croazia, comprendente anche la Bosnia e parte della Serbia, dal 1941 al 1945, con ordinamenti statuali modellati su quelli dell’Italia fascista. Il Pavelic, che si fece propugnatore del cattolicesimo integralista, promosse nel nuovo Stato una politica di “pulizia etnica” rivolta contro le numerose comunità ortodosse, musulmane, ebraiche e Rom nonché contro i cetnici (partigiani monarchici serbi), finché questi ultimi non decisero di collaborare con i nazisti, che fece circa 800.000 vittime. Dopo la guerra Pavelic si rifugiò in Austria, a Roma e in Argentina. Fatto bersaglio di un attentato in cui venne gravemente ferito, negli ultimi anni fu accolto da Francisco Franco a Madrid, dove morì.

[15] Milan Nedic (1878-1946), generale serbo, durante l’occupazione nazista fu capo della Stato Indipendente della Serbia tra il 1941 e il 1945. Negli ani del suo governo, in collaborazione con i nazisti combatté contro la Resistenza partigiana comunista e cetnica e fu inflessibile nella persecuzione contro gli Ebrei e i Rom. Rovesciato dalle truppe del Maresciallo Tito nell’ottobre 1944, riparò in Austria, dove fu catturato dagli Inglesi e imprigionato a Belgrado. Mentre era in attesa di processo per crimini di guerra, si suicidò in carcere nel febbraio 1946.

[16] Sulla Resistenza in Jugoslavia e sui diversi reparti del nostro Esercito distribuito nella Penisola Balcanica o su singoli militari italiani, che dopo l’8 settembre ne hanno fatto parte, esiste una nutrita bibliografia. Ricordiamo qui: F. W. D. Deakin, La montagna più alta. L’epopea dell’esercito partigiano jugoslavo, Torino, Einaudi, 1972; G. Scotti, Ventimila caduti: gli Italiani in Jugoslavia dal 1943 al 1945, Milano, Mursia, 1970; P. Juso, Esercito, guerra, nazione: i soldati italiani tra Balcani e Mediterraneo orientale 1940-1945, cit., in particolare il Capitolo primo, L’Adriatico e i Balcani: dall’aggressività all’occupazione, dalla crisi alla Resistenza, pp. 31-100.

[17] Giovanni Battista Oxilia (1887-1953), generale della Guardia di Finanza, nel periodo in esame era comandante della 19a Divisione Fanteria “Venezia” che operava nel Montenegro. Dopo l’8 settembre 1943 rifiutò di sottostare alle imposizioni dei tedeschi e nel successivo mese di ottobre siglò un patto con la Resistenza partigiana titoista, per cui la Divisione ”Venezia” venne ristrutturata, diventando la Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi”, di cui fu capo fino al febbraio 1944, quando fu richiamato in Italia a Brindisi per assumere l’incarico di Sottosegretario al Ministero della Guerra nel I Governo Bonomi; al comando della Divisione “Garibaldi” gli subentrava il generale Lorenzo Vivalda. Nel marzo 1946 fu creato Comandante Generale delle Fiamme Gialle.

[18] Berane è un comune del nord-est del Montenegro, nell’area di Polimlje, in cui oggi vivono 35.000 abitanti, lungo il corso del fiume Lim, principale fiume del Sangiaccato di Novi Pazar, che nel suo percorso di 220 Km, dopo aver attraversato i territori del Montenegro dove nasce, dell’Albania, della Serbia, della Bosnia Erzegovina, confluisce come principale affluente nella Drina nei pressi di Visegrad, cittadina della Bosnia, a 100 Km da Sarajevo.

[19] Cfr. D. Porcheddu, Ho baciato la morte (diario di un partigiano), cit., p. 55.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, p. 58.

[22] Ivi, p. 59.

[23] Sulla Divisione “Garibaldi” cfr. S. Gerso, La divisione italiana partigiana “Garibaldi. Montenegro 1943-1945, Milano, Mursia, 1981. Entrarono a farne parte quanto restava della 19a Divisione Fanteria “Venezia”, la 1a Divisione Alpina “Taurinense”, il Gruppo Artiglieria Alpina “Aosta”, i superstiti della Divisione Fanteria “Emilia” nonché i  contingenti della Guardia di Finanza dislocati nel territorio montenegrino. L’apporto italiano nella lotta contro i nazisti fu cospicuo in termini di vite umane. Quando la Divisione Partigiana “Garibaldi” fece ritorno in Italia nel marzo 1945, dei 16.000 militari di cui era costituita in origine, 3.800 rientrarono armati, 2500 feriti o ammalati e 4.600 provenivano dai campi di prigionia; il restante della forza risultò caduta o dispersa.

[24] Durante la Conferenza di pace di Parigi il nostro Primo Ministro De Gasperi, che aveva posto in rilievo il grande apporto dato dalla Divisione “Garibaldi” alla lotta di Liberazione nei Balcani, si sentì rispondere sprezzantemente dal ministro degli esteri jugoslavo Edvard Kardelj che quelli «erano i partigiani del Re»!

[25] D. Porcheddu, Ho baciato la morte (diario di un partigiano), cit., p. 60.

[26] Ivi, p. 66.

[27] Ivi, p. 70.

[28] Cfr. ivi, pp. 71-74.

[29] D. Porcheddu, Ho baciato la morte (diario di un partigiano), cit., p. 75.

[30] Cfr. ivi, p. 76.

[31] I Domobrani erano le truppe dello Stato fantoccio filo-nazista della Croazia, guidato da Ante Pavelic, che comprendeva parte della Croazia e la Bosnia-Erzegovina.

[32] Gorazde è oggi una cittadina della Repubblica Federale di Bosnia-Erzegovina, capoluogo del Cantone della Postrinje, di oltre 22.000 abitanti, presso il fiume Prac, snodo stradale a 94 Km a sud-est di Sarajevo.

[33] Sullo scontro della 3a Brigata “Garibaldi” con i tedeschi e le bande cetniche loro alleate sul ponte del fiume Prac, cfr. G. Scotti, Ventimila caduti. Gli italiani in Jugoslavia dal 1943 al 1945, cit., pp. 419-421.

[34] D. Porcheddu, Ho baciato la morte (diario di un partigiano), cit., pp. 78-79. Riportiamo il commosso ricordo poetico in lingua sarda dedicato all’amico da D. Porcheddu: «Parias drommende / subra unu lettu de nie / in sa paghe profunda / de unu cabidale de sambene. / Pius non succuttat su coro tou, / sos ojos sun istudados, / ma su ‘entu ch’hat leadu / sa ‘oghe tua attesu, / ultimu tichirriu de vida / chi sempre s’hat a intendere / in sos annos e in sos tempos. / Cussa ‘oghe chi tanta fide / in su mundu hat ischidadu / ischendeti offerire / pro da libertade de s’omine» . Traduzione: italiana dello stesso Autore: Sembravi dormire / sopra un letto di neve / nella pace profonda / di un cuscino di sangue. / Più non batte il tuo cuore, / spenti son gli occhi, / ma il vento ha portato)/ la tua voce lontano, / ultimo urlo di vita / che sempre si udrà / negli anni e nei tempi. / Quella voce tanta fede / nel mondo ha risvegliato / sapendoti offrire / per la libertà dell’uomo (D. Porcheddu, Partigianu – A Carlu Careddu de Bolotana, in Unione Autonoma partigiani Sardi, Concorso letterario in lingua sarda, Cagliari, Taim, 1993).

[35] Idem, I Sardi nella Resistenza, cit., p. 221.

[36] Semen est sanguis christianorum! (Tertulliano, Apologetico, 50).

 

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