Gli storici anglosassoni snobbano l’Italia del ’ 15-18, di Marco Mondini
L’impegno del nostro Paese durante la Grande guerra è stato sistematicamente marginalizzato e minimizzato. Ora, però, qualcosa cambia. Tra chi contribuisce a dare una lettura più equilibrata c’è l’irlandese John Horne: «L’Italia è al centro della storia della Grande guerra europea, anche se è stata per troppo tempo respinta ai suoi margini. E la Grande guerra resta al centro della storia italiana».
Il fine dell’intervento in guerra nel 1915 per l’Italia era l’indipendenza. E, naturalmente, furono le cinque divisioni francesi e britanniche a vincere la battaglia di Vittorio Veneto (le altre cinquanta italiane non si sa bene dove fossero finite). A sostenerlo (ne La prima guerra mondiale, traduzione di Francesco Maiello, Carocci, 1998) fu John Keegan. Nemmeno lui, il grande vecchio della storia militare europea, si è sottratto alla tentazione della castroneria che coglie tanti studiosi di lingua inglese appena si devono misurare con le vicende italiane a cavallo della Grande guerra. A volte si tratta solo di miopia, a volte di scelte. Nei tre mastodontici volumi della Cambridge History of the First World War (2013-14), il miglior compendio del sapere internazionale sul primo conflitto mondiale, l’intera guerra tra Italia e Austria è malamente riassunta in 30 pagine, su 846 del volume I. La sensazione è che il fronte italo-austriaco sia considerato poco più importante di quello di Salonicco. Anche meno, se Martin Gilbert ( La
grande storia della Prima guerra mondiale, traduzione di Carla Lazzari, Mondadori, 1994) dedica alle battaglie di casa nostra 17 pagine e a quelle sul fronte greco 36.
La Grande guerra italiana è una «guerra dimenticata», come ha detto Alexandre Sumpf di quella russa? Non sempre, in realtà, e non solo per colpa degli storici d’Oltremanica (o d’Oltreatlantico). Gli specialisti italiani della generazione passata hanno la loro parte di responsabilità. Chiusi in una prospettiva sempre più provinciale, hanno disertato (e non raramente disprezzato) il dibattito internazionale. Quando, nel 1985, Paul Fussell e Eric Leed, due studiosi che hanno rivoluzionato la percezione del 1914-18, vennero invitati a un convegno a Rovereto, ci fu chi parlò di esterofilia.
E poi, anche se rari, esistono storici che parlano inglese e capiscono l’Italia. Uno è John Gooch, che ha pubblicato il miglior lavoro esistente sull’esercito italiano ( The Italian Army and the First World War, Cambridge University Press, 2014). Un altro è John Horne, uno degli animatori del Centro di ricerca internazionale dell’Historial de la Grande Guerre di Péronne, la Mecca della ricerca sulla guerra. È lui che ha deciso di portare il «caso Italia» al Rendez-vous de l’Histoire di Blois, il più importante festival di storia d’Europa, quest’anno dedicato al genio di Leonardo (che cinquecento anni fa moriva da quelle parti) e, per trascinamento, all’Italia tutta. Vero tornante o tributo occasionale? «Io credo che sia una svolta», ribatte John Horne, che «la Lettura» ha incontrato a Blois e al quale ha girato la domanda se l’Italia sia il solo Paese al quale il festival abbia dedicato un’intera stagione, rompendo una consuetudine decennale. «È stato un omaggio eccezionale, che dimostra una sensibilità nuova anche verso la contemporaneità italiana».
Professore, ha organizzato, per l’Historial di Péronne, una tavola rotonda sull’Italia «al centro della Grande guerra». Nel presentarla, ha sostenuto che l’Italia vive una condizione marginale e paradossale.
«Chiunque osservi l’esperienza italiana del primo conflitto mondiale non può che essere colpito da un dato eclatante, quello delle perdite. L’Italia ha oltre 600 mila morti. È una cifra enorme. Proporzionalmente, è lo stesso tasso di mortalità del Regno Unito, dove la Prima guerra mondiale è considerata la pagina più tragica della storia contemporanea. L’Italia affronta una prova altrettanto brutale, e per certi versi anche peggiore: basti ricordare le difficoltà affrontate dai combattenti italiani e austriaci su un fronte in larga parte montano. Eppure, il giovane Regno d’Italia, Stato nazionale fragile e diviso, dimostra una capacità di affrontare e vincere una guerra moderna e spietata che l’Italia fascista e imperiale non avrà mai. La Seconda guerra mondiale verrà perduta rapidamente e con molte meno perdite, nonostante la pretesa del regime di aver costruito una nazione guerriera. Ecco un primo paradosso che mi sembra degno di essere dibattuto».
E come lo affrontiamo?
«Nella nostra tavola rotonda abbiamo provato a discuterlo ragionando attorno a due questioni. La prima è che l’Italia è effettivamente al centro della storia della Grande guerra europea, anche se è stata per troppo tempo respinta ai suoi margini. La seconda, è che la Grande guerra è al centro della storia italiana del Ventesimo secolo, anche se si è preferito spesso marginalizzarla a favore del fascismo, considerato il vero dramma nazionale. Rovesciare la duplice marginalizzazione, dell’Italia rispetto alla guerra globale e della guerra rispetto alla storia nazionale, significa comprendere meglio l’Italia contemporanea e il suo posto nella storia europea».
Ma come si può riportare il caso italiano al centro di uno sguardo globale?
«Dire che il caso italiano occupa una posizione marginale nella storia internazionale della guerra non significa svalutare il lavoro degli storici italiani. Alcuni sono stati pionieri, sia per quanto riguarda la storia militare sia per quella sociale e culturale. Tuttavia i loro studi hanno raramente oltrepassato i confini della storia nazionale e non sono noti all’estero. Il che impedisce di comprendere certi elementi essenziali: il fatto che l’esperienza dei combattenti italiani sia diversa ma comparabile a quella dei soldati di altri fronti, per esempio, o ancora che il fronte italo-austriaco sia centrale nell’economia di un conflitto che va immaginato come una gigantesca guerra di assedio su scala continentale. Ma questo implica un secondo paradosso: per capire la storia nazionale della guerra dobbiamo imparare a leggerla in chiave transnazionale. Per comprendere veramente l’Italia attraverso la Grande guerra, cioè, dobbiamo pensarla nel contesto della guerra europea. Solo in questa prospettiva possiamo misurare realmente il peso dello sforzo bellico italiano, del ruolo del Regno d’Italia nel gioco delle coalizioni (cruciale, specie dopo Caporetto) o, ancora, delle crisi sociali, politiche e culturali che fanno dell’Italia un laboratorio originale della coppia rivoluzione/controrivoluzione dopo il 1914. Ci accorgeremo allora che l’Italia rappresenta non solo una parte ma la quintessenza di questo scontro globale».
Il Centenario ha rimesso l’Italia al centro degli studi sulla Grande guerra. Ma ha anche rimesso la guerra al centro della storia italiana?
«Uno dei maggiori contributi del Centenario della Grande guerra è la constatazione, ormai condivisa, che la guerra non finisce con gli armistizi del 1918. Le potenze vincitrici tentano di costruire un nuovo ordine internazionale ma lo fanno in un mondo in fiamme. In molte regioni d’Europa, in Russia o nel Medio Oriente, la guerra si prolunga in rivoluzioni e controrivoluzioni, scivola in guerre civili e guerre non dichiarate tra Stati, moltiplica le lotte sociali. In altri termini, la Grande guerra innesca molti più conflitti di quanti non ne risolva, e genera direttamente fenomeni come il fascismo italiano. Guerra civile, avventure guerriere (Gabriele d’Annunzio a Fiume) e il capitale culturale dei 600 mila morti (“l’Italia di Vittorio Veneto” che Mussolini offre a re Vittorio Emanuele) mi sembrano altrettanti indizi di come l’Italia, come la Russia o la Germania, trovi l’origine della propria catastrofe del Ventesimo secolo, il fascismo, direttamente in quella che i tedeschi chiamano la Urkatastrophe. Anche per gli italiani, la Grande guerra è il cataclisma originario».
La lettura, 24 novembre 2019