Nico Motzo soldato e partigiano in Grecia (1939 1944), di Luciano Carta (3. continua)

TERZA PUNTATA. La prima parte del saggio è stata pubblicata il 18 dicembre 2019, la seconda l’8 gennaio. TERZA PUNTATA


 

5. A presidio della Grecia occupata tra Larissa, Atene e Lamìa e il primo incontro con la Resistenza greca dalla parte degli invasori (giugno 1941 – agosto 1943).

Il territorio della Grecia fu diviso tra i tre occupanti: la Germania ebbe la Macedonia con il porto di Salonicco, una parte della Tessaglia, il controllo dei porti più importanti e la vigilanza sul Canale di Corinto, Creta e le Isole dell’Egeo vicine all’Anatolia; la Bulgaria ottenne la Tracia, la Macedonia orientale e le Isole adiacenti (Taso e Samotracia); l’Italia amministrò il resto della Grecia continentale (Epiro, territori della catena del Pindo, Tessaglia, Grecia centrale, Peloponneso), le Isole minori della costa occidentale (Cefalonia, Corfù e Zante) e il Dodecaneso nell’Egeo, di cui era già in possesso. Ad Atene fu insediato un “governo nazionale” filo-nazista, presieduto da Georgios Tsolakoglu, il generale che, disobbedendo alle direttive del governo legittimo, il 20 aprile 1941 aveva firmato la resa con i tedeschi con lo specifico compito di «ristabilire l’ordine e di impedire qualunque atto di ostilità nei confronti delle truppe dell’Asse»[1]. Ad Atene avevano sede i Comandi militari tedesco e italiano. Verso la fine di maggio lo Stato Maggiore divulgò le nostre perdite nell’impresa greca. «Morti accertati, 13.755; feriti, 50.874; congelati, 12.368 (3000 dei quali sottoposti ad amputazioni); dispersi, 25.067»[2]. Non furono meno gravi le perdite di materiali di ogni genere: armi individuali, mortai, mitragliatrici pesanti, pezzi di artiglieria, quadrupedi, automezzi.

Le condizioni imposte dagli occupanti alla popolazione furono durissime: requisiti i generi di prima necessità, le derrate alimentari, gli animali da carne e da soma, i mezzi di trasporto. La popolazione fu letteralmente ridotta alla fame. «Già nell’autunno del 1941 – scrive R. Aprile – ogni persona aveva diritto a poche decine di grammi di pane di mais, ma durante l’inverno il pane fu confezionato con la paglia di riso»[3]. Le manifestazioni di protesta furono represse duramente anche nel sangue e molti dei partecipanti furono rinchiusi in un campo di concentramento presso Larissa, dove furono lasciati morire di fame. Si calcola che nell’inverno 1941-42 morirono di fame più di 300.000 persone. Le truppe tedesche, che non sopportavano piccoli gesti di umanità perché nei confronti delle popolazioni sottomesse non si dovevano avere debolezze di sorta (nicht Schwanke!), punirono un saldato sardo, certo Sanna, per aver dato «mezza pagnotta a due bambini seminudi, dagli occhi pieni di spavento, stretti sulla porta di un casolare»[4].

Questo desolante quadro della situazione in cui piombò la Grecia occupata traspare dal racconto di Nico Motzo, che quando poté si attivò per alleviare le sofferenze della popolazione. La Divisione “Forlì” e il 43° Reggimento mossero dall’Albania per inoltrarsi in territorio greco il 14 giugno 1941. Partiti dalla cittadina di Bilisht presso Koriza, nella Macedonia albanese, raggiunsero il primo villaggio ellenico di Scarafi[5] il 17, per poi raggiungere Larissa, capoluogo della Tessaglia, dove giunsero il 26. Le nostre truppe italiane avevano il compito precipuo di presidiare i territori occupati assegnati all’Italia e ciò spiega il motivo per cui il 43° Reggimento lasciò il 2° Battaglione a Larissa, mentre il Comando della Divisione e il restante della forza continuò il tragitto fino alla località montana di Aià, posta a non molta distanza da Larissa, dove trascorsero tutta l’estate sino alla metà di settembre.

Il primo vero contatto di Nico Motzo con la società e la cultura della Grecia avviene, dunque, in alcune località della Tessaglia, di cui osserva e descrive con curiosità e attenzione costumi, divertimenti, cerimonie religiose cattolico-ortodosse, usi quotidiani: il modo poco efficace con cui si macella un bovino, la celebrazione di un matrimonio, l’abbigliamento dei montanari, i «balli paesani che rassomigliavano ai nostri balli sardi a coro»,[6] ossia i balli cantati, tra cui il caratteristico «ballo del macellaio», minutamente descritto, ma di cui non siamo riusciti ad avere notizie intorno alla sua attuale vigenza. Si tratta, come il lettore può agevolmente constatare, di costumi e momenti corali di comunità pastorali e contadine non molto dissimili, per mentalità e grado di civiltà, sebbene appaiano all’autore un tantino più primitivi, da quelli della Sardegna.  Una curiosità, ci sentiamo di aggiungere, che nasce da una certa affinità culturale che diventa nel tempo vera e propria condivisione. La prima fondamentale tappa di questo processo di condivisione è costituita dall’esigenza, che si manifesta impellente, della comunicazione linguistica, che l’Autore supera con accortezza e decisione. «Morivamo dalla sete – egli scrive – per non saper chiedere acqua, o pure dire dove c’era una fonte»[7]. Il grottesco linguaggio della mimica non è sufficiente; occorre imparare la lingua, e allora, prima ancora dell’acquisto di un abbecedario, il protagonista si arma di carta e matita e, egli scrive, «mi feci dire come si chiamava la pecora in greco, e così pure per gli agnelli, per l’acqua, per il pane, per le sigarette e per tutte le altre cose necessarie, prima il nome in italiano e poi in greco»[8].

Abbiamo detto delle le condizioni imposte soprattutto dai tedeschi alle popolazioni, che erano trattate con disumana tracotanza e considerate al rango di esseri inferiori. Non fu solo la popolazione greca a essere considerata in un rapporto di minorità e di subordinazione dai dominatori nazisti, ma tale era la condizione in cui costoro intendevano confinare anche i co-dominatori italiani. Questa condizione di subordinazione degli italiani nei confronti dei tedeschi, da noi sottolineato, è posto bene in evidenza dall’Autore nell’episodio da lui raccontato nelle Memorie nell’episodio del negozio di stoffe pregiate di Volos, altra cittadina della Tessaglia affacciata sul Golfo dell’Eubea, dove si era recato per l’espletamento delle incombenze del suo impiego.  Grazie alle indicazioni di un «ebreo molto abile»,[9] che conosce in modo fortuito e che parla bene l’italiano, l’Autore scopre che a Volos esiste un negozio di stoffe pregiate, requisite alla popolazione, riservate ai soli occupanti come bottino di guerra, con la differenza che tale bottino non era distribuito equamente tra i dominatori italiani e tedeschi, i quali ultimi consideravano se stessi investiti di maggiori diritti rispetto agli alleati. Il Motzo sentiva nitida la sensazione che i tedeschi ritenevano che gli italiani, che pure avevano sofferto innumerevoli sacrifici, fossero entrati in Grecia dalla porta di servizio.

In quel tempo – racconta l’Autore – dietro ordine del loro Comando, i tedeschi potevano mandare in Germania, ogni 15 giorni un pacco di 15 kili, invece noi italiani, potevamo mandare in Italia un pacco di due kili e mezzo al mese, sicché pure volendo comprare della roba mi trovavo impossibilitato di mandarlo a casa[10].

In quella circostanza il protagonista riuscì solo a realizzare un affare conveniente, acquistando e rivendendo ai greci alcuni abiti che aveva acquistato, con un considerevole guadagno, peraltro spartito con lo scaltro ebreo; ma nonostante l’incitazione di questi non poté dedicarsi ulteriormente agli affari. È questo il solo episodio in cui l’Autore fa menzione di un ebreo, la cui intelligenza dimostra di apprezzare. Non è chiaro, pertanto, se il Motzo abbia saputo durante la sua lunga permanenza in territorio ellenico, che anche gli ebrei greci sarebbero stati quasi interamente annientati con il loro internamento nei campi di sterminio in Germania.

 

Mentre la radio – scrive G. C. Fusco, altro protagonista della campagna in Grecia – portava, per le prime volte, da Belgrado, le note alquanto meste e crepuscolari di Lily Marlene, i tedeschi, fra un treno di preda bellica e l’altro, spedivano in Germania, trattati peggio delle bestie e delle cose, gli ebrei di Salonicco, di Larissa, di Trikkala, di Kozani. Uomini, donne, vecchi, bambini, moribondi e neonati, schiacciati all’inverosimile nei vagoni chiusi con sigilli di piombo, destinati ai crematori e alle fosse comuni. Chi vide, fermi, di sera, sui binari morti delle stazioni balcaniche, quei vagoni pieni di gemiti soffocati, alle cui grate, talvolta, si afferravano mani disperate e bianchissime, non riuscirà mai a dimenticarli[11].

Solo in pochi ebbero salva la vita. Altri italiani, tra cui il preside del liceo di Rodi Girolamo Sotgiu e la moglie Bianca Ripepi, contribuirono a metterne in salvo quanti poterono[12]. Nel racconto di Nico Motzo s’intravvede tuttavia, nell’episodio dell’ebreo di Volos, una sorta di preveggente comunione di una sorte che le forze armate italiane avrebbero vissuto e che il protagonista sarebbe riuscito ad evitare solo grazie ad una grande e razionale freddezza.

Nel settembre 1941, mentre si trovava a Volos, l’Autore iniziò a stare poco bene, tanto che rientrato a Larissa fu ricoverato nell’ospedale da campo N. 78 per un problema di salute molto serio che lo costrinse a letto per 33 giorni. Al termine della degenza ospedaliera era diventato irriconoscibile, tanto che un compagno d’armi non lo riconobbe. Uscito dall’ospedale il 21 ottobre e rientrato al Reggimento, per volontà del Colonnello Comandante, venne destinato a Larissa a gestire lo spaccio dei sottufficiali di Divisione. «Aggregato al Quartiere Generale della Divisione “Forlì”», riporta il Foglio matricolare. Rimessosi in sesto in virtù di un’adeguata alimentazione, il 20 novembre 1941 partì per l’Italia per una licenza di convalescenza. Giunse a Bolotana solo alla vigilia di Natale 1941 e rimase in famiglia, dopo varie vicissitudini, fino al 27 febbraio 1942. Rientrò a Larissa il 9 marzo successivo e fu destinato, presso la Compagnia Comando della Divisione “Forlì”, alla cucina nel ruolo impegnativo di «capo marmitta»[13]. Attorno ai primi di aprile 1942 la Divisione “Forlì” fu trasferita da Atene.

Si racconta che ai primi di maggio 1941, dopo che i tedeschi erano entrati ad Atene e avevano issato sul Partenone la bandiera con la svastica, alcuni ardimentosi studenti greci erano riusciti nottetempo strappare la bandiera nazista e issare nuovamente sul pennone quella greca. L’episodio, sia esso vero o mitizzato, rappresenta simbolicamente l’inizio della Resistenza dei greci contro gli invasori[14].

I primi nuclei della Resistenza greca iniziarono a costituirsi nell’estate 1941 grazie alla lotta ad oltranza contro i nazi-fascisti proclamata già dal mese di luglio dal Comitato Centrale del K.K.E., il Partito Comunista Greco. Nel mese di settembre il K.K.E., i sindacati operai e altri partiti minori della Sinistra diedero vita all’E.A.M., il Fronte di Liberazione Nazionale, all’interno del quale nella primavera 1942 si costituirono i primi nuclei dell’E.L.A.S., l’Esercito Popolare Greco di Liberazione, braccio armato dell’E.A.M. guidato dal celebre comandante Aris Verukiotis, pseudonimo dell’ufficiale comunista della riserva dell’esercito ellenico Athanasios Klaras. Il programma politico dell’E.A.M. può riassumersi in tre punti: 1) liberazione del territorio nazionale dallo straniero; 2) formazione di un governo provvisorio a liberazione avvenuta e indizione di elezioni per un’assemblea costituente; 3) lotta contro ogni tentativo di forze interne o esterne di imporre soluzioni in contrasto con la volontà popolare[15]. Nello stesso periodo un gruppo di ufficiali dell’esercito di tendenze repubblicane dava vita a una seconda organizzazione di resistenza, l’E.D.E.S. (Unione Nazionale Democratica Greca), comandata dal generale Napoleon Zervas, le cui bande partigiane operarono soprattutto in Epiro dall’estate 1942. Infine, nell’autunno 1942 si costituiva una terza organizzazione resistenziale denominata E.K.K.A., Movimento di Liberazione Nazionale e Sociale, di minore consistenza rispetto alle altre due, comandata dal colonnello Demetrios Psarras. Le ultime due organizzazioni della Resistenza greca erano sostenute militarmente ed economicamente dall’Inghilterra, che nell’ottobre 1942 avrebbe paracadutato nelle montagne della Grecia centrale una Missione Militare Britannica agli ordini del generale Edmund C. Myers e del colonnello Chris Woodhouse, che alla fine di novembre, con il concorso dei partigiani dell’E.L.A.S., si sarebbe resa protagonista di un’importante azione di sabotaggio delle truppe italo-tedesche, facendo saltare il viadotto ferroviario di Gorgopotamos, interrompendo così la linea ferroviaria Atene-Salonicco e creando per diversi mesi grossi disagi ai rifornimenti delle truppe dell’Asse[16].

Le azioni di sabotaggio della Resistenza greca, in particolare dei partigiani dell’E.L.A.S., assunsero una rilevanza tale che le truppe d’occupazione nazi-fasciste iniziarono una campagna di massicci rastrellamenti che comportarono innumerevoli eccidi di civili, numerose fucilazione di partigiani e incendi e devastazione di interi centri abitati soprattutto nelle zone montagnose dell’Epiro, della Tessaglia e della Grecia centrale. La Resistenza greca era scoppiata quasi contemporaneamente a quella di tutti paesi balcanici, dalla Jugoslavia di Tito all’Albania di Enver Hoxha, ancor prima che le forze della Resistenza si organizzassero su vasta scala anche nell’Europa continentale.[17]

Com’è noto, alla fine di giugno 1941 Hitler dava inizio alla “Operazione Barbarossa” con l’invasione del territorio russo. Dopo i primi successi delle armate tedesche, con la cosiddetta “battaglia di Stalingrado”, tra l’estate 1942 e l’inverno 1943 le sorti della guerra iniziarono a modificarsi a favore degli Alleati, che dal dicembre 1941 potevano contare anche sull’apporto dell’esercito americano. A partire dal novembre 1942, lo scontro decisivo di El Alamein e lo sbarco degli anglo-americani in Marocco imprimevano alla guerra una svolta decisiva, costringendo progressivamente le forze dell’Asse all’arretramento a partire dallo scacchiere africano.

Questo quadro generale dell’evoluzione della guerra occorre tenere presente per un’adeguata comprensione delle vicende vissute dall’Autore delle Memorie, quando, nella prima decade di marzo 1942, ritornò nella Grecia occupata, prima a Larissa e poco dopo nella capitale Atene.

Ad Atene Nico Motzo trascorse 15 mesi, all’incirca da primi di aprile 1942 alla metà di luglio 1943. La prima fase della permanenza ad Atene è improntata, più che a un arcigno atteggiamento da occupante, ad un senso di umana comprensione delle difficoltà che attraversava la popolazione, vessata soprattutto dalle truppe naziste e ridotta alla fame. La sua attenzione è rivolta in particolare ai bambini. Il rancio della truppa italiana, scrive il «capo marmitta» Motzo,

non solo era abbondante, ma quasi sempre dopo la distribuzione … ne avanzava, che anziché buttarlo lo facevo distribuire ai bambini che tutti i giorni venivano con la speranza che qualche soldato, mosso a compassione, desse loro qualche pezzettino di pane. Con quell’atto umano, che un altro al mio posto avrebbe fatto, mi acquistai una stima immensa di quei poveri bambini, e quando mi vedevano mi venivano incontro e mi circondavano facendomi festa[18].

Continua l’atteggiamento di condivisione con la popolazione, con la quale il protagonista fraternizza e si mescola nei rari momenti di gioia familiare. «I grandi avevano anche essi poca roba da mangiare, e pure quando con sforzi facevano qualche invito, qualche battesimo o sposalizio, mi facevano a tutti i costi intervenire»[19]. La sua determinazione e astuzia ormai proverbiale lo rendono accetto in una famiglia in seno alla quale, con l’aiuto delle due figlie della padrona di casa, «una a nome Matrona che era diplomata nelle scuole elementari, e l’altra Dimitra che frequentava la quinta liceale»[20], approfondisce la sua conoscenza della lingua greca. «Colsi l’occasione – egli ricorda – di farmi fare un po’ di lezione di greco, mi comprai un libro di prima elementare e un dizionario italo-greco, e così in poco tempo riuscivo a farmi capire benissimo»[21].

La conoscenza della lingua sarà di vitale importanza per sfuggire ai pericoli mortali cui andò incontro dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.

La convivenza delle truppe tedesche con le nostre era molto problematica e spesso, come si desume dal racconto vivace e colorito dell’Autore, l’odio reciproco sfociò in sfide spettacolari e in baruffe cruente tra i soldati italiani e i tedeschi invidiosi. «Gli italiani in Grecia furono molto apprezzati da tutti»[22], scrive il Motzo, ed erano addirittura preferiti dalle donne tedesche! Se è vero che in questa parte del racconto l’Autore sembra indulgere allo stereotipo degli “italiani brava gente”, su cui ancora oggi in sede storiografica si continua a discutere[23], è fuori dubbio che l’atteggiamento delle truppe d’occupazione italiane in Grecia fu assai diverso da quello dei militari tedeschi. Ad Atene, infine, il «capo marmitta» bolotanese di origini contadine, che aveva visto da vicino il mare per la prima volta nel maggio 1938, quando fu richiamato alle armi,[24] verificò la sua impotenza di fronte a Nettuno scatenato. Durante una gita in barca nelle acque del Pireo, egli che da buon sardo dell’interno, non sapeva nuotare, corse un serio pericolo. Fu quella – egli assicura –la prima ed ultima volta in cui accettò di fare una gita in barca; scongiurato il pericolo, guardò torvo thalassa e giurò che con lui non si sarebbe mai più confrontato: «Arrivammo alla spiaggia sfiniti dalla fatica di remare contro le onde. Messo piede a terra, mi voltai in dietro e guardai il mare, feci proponimento di non andare più in barca, e fu davvero l’ultima volta»[25].

Il 18 luglio 1943 la Divisione “Forlì” fu retrocessa a Lamìa, presso il Golfo dell’Eubea, nella Tessaglia meridionale, dove le bande partigiane infliggevano agli occupanti molte perdite. Fu nei paesi attorno a Lamìa che egli fece il suo primo incontro con la Resistenza comunista della Grecia centrale. Durante l’estate 1943 le forze dell’Asse avevano iniziato a indietreggiare su tutti i fronti. Con grande sincerità l’Autore descrive l’incredulità dei soldati italiani, i quali, egli scrive, «ancora convinti che la vittoria- sarebbe stata nostra»[26],  non si erano ancora svegliati dal sonno dogmatico della retorica fascista della vittoria.  Più informata di lui, una giovane ragazza conosciuta a Lamìa, che «faceva parte dell’organizzazione comunista»[27], lo aiutò a inquadrare realisticamente la situazione. Alla fine di agosto Nico Motzo, a seguito di un’imboscata dei partigiani greci in cui i nostri avevano lasciato sul campo «7 morti e 10 o 12 feriti»[28], partecipò in prima persona a un’operazione di rastrellamento in un paese del circondario. Fu quella circostanza che gli aprì definitivamente gli occhi. L’assassinio efferato di un povero vecchio, la sola persona rimasta nel paese dal quale tutti gli altri erano fuggiti per rifugiarsi sulle montagne, e lo spettacolo di un intero abitato incendiato dai nostri soldati, provocarono in lui un profondo ribrezzo e la determinazione di non contribuire all’opera di distruzione. Ricorrendo alla consueta furbizia, trasgredì l’ordine di appiccare il fuoco a una casa, come gli era stato intimato da un suo superiore. «Mandai fuori i soldati che frugavano ogni angolo, col pretesto che dovevo attaccare il fuoco alla casa, e andatisene lasciai la casa intatta, forse l’unica casa che rimase senza essere bruciata, né a nessun’altra io appiccai il fuoco»”[29]. Era l’inizio di un autentico percorso di “conversione”. (3. Continua)


[1] R. Aprile, Storia della Grecia moderna (1453-1981), Lecce, Caponi editore, 1984, p. 246. Il generale greco volle firmare la resa solo con i tedeschi; di fronte alle proteste di Mussolini, Hitler impose che la cerimonia del giuramento fosse ripetuta il giorno 23 aprile 1941 in una villa presso Salonicco alla presenza dei rappresentanti italiani.

[2] G. F. Fusco, Guerra d’Albania, cit., p. 97.

[3] R. Aprile, Storia della Grecia moderna, cit., p. 246.

[4] Si veda il toccante racconto dell’episodio in G. C. Fusco, Guerra d’Albania, cit., pp. 93-96.

[5] Non siamo riusciti a localizzare con esattezza questa località e diversi altri piccoli centri abitati citati dall’Autore nel suo racconto, come Aià, Zarizzani e altri.

[6] Memorie, infra, p. 121.

[7] Ivi, p. 120.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p. 121.

[10] Ivi, p. 122.

[11] G. F. Fusco, Guerra d’Albania, cit., p. 96.

[12] Cfr. B. Ripepi, Da Rodi a Tavolara. Per una piccola bandiera rossa, Cagliari, AM&D edizioni, 2002.

[13] Memorie, cit. p.127.

[14] Sulla Resistenza greca cfr. A. Kedros, Storia della Resistenza greca, Padova, Marsilio Editori, 1968.

[15] Cfr. R. Aprile, Storia della Grecia moderna (1453-1981), cit., p. 249.

[16] Cfr. ivi, p. 251.

[17] Una rapida informazione sulla Resistenza in Europa e nei Paesi balcanici si trova nel volume, ricco anche di materiale iconografico, di F. Etnasi, La Resistenza in Europa. Albania, Austria, Belgio, Bulgaria, Cecoslovacchia, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Roma, Grafica Editoriale, 1970. Per un’analisi più approfondita e critica si veda: P. Iuso, Esercito, guerra e nazione. I soldati italiani tra Balcani e Mediterraneo orientale 1940-1945, Roma, Ediesse, 2008.

[18] Memorie, p. 128.

[19] Ibidem.

[20]Ivi, p. 129.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem.

[23] Si veda, ad esempio il recente volume di G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-1943, Milano, Mondadori, 2007; Idem, L’Italia del silenzio, Milano, Mondadori, 2013. Si veda inoltre, sul problema della politica fascista nel Mediterraneo e dei crimini di guerra italiani nella Penisola Balcanica, D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003; E. Aga Rossi, M. T. Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 2011.

[24] Si tratta di un particolare che rivela l’Autore nelle prime battute delle Memorie: «Era una bellissima notte e quasi tutto il tragitto rimasi a prua guardando il mare che mai avevo visto sino allora» (Memorie, p. 101).

[25] Ivi, p. 131.

[26] Ivi, p. 132.

[27] Ibidem.

[28] Ibidem.

[29] Ivi, pp. 133-34.

 

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