Un libro, un’occasione di confronto

Il romanzo - che verrà presentato alla Casa Aragonese in Seneghe nel pomeriggio dell'8 dicembre p.v. - offre lo spunto all'articolo.

Il trasloco di Leonardo Casula, pubblicato da Fandango Libri a giugno di quest’anno.

 

 

Mario Cubeddu

 

Nel 1951 la rivista di Piero Calamendrei “Il Ponte” dedicava un numero unico alla Sardegna. Salvatore Satta, che allora era solo uno dei più noti giuristi italiani, invitato a collaborare, decideva di partecipare con un articolo dal titolo “Spirito religioso dei sardi”. In quella formidabile riflessione sul destino e sull’anima dei sardi, all’altezza delle grandi pagine de “Il giorno del giudizio”, Salvatore Satta rifletteva sull’isolamento in sé e in una propria legge di ciascuno dei sardi e sull’impossibilità di una redenzione individuale e collettiva. Ricordava di aver compreso questo da bambino la prima volta che era andato a seguire un processo. C’era un imputato “simile a un orso”, c’erano giudici e avvocati, c’era un pubblico. Ma soprattutto c’era un testimone, “un uomo piccolo e nero” che si chiamava Pirastru, “che vuol dire pero selvatico”. Sembrava non si decidesse a parlare. Racconta Satta: “A un tratto il presidente, piegandosi verso di lui, con una voce quasi paterna, gli disse: – Pirastru, perché non dici la verità? – Perché non dovrei dirla, – risponde. – Ci sono tante ragioni per non dirla, e una di queste è la paura. – Allora Pirastru sollevò la testa arrugginita, fissò il Presidente con aria stanca e: – Paura di che? Mormorò. – Signor presidente, morto io, morto un cane. – Le parole suonarono profonde nell’aula, e il presidente imbarazzato, si affrettò a congedare quell’uomo, del quale non riusciva a capire come mai potesse accettare di essere un cane.” Satta aggiunge che anche lui si è trovato molte volte nella vita a rivolgere a sé le stesse parole: “Morto io, morto un cane”.                                                                C’è un altro cane in un passo indimenticabile della sua opera più grande, Il giorno del giudizio. Siamo verso la fine. Don Sebastiano, il notaio che altri non è che il padre dell’autore, preoccupato come tutti per il vento infuocato e la stagione di lunga siccità che sta distruggendo la vegetazione e sterminando gli animali, va a visitare l’oliveto, la vigna, l’orto di Isporòsile a cui è tanto affezionato. Quando arriva, trova, invece del deserto che temeva, un’oasi di verde e di vegetazione sana e prospera. Cosa è successo, perché questa eccezione in un paesaggio desolato? C’è qui un altro “uomo piccolo e nero”, Nanneddu Titùle, il mezzadro a cui la proprietà era stata affidata. L’autore precisa che il senso del nome è “Giovannino lurido”.                                                                                                                      “Don Sebastiano scese da cavallo…. Scesero il breve pendio sotto la quercia, e si trovarono davanti alla casa. Dal mezzo battente chiuso della porta pendeva un cane crocifisso con le gambe anteriori divaricate e inchiodate nel legno, e la testa abbandonata sul petto un po’ di traverso. “Ecco che cosa ha salvato il podere!”. Don Sebastiano restò pietrificato. Gli vennero alla memoria i sacrifici rituali di cui aveva letto senza crederci troppo nell’enciclopedia del circolo, o quei crocifissi con la testa d’asino che i pagani dipingevano a scherno dei cristiani. “Ha urlato per tre giorni, poi è morto e il vento che piegava gli alberi di là dalla Costa è subito cessato”.                                                                                                            Non si può fare a meno di ricordare Salvatore Satta nel leggere Il trasloco di Leonardo Casula, pubblicato da Fandango Libri a giugno di quest’anno. E sarà bene tenere a mente quello che gli studiosi di tradizioni popolari ricordano a proposito dei tamburi del carnevale di Gavoi : “Un tempo erano fabbricati con pelle di cane (si dice che essi venissero lasciati morire di fame prima di utilizzarne la pelle)…”                                                                                                                  Al centro del romanzo di Leonardo Casula vi sono le morte drammatiche di due cani, sacrificati per scopi misteriosi. Una coppia di giovani, Milan e Mara, ha deciso di cambiare casa. Lui insegna teoria musicale all’Università, lei fa la fotografa. Lui ha molto desiderato una casa nuova, lei invece ne è scontenta, subisce la scelta del marito. Si stanno ancora adattando al nuovo ambiente, dove portano anche un grosso cane molto amato, affidatogli dal padre in punto di morte, quando arriva una mail che contiene solo un video. Il nome del mittente è quello del padre defunto. Milan naturalmente apre il file e vede le immagini di un cane stordito, scuoiato, ucciso. Comincia con queste terribili immagini il viaggio del protagonista in un “cuore di tenebra” personale, familiare, collettivo. Non è il caso di scendere nei dettagli, perché la tensione emotiva e intellettuale che regge il romanzo deve essere sperimentata in prima persona, non raccontata da altri. Diciamo solo che come in tutti i thriller legati alle case non può mancare un vicino affascinante e inquietante. Si chiama Vargas, è uno zingaro diventato sedentario, erede di tradizioni e di tecniche antiche. E’ sfuggente e invadente allo stesso tempo e avvolge i protagonisti di attenzioni e di sospetti. Possiede un tamburo che vibra anche solo per fare eco a suoni distanti e lo regala a Milan, come se fosse stato creato apposta per lui. Le ansie dell’adattamento a un nuovo ambiente e a nuove persone si accompagnano alle difficoltà di una coppia in cui i due componenti sembrano indirizzati su percorsi mentali e affettivi divergenti. Mentre Milan, tormentato dalla necessità di capire una figura paterna il cui mistero non lo abbandona anche dopo morto e lo guida nella discesa al cuore di tenebra, Mara cerca una via di salvezza con un istinto di sopravvivenza acuito dalla scoperta di aspettare un figlio. Un’opera piena di tensione, di idee, di immagini, questo primo romanzo di Leonardo Casula. Ambientata in una città di mare posta al confine tra tormenti storici mitteleuropei, la persecuzione dei diversi e le pratiche di sterminio, e antiche ossessioni mediterranee. Ho citato all’inizio l’autore che sta alla base del rinnovamento della letteratura sarda, Salvatore Satta. E’ stato lui a indicare la strada di un racconto della Sardegna senza mitologie e senza folclore, che andasse a cercare il senso profondo di un mondo e di esistenze apparentemente senza senso. La Sardegna sembra in apparenza non avere niente a che fare con questo romanzo. Con i cani di Satta ho cercato di dimostrare che invece vi entra per un’altra via. Il cane può essere l’equivalente dell’uomo avvilito, disumanizzato. L’uomo ridotto  a insetto, bestia, dalla dominazione coloniale o dalle pratiche totalitarie di annullamento del Novecento.  Se questo è un uomo di Primo Levi, con l’esperienza del lager nazista, o Vita e destino di Vasilij Grossman, con lassociazione del gulag sovietico al lager, possono essere i migliori riferimenti letterari.  Ma il cane è anche immagine di chi che paga per tutti, l’uomo-re e l’uomo-vittima, gli sconfitti di oggi destinati ad essere i vincitori di domani, del cui calvario su barche instabili e su camion stracarichi attraverso i deserti abbiamo bisogno per il nostro effimero benessere.

 

 

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