A proposito di ACCABADORA e del saggio di ITALO BUSSA, di Luciano Carta
Italo Bussa, L’accabadora immaginaria. Una rottamazione del mito, Cagliari, Edizioni della Torre, 2015.
1. Un’opera impegnativa
L’osservazione che mi è venuta spontanea alla lettura di questo importante lavoro di Italo Bussa è che si tratta di un’opera impegnativa per almeno tre ordini di motivi.
È un’opera impegnativa, in primo luogo, perché lo stile di scrittura adottato dall’Autore, considerata la finalità dell’opera – “rottamare” un mito, come dice il sottotitolo – procede secondo una stringente logica deduttiva che esige grande concentrazione da parte del lettore, quasi si trattasse della relazione di un pubblico ministero che argomenta l’accusa di un fatto criminoso. In secondo luogo l’opera è impegnativa perché il lettore, non solo legge un prodotto letterario senz’altro complesso, ma è anche indotto – ma direi meglio “costretto” – a prendere posizione su di un argomento che l’opera rivela essere alquanto spinoso e problematico. Infine l’opera è impegnativa perché – ma questa è un’impressione più personale da parte di chi vi parla - essa è portatrice di un “metodo di ricerca” nell’ambito delle tradizioni popolari che appare fondato su solide basi scientifiche e che sarebbe utile seguire, o se si vuole, considerare con attenzione prima di avventurarsi in un campo di ricerca e di studio così minato e denso di pericoli quale è quello delle donne cosiddette ”accabadoras” o più semplicemente del fenomeno dell’”accabadura”.
2. La pars destruens del libro.
L’opera di Italo Bussa si propone una finalità specifica: “rottamare”, come dice il sottotitolo del libro, che però non mi pare che sia termine utilizzato dall’autore, il mito dell’accabadora che appare “infamante” per la Sardegna; per quanto mi riguarda, io preferisco il termine meno guerresco di “confutare”, perché in effetti si tratta di un’ampia e ragionata confutazione di una credenza che, secondo l’Autore, non trova una sua giustificazione né sul piano razionale né su quello fattuale e storico.
Bussa non affronta di bel nuovo questo argomento, come ricorda egli stesso nella Premessa. Al tema dell’accabadura egli aveva dedicato un denso articolo apparso nei “Quaderni bolotanesi”, la rivista che egli ha diretto per quarant’anni, nel fascicolo del 2012. Sono stati probabilmente propri i “Quaderni bolotanesi”, insieme alla martellante pubblicistica letteraria degli ultimi anni, che ha registrato, tra l’altro la pubblicazione di due romanzi di Giovanni Murineddu e di Michela Murgia – quest’ultimo, com’è noto, ha avuto importanti riconoscimenti e un’ampia diffusione a livello nazionale e internazionale – a spingere Italo Bussa a occuparsi in modo sistematico sotto il profilo storico e antropologico del problema. Prima del suo saggio del 2012, infatti, i “Quaderni bolotanesi” avevano ospitato, nel fascicolo N. 15 del 1989, un’importante contributo di Maria Giuseppe Cabiddu dal titolo Akkabadoras: riso sardonico e uccisione dei vecchi in Sardegna, rielaborazione della tesi di laurea dell’Autrice discussa all’Università di Sassari nel 1982.
3. A. Della Marmora e Smith
In ambito storico-letterario il problema dell’accabadura compare per la prima volta nel 1826 nella prima edizione del Voyage di Alberto Ferrero Della Marmora, il quale unisce insieme due generi storici di accabadura: la tradizione che proviene dai testi dei classici greci e latini, i quali sostengono che in Sardegna nell’antichità vi era «la consuetudine di uccidere i vecchi» (Bussa, p. 25), e la credenza riferita ai secoli più recenti secondo la quale tale pratica sarebbe rimasta viva «in alcune regioni dell’isola», dove esistevano «delle donne incaricate di affrettare la fine dei moribondi»; un residuo di barbarie, commentava il Della Marmora, che, egli precisa, «è fortunatamente scomparsa da un centinaio di anni» (ibidem). Dunque il Della Marmora, prima fonte storico-letteraria dell’accabadura, parla quasi incidentalmente del fenomeno e precisa che per il mondo antico la sua falsità era stata già dimostrata da alcuni non meglio precisati scrittori, mentre relativamente all’età moderna egli assicura che l’usanza era «fortunatamente» scomparsa da un centinaio di anni. L’affermazione è ripetuta nella seconda edizione del Voyage del 1839, da lui considerevolmente aumentata soprattutto nel volume 2° dedicato alla storia e alle antichità dell’isola, ponendo però esplicitamente l’interrogativo se essa sia realmente esistita; anzi ritenendo probabilissimo che si tratti di una «diceria popolare» (Bussa, p. 25).
Due anni dopo la prima edizione del Voyage, nel 1828, l’argomento veniva ripreso dal viaggiatore William Henry Smyth, il quale attribuiva «l’usanza singolare di strangolare i moribondi» (Bussa, p. 25) agli abitanti della Barbagia e l’atto veniva compiuto da una donna, che eseguiva il gesto pietoso a pagamento; l’autore inglese introduce per la prima volta il termine accabadora, con cui venivano denominate queste donne “terminatrici” (cfr. Bussa, p 26). Elemento del tutto nuovo, lo Smyth tirava in ballo il gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo, il quale, nelle missioni predicate presso le popolazioni dell’interno dell’isola, avrebbe posto fine a tale usanza nel corso del Settecento.
4. Le fondamentali notizie dell’Angius
Qualche anno dopo, tra la prima e la seconda edizione del Voyage, ossia tra il 1826 e il 1839, nel 1833 iniziava la pubblicazione del monumentale Dizionario storico geografico statistico commerciale degli Stati di S. M. il re di Sardegna diretto dall’abate piemontese Goffredo Casalis, le cui ‘voci’ sulla Sardegna, com’è noto, sono state redatte quasi interamente dallo scolopio ed erudito cagliaritano Vittorio Angius. Questi, nel secondo volume dell’opera uscito nel 1834, che contiene le ‘voci’ delle località del Regno di Sardegna da Baceno a Buttogno, nel lemma dedicato a Bosa nuova inseriva un breve paragrafo intitolato, appunto, Sas Accabadoras. Il testo dell’Angius, nell’analitica rivisitazione delle fonti storiche fatta da Bussa, costituisce, se così posso esprimermi, una sorta di chiave di volta, ossia la testimonianza capitale relativa al fenomeno e per questo occorre comprenderne appieno il contenuto e il significato. L’Angius inizia con indicare quella che, secondo il suo parere, è l’etimologia del verbo logudorese “accabare”, che viene da “cabu” e significherebbe, in senso proprio, “colpire il capo”, “ammazzare percuotendo il capo”, e in senso figurato “portare a termine qualcosa”. Molti di noi, nati in area logudorese, da bambini abbiamo sicuramente sentito tante volte gli adulti dirci in modo perentorio, quando diventavamo fastidiosi: “accabachèla”, “finiscila”! Passando quindi a spiegare il significato corrente del vocabolo, egli scrive che il termine “accabadoras” è usato per «significare certe donnicciuole, che troncassero l’agonia d’un moribondo e abbreviassero le pene d’una morte stentata dando loro o sul petto o nella coppa [la nuca] con un corto màzzero (sa mazzucca), tosto che sembrava vana ogni speranza» (Bussa, p. 26). L’Angius prosegue poi asserendo che è possibile che tale pratica trovasse origine in quella tradizione letteraria greco-latina che attribuiva agli antichi popoli sardi l’usanza di sopprimere i vecchi genitori da parte dei figli quando i primi, raggiunti i 70 anni, diventavano un peso per la famiglia. Nel compiere tale gesto, che si sarebbe concretizzato nello spingere i vecchi genitori in un precipizio, questi «ridevano tenendo come felice ed egregia la morte che ricevessero dall’empia pietà di coloro, cui avevano dato la vita». Da ciò derivava la tradizione relativa al cosiddetto “riso sardonico”, gelwV sardanioV, ricordato anche da Omero. Gli scrittori classici dell’antica Grecia cui fa riferimento l’Angius sono: Zenodoto di Efeso, letterato noto per essere stato il primo direttore della famosa Biblioteca di Alessandria d’Egitto, vissuto tra il IV e il III secolo a. C., che ne parla con riferimento alle tragedie di Eschilo; Timeo, che scrive dopo Zenodoto – si tratta dunque di Timeo di Tauromenio in Sicilia, quasi contemporaneo di Zenodoto, non del filosofo pitagorico Timeo di Locri vissuto nel V secolo ed è evocato da Platone nell’omonimo dialogo. L’Angius, che è impegnato come gran parte degli storici e letterati dell’Ottocento sardo, a stornare dalla nostra isola e dai Sardi la nomea di luogo e di abitanti “barbari”, considera tale usanza riportata dagli autori del mondo classico come un «orribile costume», una «detestabilissima usanza». L’atteggiamento del sacerdote Angius, dunque, sebbene ritenga tale usanza reale perché attestata dalle fonti – in questo quindi diversamente dal Della Marmora – sotto il profilo morale, è di condanna di essa. Ma, sembra dire Angius, à la guerre comme à la guerre, questa è la situazione delle fonti antiche e moderne e non ci possiamo far nulla. Bisogna accettare le cose così come sono.
Attestata per l’antichità dalle fonti classiche, dalla cui tradizione egli la fa direttamente derivare, in età moderna, scrive lo scolopio cagliaritano, di tale usanza «resta ancora tradizione in alcune regioni dell’isola» e per corroborare la sua tesi introduce l’episodio, che parrebbe non riferirsi a Bosa ma a queste altre non meglio definite altre regioni dell’isola, della «giovinetta oliata», ossia di un a ragazza gravemente malata che aveva già ricevuto dal sacerdote il sacramento dell’Estrema Unzione, la quale fa sì che il ministro del culto rimanga accanto a lei perché era terrorizzata «all’arrivo della vecchia che voleva accopparla» (Bussa, p. 26). L’Angius così conclude il breve paragrafo relativo alle accabadoras: «La memoria di queste furie è ancora fresca in Bosa, dove sostengono alcuni esser solamente intorno al secolo XVIII cessata tanta barbarie, sebbene per quanto è riferito da persone di molta etade e autorità debba allontanarsi ancor più dai nostri tempi» (Bussa, p. 26). Sempre nel Dizionario del Casalis due anni dopo, nel terzo volume contenente le ‘voci’ Cabella – Casale provincia, in cui è inserito il lemma relativo a Cagliari, l’Angius, riferendosi a una non meglio precisata località della diocesi di Cagliari, rilevava anche a proposito di accabadoras, l’usanza da queste praticata di asportare dalla stanza del moribondo o dal suo stesso corpo, gli oggetti religiosi ritenuti protettivi e anche, in ultima istanza, di « apporre un giogo alla di lui cervice». (Bussa, p. 27). Viene qui chiaramente evocata una seconda forma di accabadura, ossia l’accabadura rituale, praticata, secondo l’Angius, insieme o in alternativa a quella violenta.
In conclusione – ecco il motivo dell’importanza della testimonianza dello scolopio cagliaritano – egli ha avuto il merito di aver distinto con chiarezza le due forme di accabadura, quella violenta registrata nel 1834, e quella rituale, non violenta, registrata nel 1836. Si tratta di una distinzione fondamentale attorno alla quale si sviluppa il nucleo principale del libro di Italo Bussa.
5. La polemica Pasella-Angius
I dati riportati dall’Angius ebbero un immediato risvolto polemico nel dibattito storico-letterario dell’epoca, svoltosi tra il 1837 e il 1838, con botta e risposta, tra Giuseppe Pasella e l’Angius stesso.
Chi era Giuseppe Pasella (1801-1885)? È un importante figura di intellettuale, magistrato e politico ingiustamente dimenticata. Personaggio poliedrico, egli fu, tra l’altro, un pioniere nel campo degli studi di tradizioni popolati (ha pubblicato la prima raccolta di poesie popolari sarde nel 1833), fondò “L’Indicatore sardo”, il più importante giornale sardo del periodo della Restaurazione nell’isola, che poi cedette nel 1837 ai fratelli Martini), fu uno «spirito inquieto … pieno di interessi culturali» (Birocchi), magistrato che s’impegnò a fondo nella predisposizione della legislazione sull’abolizione dei feudi insieme con Giuseppe Musio, aperto ai fermenti nuovi della cultura europea nel 1843 fu uno dei promotori della rivista cagliaritana “La Meteora” di spiriti liberali, e dopo l’Unità fu anche deputato e avvocato fiscale generale. La sua ideologia è d’intonazione squisitamente razionalista e tardo-illuminista e per questo Bussa si trova molto in sintonia con esso, quasi un ottocentesco “alter ego”. Un sardo intelligente e illuminato, dunque. Egli, nella sua qualità di direttore del giornale cagliaritano “L’Indicatore sardo”, in un articolo del settembre 1837, in cui tra l’altro riferiva dei “limiti” del Vocabolario di Vincenzo Porru segnalati da Francesco Cherubini in una rivista continentale, il quale aveva notato che l’autore del vocabolario campidanese aveva omesso il lemma “accabadura”, pratica ampiamente evocata da Carlo Varese in due suoi romanzi e che egli considerava “immaginaria”, notava anche che l’Angius a tale pratica aveva dato «un’esistenza storica nel secolo XVIII colla prova lucidissima [l’espressione è chiaramente sarcastica] di un tratto di non so quale autore che fioriva quindici o sedici secoli addietro, e venne con tali arnesi intarsiata in notizie di statistica, razzolate senza scelta e con minor giudizio» (Bussa, p. 42). Una stroncatura perentoria dell’Angius, che il Pasella bollava di superficialità e avventatezza, cui lo scolopio cagliaritano rispose molto piccato con una prima Risposta in cui rilevava, tra l’altro, che egli in relazione all’accabadura non aveva fatto altro che riferire le informazioni da lui meticolosamente raccolte sul campo nei suoi viaggi nell’isola. Quanto all’esistenza storica dell’accabadura, Angius poneva a fondamento della sua esistenza il fatto inconfutabile che nella parlata popolare esisteva sicuramente il vocabolo. Esiste il vocabolo nella lingua viva; dunque è esistita l’accabadura e le accabadoras: questo, in estrema sintesi, il sillogismo del l’Angius. Replicava il Pasella in uno scritto del gennaio 1838 che l’Angius non poteva, in un’opera di Statistica quale era il Dizionario del Casalis, accogliere dicerie di costumanze raccolte in modo acritico, ma le testimonianze andavano vagliate alla luce della «severità della storia» (Bussa, p. 43); e la storia dice che di quella barbara usanza dell’accabadura non esiste riscontro alcuno «nella legislazione, nei concili ecclesiastici, nei documenti storici e nella tradizione»; dunque l’accabadura violenta lo studioso serio doveva collocarla «fra le stravaganti e bizzarre fantasie del volgo» (Bussa, p. 43). La seconda e immediata risposta dell’Angius ribadiva la sua posizione, ossia che egli aveva solo riferito, in modo «problematico», di un’usanza molto limitata sotto il profilo della sua diffusione territoriale e che anche gli autori classici la riferivano esclusivamente ad una colonia cartaginese presente nell’isola, dunque riferita ad un ambito territoriale limitato della Sardegna. L’Angius, cioè, a fronte degli incalzanti rilievi del Pasella, andò sempre più limitando la portata delle sue affermazioni sull’esistenza dell’accabadura violenta, anche se ne ribadiva l’esistenza.
6. Gli altri viaggiatori dell’Ottocento e i principali argomenti di Bussa
Come è facile rilevare, tra gli “inventori” della presunta esistenza storica del fenomeno e gli oppositori che ne negavano l’esistenza, la portata delle affermazioni è assolutamente contenuta e circoscritta. Saranno gli scrittori che si sono succeduti in seguito, spinti dall’argomento molto appetibile che sconfinava nell’orrido e rispondeva quindi ai gusti “romantici” dell’Ottocento e ai gusti di attardati “neo-romantici” del Novecento, ad amplificare queste prime notizie sul fenomeno, caricandole di estensioni arbitrarie e immaginarie; vere e proprie superfetazioni.
Gli scrittori dell’Ottocento posteriori alla fase dell’”invenzione del mito”, attentamente esaminati da Bussa, si sono impadroniti delle affermazioni dell’Angius, ma in pratica non aggiungono nulla di nuovo e di sostanziale: si tratta dei noti “viaggiatori” ottocenteschi come Valery che scrive nel 1838, Gaspard de Gregory nel 1847, John Warre Tyndale nel 1849, Antonio Bresciani nel 1850, l’abate-missionario francese Emmanuel Domenech nel 1867, Robert Tennant nel 1885, Charles Edwardes nel 1889 e infine Gustave Vuillier nel 1899. Secondo Bussa, questi frettolosi e superficiali “viaggiatori”, che hanno fantasiosamente amplificato le notizie offerte dall’Angius, giungendo fino ad asserire l’esistenza di un’autentica “corporazione di donne accoppatrici”, non sono in alcun modo degni di fede soprattutto perché le loro affermazioni sono viziate da un pregiudizio di fondo: quello di ritenere di aver visitato e descritto un’isola che nell’Europa civilizzata era rimasta incontaminata e “primitiva”, non diversamente da quanto viaggiatori ed esploratori dei possedimenti coloniali delle grandi potenze europee in Africa e in Oriente andavano scrivendo. Penso, per fare un solo esempio, al viaggiatore tedesco Heinrich von Maltzan, che visitò anch’egli la Sardegna negli anni Sessanta dell’Ottocento, relativamente ai suoi racconti di viaggio in Medio Oriente e nel Nord-Africa. A questo pregiudizio di fondo di questi scrittori occorre aggiungere la loro disarmante superficialità e gli errori pacchiani che si possono rintracciare nelle loro opere. Citerò solo il caso di Charles Edwardes che tra l’altro, a proposito delle fonti classiche dell’accabadura, scrive testualmente: «Val la pena citare, in proposito, Erodoto, il quale si rifà all’autorevole testimonianza di Timeo, che visse intorno al 262 a.C.» (Bussa, p. 37). Erodoto, che visse tra il 484 e il 425 a.C. non poteva certo rifarsi alla testimonianza di Timeo – si tratta evidentemente di Timeo di Tauromenio – vissuto tra il 345 e il 350 a.C.!
Dopo aver riportato, con una puntualità encomiabile, le fonti ottocentesche, Italo Bussa sottopone ad una serrata analisi critica tali fonti dimostrando l’illogicità delle conclusioni dei viaggiatori sotto il profilo razionale e l’inattendibilità storica delle informazioni da loro date. Non è possibile in questa sede seguire nei particolari le argomentazioni del Bussa, che, ripetiamo, sono davvero ammirevoli e convincenti. Sotto il profilo storico, l’argomento chiave di cui egli si serve per dimostrare l’inattendibilità storica di questi viaggiatori è quello suggerito dal Pasella nella sua polemica con l’Angius: l’assenza assoluta, cioè, di documentazione civile e soprattutto ecclesiastica in merito all’accabadura in epoca moderna. Non è possibile, in un periodo in cui la Chiesa post-tridentina, aveva occhi dappertutto per controllare la vita sociale e familiare e la moralità dei comportamenti secondo i rigidi canoni ecclesiastici, che essa non abbia mai rilevato, qualora fosse veramente esistita e praticata, l’accabadura; un’accabadura, a credere all’immaginazione dei viaggiatori, che sarebbe stata praticata addirittura da una sorta di “corporazione di donne accoppatrici”. L’unico documento sinora conosciuto, che avrebbe potuto contenere almeno una fugace menzione dell’accabadura, pratica oggettivamente delittuosa e moralmente inconciliabile con i principi della Chiesa, è un editto del vescovo di Alghero Pietro Frago del 17 aprile 1567. Tale documento, scritto in logudorese e che s’intitola Edictu chi si det publicare a su cleru et pobulu de su episcopadu de Salighera et Uniones d’icuddhu, faghende sa Sancta Visita, enumera 22 pratiche proibite, su cui il clero, anche attraverso la confessione sacramentale, doveva vigilare ed eventualmente denunciare all’Ordinario. Ebbene, tra queste pratiche, nessuna riguarda l’accabadura, pur enumerando pratiche analoghe almeno all’accabadura magica. Infatti la decima pratica proibita e da denunciare parla di soppressione della vita in generale ed enumera gli «aborti, infanticidi, tentati suicidi, omicidi in genere commessi da donne» (Bussa, p.20); ma di accabadura neppure l’ombra. Dice il testo in logudorese che si devono denunciare le «feminas chi apent postu sa poddhigada … o aer mortu o fattu morrer alguna criatura umana o pichinnu». Sebbene tale documento non parli espressamente di accabadura, scrive Bussa, «possiamo almeno prenderlo in considerazione come un utile punto di riferimento» (Bussa, p. 22). Io mi permetto qui di suggerire all’amico Bussa, a ulteriore conferma della sue argomentazioni, la consultazione del Codice di Sorres o Registro di Sorres del secolo XV, di cui è stata recentemente curata l’edizione critica da due allieve di Raimondo Turtas, in cui sono citati «hereticos sismaticos nigromanticos majarzas majarzos […] devinos, devinas», ossia «eretici, scismatici, negromanti, streghe, stregoni, maghi, maghe», ma mai accabadoras.[1] Altri documenti di origine laica o ecclesiastica, anche solo analoghi, relativi alla pratica dell’accabadura violenta nei secoli successivi, quindi neppure per il Settecento evocato da alcuni degli autori ottocenteschi, non si conoscono e pertanto è giocoforza concludere che essa non è mai esistita. Fatto significativo, neppure in quella felice stagione di ricerche di tradizioni popolari inaugurata alla fine dell’Ottocento da studiosi come Giuseppe Ferraro e Gino Bottiglioni, come documentano gli studi di Raffa Garzia e Alberto Mario Cirese, vi è il minimo cenno a tale pratica ed uno studioso del calibro di Paolo Toschi, scrive Bussa, «espressamente dichiara di non credere alla [loro] esistenza» (Bussa, p. 66).
7. Accabadura violenta e accabadura magica
Diverso è invece il discorso per la cosiddetta accabadura simbolica o magica, cui Bussa dedica il capitolo 4° del suo libro, che abbiamo visto essere espressamente richiamata dall’Angius, e dopo di lui e sulla sua scia dal Tyndale e dal Bresciani, e soprattutto dagli studiosi di tradizioni popolari di fine Ottocento che abbiamo testé ricordato. Tale unanimità di riconoscimenti ci esime pertanto dal dedicare spazio all’argomento, non senza aver precisato con Bussa che la terminologia è stata usata per la prima volta da Maria Giuseppa Cabiddu nel 1989, che di pratica magica parla anche il Della Maria (1960) e che «dovremmo più correttamente parlare solo di usanza magica» (Bussa, p. 56).
Ampio spazio viene quindi dato nel libro alle fonti contemporanee dell’accabadura, intendendosi per tali quelle novecentesche e di questo inizio del secolo XXI, cui Bussa dedica il capitolo 5°, il più lungo del, libro, dalla pagina 65 alla pagina 133 (58 pagine). Con la solita sistematicità ed acribia Bussa esamina l’apporto dato all’argomento, salvo errore, da 26 autori, tra cui quello di illustri studiosi come Georges Dumézil e Paolo Toschi che ho appena citato, Francesco Alziator e Francesco Masala, Giuseppe Della Maria, il sacerdote nuorese Raimondo Calvisi, e inoltre Gino Cabiddu e Angelino Usai, Joyce Lussu e Maria Giuseppa Cabiddu, Franco Fresi, Ugo Dessy, Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, Andrea Mulas e Viviana Simonelli, Eliano Cau e Gigi Deidda, i romanzieri Giovanni Murineddu e Michela Murgia, Pier Giacomo Pala, Toni Soggiu e Antoni Arca, Maria Antonella Arras e, soprattutto, Dolores Turchi; dico “soprattutto” perché alla scrittrice di Oliena, che ha dedicato diversi lavori al tema delle accabadoras, non solo Bussa dedica ampio spazio, ma è l’autrice verso cui la critica del nostro “rottamatore” è più corrosiva, anzi sarebbe meglio molto sarcastica e addirittura “violenta”.
8. Gli autori contemporanei
Gli autori “contemporanei esaminati da Bussa possono essere raccolti in tre categorie: 1) gli autori che negano ogni valenza reale all’accabadura violenta; 2) gli autori che rispetto al problema hanno assunto un atteggiamento problematico; 3) gli autori che credono ciecamente che tale genere di accabadura sia realmente esistita e sono, per la cronaca, la maggior parte di quelli che ho sopra citato, sebbene, com’è ovvio, con sfumature diverse.
Tra i primi, quelli con i quali è chiaramente schierato Bussa, egli dimostra di apprezzare in particolare il grande antropologo-critico Paolo Toschi, che abbiamo già citato, che nega l’esistenza dell’accabadura violenta, ritenendola una «pura leggenda», ritiene vera l’accabadura rituale: «Vera è, invece, – scrive il Toschi – l’usanza di togliere dal collo del moribondo le catenelle con le medaglie, lo scapolare ecc., poiché si crede che impediscano all’anima di uscire» (Bussa, p. 66). Tra questi, oltre al Toschi, Bussa si sofferma sul volumetto di Toni Soggiu, che contiene anche una postfazione di Antoni Arca, che giudicano ridicola tale credenza in assenza di qualunque documentazione (cfr. Bussa, pp. 128-129). L’autore che ha posto in termini problematici la questione è Francesco Alziator, che si è occupato di essa nell’opera Il folklore sardo del 1957 e in due successivi articoli del 1961 e del 1963. Secondo Alziator nella tradizione delle donne accabadore di cui hanno scritto gli autori dell’Ottocento, qualcosa di vero doveva pur esserci e per questo auspicava, almeno nella prima opera citata, una ricerca sistematica. Nei lavori successivi egli asseriva che non vi era nessun dubbio sull’esistenza del fenomeno nell’antichità e fino all’enciclopedia bizantina cosiddetta della Suida, in cui la pratica viene data per certa e associata a quella del “sardanios ghelos”, del riso sardonico. Dopo il X secolo, cui è da attribuire l’antologia bizantina, le fonti letterarie, secondo Alziator, tacciono – opinione quest’ultima erronea, osserva Bussa, considerato che del Risus sardonicus tratta esplicitamente Erasmo da Rotterdam negli Adagia (1500).
Quanto agli autori novecenteschi che ritengono certa e storicamente fondata la pratica dell’accabadura violenta, essi sono, per così dire, “legione” e si fondano su generiche illazioni e ancor più sull’acritica accettazione di testimonianze prive di riscontri di fatto. Così, ad esempio, Giuseppe Della Maria, che non ha dubbi sulla storicità del fenomeno, e ha cercato di mettere in pratica il suggerimento di Alziator di una sistematica ricerca sul campo, riporta varie deposizioni apprese in vari centri dell’isola, tra cui quella raccolta a Bitti da mons. Raimondo Calvisi, il quale raccontava di essere stato testimone nel 1906 di un fatto che costituirebbe luna «chiara conferma» dell’esistenza delle accabadoras in età contemporanea. L’episodio narra di una madre che rifiuta di accogliere la proposta di una vecchia che si dichiarava disposta ad abbreviare l’agonia del piccolo figlio (cfr. Bussa, p. 70). Si tratta a ben vedere, obietta Bussa, non di una “prova”, ma di un’illazione del vecchio sacerdote. La stessa obiezione deve farsi secondo l’Autore anche per due altri episodi di accabadura raccontati in un volume dello stesso mons. Raimondo Calvisi, pubblicato nel 1966, intitolato Storie e testimonianze di vita barbaricina (Cfr. Bussa, p. 73).
Sul versante di una seria ricerca sul campo si pongono i due contributi di Gino Cabiddu e Maria Giuseppa Cabiddu. Il primo è autore di una ricerca antropologica pubblicata nel 1966 relativa agli usi e riti tradizionali della Trexenta (Usi, costumi, riti tradizioni popolari della Trexenta), il quale esclude l’esistenza dell’accabadura violenta, che non viene mai menzionata dagli intervistati, mentre conferma i riti di accabadura magica consistenti in atti superstiziosi legati o alla recita di formule ritenute magiche da parte di vecchie fattucchiere o al gesto di togliere amuleti e oggetti sacri dal corpo dell’agonizzante. Maria Giuseppa Cabiddu è l’autrice che abbiamo citato all’inizio e che ha pubblicato sui “Quaderni bolotanesi” del 1989, rielaborazione della sua tesi di laurea, Akkabbadoras: riso sardonico e uccisione dei vecchi in Sardegna. L’analisi compiuta dalla Cabiddu è veramente degna di nota perché fondata su un’attenta indagine relativa al mito del riso sardonico e dell’erba sardonica nell’antichità, delle testimonianze letterarie otto-novecentesche e su diverse testimonianze orali di una vasta area geografica della Sardegna orientale e occidentale compresa tra il Nuorese, la Baronia l’Ogliastra e la Planargia. Ebbene, la conclusione della Cabiddu relativamente alla esistenza della presunta accabadura violenta in epoca recente è che la credenza nella sua esistenza sarebbe frutto di una «rielaborazione soggettiva» da parte di persone non istruite «di elementi culturali disparati, colti e popolari» (Bussa, p. 88), come dimostra l’analisi approfondita da lei effettuata sull’intervista di una persona anziana di Orune sulle accabadoras (cfr. Bussa, pp. 82-88). La credenza nell’accabadura violenta in seno alle nostre comunità la Cabiddu la ritiene analoga a quella dell’esistenza delle streghe e del fenomeno della stregoneria, studiato in Sardegna in particolare da Salvatore Loi. Questo studioso ha dimostrato, relativamente alla credenza nell’esistenza delle streghe che «quanto più veniva esteso dagli inquirenti il campo delle accuse, tanto più aumentavano le denunce, le testimonianze, le confessioni» (Bussa, p. 88). Analogamente nel caso delle accabadoras, «pur trattandosi di fatti inesistenti, la situazione autoproduceva dei mitomani, cioè delle persone che raccontavano straordinarie attività immaginarie come se fossero vere» (ibidem).
9. Gli scritti di Franco Fresi e di Dolores Turchi
Sul versante opposto si collocano i contributi di Franco Fresi e di Dolores Turchi, che scegliamo come due autorevoli rappresentanti del “partito accabadoriale”. Franco Fresi, in un articolo del 1991 (L’ultima femina agabbadori della Gallura) riportava la testimonianza di un vecchio gallurese il quale testimoniava l’esistenza del rito dell’accabadura in Gallura praticata dalla nonna. Il rito era considerato come il rimedio estremo di un’agonia difficile, utilizzato solo nel momento in cui gli altri usi che accompagnavano l’agonia, come l’ammentu e l’accabadura magica con l’uso del giogo (lu juali) non avevano sortito effetto. Solo a quel punto, come rimedio estremo, la femina agabbadori avrebbe fatto ricorso al suo strumento di morte, il màzzero (lu mazzòlu), però in assoluta solitudine, ossia in assenza di testimoni. Anche in questo caso, si asserisce l’esistenza reale, ma nessuno è stato testimone oculare! E soprattutto non si riesce a capire come venisse usato questo màzzero. Eppure esso è diventato l’oggetto più ricercato e più rappresentativo del Museo “Galluras” di usi e costumi tradizionali di Luras (cfr. A. Bucarelli – C. Lubrano, Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femina accabadora, 2003, 3a rist. 2007, in Bussa, pp. 114-117 e A. Mulas – V. Simonelli, L’eutanasia dei poveri, 2004, in Bussa, pp. 117-119).
A partire anni Novanta del secolo scorso Dolores Turchi è stata la scrittrice che ha dedicato maggiore attenzione all’accabadura, che ritiene fenomeno storicamente fondato e certo. Ciò spiega il lungo paragrafo che Bussa le ha dedicato nel suo libro (cfr. Bussa, pp. 90-113, paragrafo 12). Il primo contributo in materia di Dolores Turchi è del 1993: “S’accabadora”. La pratica dell’eutanasia in Sardegna, poi riproposto nel volume Lo sciamanesimo in Sardegna del 2001. L’obiettivo che si proponeva la Turchi è lo stesso che si è proposto Bussa, sebbene la scrittrice olianese giunga a conclusioni opposte: esaminare le testimonianze giunte sino a noi per «poter rintracciare la verità su un argomento così delicato e controverso» (cit. da Bussa, p. 91). Vengono quindi passate in rassegna le testimonianze di cui abbiamo sin qui parlato, compresi i dubbi di Alziator e le convinzioni del Toschi; inoltre l’autrice ha condotto una ricerca sul campo in numerosi centri del Nuorese, dell’Ogliastra e del Goceano (Urzulei, Orgosolo, Benetutti, Bitti, Oliena, Orotelli, Mamoiada, Dorgali, Sarule, Ollolai, Ottana, Samugheo) per giungere alla conclusione che la pratica della acabadura violenta, come avevano scritto il Della Marmora e l’Angius, era divenuta rara già nei secoli XVII e XVIII, diversamente da quella dell’accabadura magica o rituale, «che si è continuata a praticare fino ai primi decenni del Novecento» (Bussa, p. 93); una pratica, quella della “eutanasia”, come preferisce chiamarla la Turchi, che era praticata un un’area non solo italiana (Abruzzo e Romagna), ma anche francese, in particolare l’uso rituale del giogo. In questo primo contributo della Turchi la figura dell’accabbadora è sempre esterna alla famiglia, ma ciò non pare sia da assumere come regola assoluta, essendo la pratica adottata anche da parte dei familiari degli agonizzanti. Nel secondo contributo del 2004, dal titolo I peccati da scontare con una lunga agonia erano sacrilegi, la Turchi ha individuato, come dice il titolo, le colpe gravi del moribondo per le quali, nella credenza popolare, il moribondo avrebbe avuto un’agonia lunga; tra essi la bruciatura del giogo, lo spostamento del termine di confine (sa làcana) nei terreni di proprietà, il furto di attrezzi agricoli, il furto dell’alveare. Fin qui la scritirice di Oliena si muove su di un terreno su cui, ritengo, Bussa non avrebbe grosse obiezioni da fare, anche perché trattasi in prevalenza di pratiche di accabadura rituale.
Ma il lavoro più importante della Turchi è quello pubblicato nel 2008 e s’intitola Ho visto agire l’accabadora, nella quale l’Autrice ricapitola i temi trattati nei due lavori precedenti. La novità consiste nel fatto che ella asserisce di aver «acquisito la certezza documentata» dell’esistenza dell’accabbadora grazie agli scritti di recentissima pubblicazione di Bonaventura Licheri e ad una testimonianza diretta da lei raccolta nel 2008 da «persona che l’ha vista operare» (cit. in Bussa, p. 96).
10. Le disavventure di Eliano Cau e di Dolores Turchi
L’aver individuato come fonte documentaria decisiva le poesie di Bonaventura Licheri costituisce, secondo Bussa, l’elemento chiave per cui l’opera della scrittrice olianese merita la condanna al rogo! Perché? Come dimostra il nostro volterriano e laicissimo inquisitore, l’essersi la Turchi infelicemente impigliata in questo clamoroso falso, ne svilisce tutta l’opera. Infatti, l’opera che la Turchi pone a pietra angolare della sua costruzione storico-letteraria, ossia l’opera pubblicata da Eliano Cau nel 2005 intitolata Deus ti salvet Maria. Testi poetici inediti di Bonaventura Licheri, è un clamoroso falso. Lo ha dimostrato Mario Cubeddu sul N. 99 del 2007 della “Grotta della vipera” in un saggio dal titolo significativo: Poeti ritrovati, poeti inventati. Il tema è assai delicato, per cui Bussa, oltre a trattarne nel lungo paragrafo dedicato alla Turchi, ne parla alle pagine 119-120 del capitolo che stiamo esaminando e inoltre gli dedica un apposito capitolo, l’11°. Esponiamo in sintesi la trama di questo thriller letterario. In pratica il presunto «gesuita Bonaventura Licheri di Neoneli», gloria del paese dell’Alto Oristanese che ha dato vita al famoso Coro a Tenores, sarebbe l’autore di 106 composizioni poetiche, tutte pubblicate da Eliano Cau nel suo libro, alcune delle quali sono espressamente dedicate alla figura delle accabadoras, che proverrebbero da una raccolta custodita dal noto scrittore oristanese canonico Raimondo Bonu di Ortueri. Senonché il Cau, ammesso e non concesso che le poesie appartengano veramente alla seconda metà del Settecento sardo, incorre in un primo malaugurato errore, sebbene ad esso sia staro indotto dallo stesso monsignor Bonu. Egli confonde, cioè, Bonaventura Licheri, ex postulante gesuita e amico del padre Vassallo, vissuto tra il 1668 e il 1733, con Antonio Demontis Licheri, anch’egli di Neoneli, ma prete secolare, vissuto dal 1734 al 1802. Dunque le poesie, ammessa l’autenticità delle composizioni poetiche, sarebbero di quest’ultimo e non di Bonaventura Licheri. Ma, a giudizio di chi vi parla, anche questa colossale svista potrebbe essere considerata, con molta generosità sulla debolezza delle risorse umane, un peccato veniale, se non fosse che le 106 poesie, come ha dimostrato Mario Cubeddu, si sono rivelate essere un colossale falso. Infatti una puntuale analisi filologica ab intra sui contenuti e le scelte grafiche e lessicali hanno rivelato che esse «non possono essere collocate nel Settecento» (Bussa, p. 165), ma si tratta di una falsificazione recente. Dovremo quindi ormai parlare, analogamente alle false Carte d’Arborea, delle Carte di Neoneli fabbricate, secondo Bussa, con lo scopo di rivendicare a Neoneli, la «piccola patria locale», in primo luogo la paternità del popolarissimi inno mariano Deus ti salvet Maria – che Raimondo Turtas da lungo tempo ormai ha certificato essere una traduzione in sardo, fatta quasi ad litteram, di una composizione pubblicata a Macerata nel 1681 «dal gesuita di Todi Innocenzo Innocenti» (Bussa, p. 120) - e in secondo luogo il vanto di essere il luogo che attesterebbe senza ombra di dubbio l’esistenza delle accabadoras, il tutto finalizzato a nobilitare il Coro a Tenores. In queste Carte di Neoneli, infatti, sono contenute, tra l’altro, quattro poesie che parlano espressamente delle accabadoras, «venditrici prezzolata della morte» (Bussa, p. 165), descritte con toni e caratteristiche orride e che «operano con pugnali di osso (ossu saccadore) e con gioghi, trafiggono il cervello impietose, sopprimono con le mani, col veleno, con la soga (fune di cuoio), uccidono gli storpi in tenera età, dilaniando il loro cuore» (Bussa, p. 163). Considerato che le «certezze documentate» di Dolores Turchi derivano, anzitutto, da questa robaccia apocrifa, è facile comprendere quale possa essere il trattamento riservato da Italo Bussa alla sventurata scrittrice, cha lasciamo interamente al lettore.
L’altra “prova” addotta dalla Turchi è la testimonianza fornita da Paolina Concas di Gadoni, la quale ha asserito che attorno al 1940, nel vicino paese di Seulo, ha visto in azione l’accabadora, la quale avrebbe soppresso una moribonda utilizzando su jualeddu posto da costei sotto la testa o sotto il collo della morente, dopo di che avrebbe constatato che tzia Millena – questo era il nome della defunta – era morta. È chiaro che in questo caso, argomenta Bussa, non si è trattato di accabadura violenta bensì di accabadura magica. Se poi la causa del decesso sia da attribuire alle virtù magiche dello jualeddu lo lasciamo credere alla testimone e alla Turchi; non vi è infatti prova di sorta che la morte sia stata provocata dall’oggetto rituale, anzi il buon senso induce a ritenere che il trapasso sia stato del tutto naturale, per cui appare una «temeraria valutazione» (Bussa, p. 100) della Turchi, frutto delle sue «fantasiose convinzioni» (Bussa, p. 101), come «degli altri sostenitori dell’esistenza dell’accabadura violenta» (ibidem), l’aver attribuito all’oggetto rituale la causa della morte. L’episodio attentamente valutato, conclude il Bussa, non ha alcun valore probatorio.
11. L’accabadura violenta è una “bolla” storico-culturale
Non è possibile, per limiti di tempo, insistere oltre sull’analisi fatta da Bussa dei lavori e delle argomentazioni di diversi altri studiosi che hanno asserito l’esistenza storica della pratica dell’accabadura violenta, che è da lui sinteticamente ed efficacemente definita come «un mito senza prove», come recita il titolo del capitolo 6° del libro, considerato che le presunte “prove” sono tutte costituite da testimonianze indirette e che, circostanza del tutto inverosimile, gli archivi, laici o ecclesiastici, non ci hanno restituito «neppure una carta che parli di accabadura e di accabadoras» (Bussa, p. 135); così come è inverosimile ritenere che la Chiesa, vigile e gelosa custode della morale, fosse al corrente della pratica dell’accabadura violenta ed abbia taciuto «perché era connivente con gli usi comunitari, sarebbe stata cioè d’accordo sulla eliminazione degli agonizzanti difficoltosi» Bussa, p. 137), oppure che gli stessi familiari dei moribondi rispettassero una omertà e una segretezza assolute, di cu in nessun caso avrebbero informato il confessore o in generale la Chiesa. Si tratta, scrive Bussa di «posizioni temerarie» che «non paiono … minimamente accoglibili» (ibidem). Ciò sul piano logico e del buon senso. Sotto il profilo più strettamente storico, aspetto da Bussa analizzato in particolare nel capitoli 7-9 (pp. 141-158), non si può non constatare che ci troviamo di fonte a un fenomeno in cui le fonti sono assolutamente silenziose (cap. 7) e la pratica è assente perfino nella narrativa di Grazia Deledda, che sulle «usanze arcaiche e peculiari della Sardegna» (Bussa, p. 140) ha imperniato l’ampio affresco delle sue narrazioni letterarie. Lo stesso si deve dire per la poesia di Sebastiano Satta. Si tratta, in conclusione, come recita il titolo del capitolo 9° del libro, di una “bolla” storico-culturale (cfr. Bussa, p. 149), che non può essere messa in relazione con il mito del “riso sardonico” sia perché la distanza temporale tra i mit5i della letteratura classica e i tempi moderni è tale che la presunta continuità costituisce una forzatura fantastica sia perché già nel 1853 lo Spano, nel suo saggio sul “riso sardonico” aveva dimostrato che il termine “sardonico” o “sardonio” non è sinonimo di “sardo” ma è da ricondurre a località di altre regioni del Mediterraneo, in particolare della Lidia nell’Asia Minore che aveva per capitale la città di Sardi.
Quanto all’aspetto più strettamente linguistico ed etimologico, anche questo diffusamente analizzato dal Bussa, è distorta l’etimologia sostenuta dall’archetipo (prima fondamentale testimonianza) dell’Angius. Il verbo “acabar”, di origine franco- ispanica, significa propriamente “portare a termine, compiere” sia negli idiomi spagnoli che in quello sardo: «nonostante la presenza plurisecolare del verbo [nel nostro idioma] – scrive Bussa – non si trova un solo caso in cui esso sia stato usato, in senso proprio, nel significato di “uccidere percuotendo la testa”» (Bussa, p. 155). Quanto al termine “acabadora”, e anche “acabador” al maschile, esso si trova solo nel Diccionario del 1803, precisando però che «nel lessico spagnolo non vi è alcun significato che possa far pensare alla soppressione di moribondi» (Bussa, p. 160). In considerazione di ciò, scrive Bussa, «tutto … fa ritenere che il termine compaia solo nel secolo XIX i al massimo alla fine del secolo XVIII» (Bussa, p. 161).
12. La “pars aedificans” del libro
Fino al capitolo 11, dunque, noi troviamo quella che potremmo definire la pars destruens del libro, la confutazione o rottamazione del mito. Il libro tuttavia contiene, soprattutto nel capitolo 12 e nelle Conclusioni una pars aedificans, una parte costruttiva. Si passa cioè dalla critica rigorosa fino al limite del sarcasmo e del dileggio, alla critica costruttiva. Ciò Bussa fa nel capitolo conclusivo del suo libro dal titolo Dalla tradizione orale al riflusso sardopellita (pp. 175-198)., in cui egli riprende, nella dimensione di una riflessione metodologica di carattere storico e folklorico, le discussioni e l’evoluzione della connotazione dell’accabadura dal momento in cui hanno avuto inizio nel secondo quarto dell’Ottocento fino ad oggi, sforzandosi di delineare un metodo di ricerca che consenta al lettore di oggi in primo luogo di comprendere il motivo per cui nel passato si sono verificate le distorsioni del problema cui le discussioni in due secoli hanno dato luogo e in secondo luogo di acquisire una metodologia di ricerca, quindi un complesso di regole e di accorgimenti, che aiutino lo studioso e anche il curioso ad evitare di cadere negli stessi errori.
Sotto il profilo del metodo storico e antropologico il tema dell’accabadora rientra nello specifico campo dell’uso delle fonti orali come fonti storiche, della loro legittimità, dei loro limiti e della loro funzione. Rifacendosi al fondamentale saggio dell’antropologo belga Jan Vansina La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, nonché alla lezione del famoso studioso francese di tradizioni popolari Arnold van Gennep, Bussa distingue la “tradizione orale” dalla “storia orale”, intendendosi con la prima la trasmissione di fatti di cui non si è stati testimoni e con la seconda la trasmissione di fatti di cui si è stati testimoni diretti. Vittorio Angius, che sta all’origine della vexata quaestio dell’accabadura, fa riferimento a due archetipi di essa: l’accabadura violenta, riconducibile alla “tradizione orale” e l’accabadura magica o rituale, riconducibile alla “storia orale”. Questi due modelli o archetipi dal 1834 al 1950 sono stati oggetto delle libere interpretazioni dei loro studiosi e hanno subito nel tempo significative trasformazioni e reciproche contaminazioni fino al punto che «la distinzione tra le due tradizioni viene sbiadita, dando luogo a una contaminazione fra di esse e a nuovi sviluppi» (Bussa, p. 181).
Relativamente al modello dell’accabadura violenta, la libertà con cui vengono manipolate le “informazioni indirette” raccolte dall’Angius ha fatto sì che, ad esempio, in merito alle modalità esecutive della stessa l’Angius abbia parlato dell’uso del màzzero per percuotere il cranio o il petto, Smyth abbia introdotto lo strangolamento, il Bresciani il soffocamento, altri il fracassamento del cranio. Quanto al luogo in cui si sarebbe manifestato il fenomeno, l’Angius ha indicato solo la città di Bosa, Smyth la Barbagia e dopo di loro gli epigoni l’hanno mano a mano esteso a tutta la Sardegna. Quanto agli “attori”, Angius parla solo di donne socialmente emarginate, mentre altri parlano anche di uomini ed altri ancora parlano di operatori professionali organizzati in una setta. Se prescindiamo dai romanzieri, tuttavia, fino al 1921, secondo la ricostruzione di Bussa, pressoché tutti gli autori che hanno parlato di accabadura violenta hanno espresso qualche dubbio sulla sua esistenza o si sono espressi in forma non propriamente assertoria. A partire da quell’anno, in cui vede la luce il saggio di Ofelia Pinna sui riti funebri in Sardegna (Riti funebri in Sardegna, Sassari, Gallizzi, 1921), ogni dubbio viene superato e l’accabadura violenta diventa mano a mano presso il “partito accabaduriale”, costituito da «studiosi non professionali del folklore», un’opera pietosa e caritatevole indiscutibilmente esistita e storicamente documentata. Ciò a fronte degli «studiosi professionali», ossia di antropologi – Ferraro, Poggi, Bottiglioni, Toschi, ma anche Cirese e Angioni – i quali o ignorano o negano espressamente l’accabadura violenta. (cfr. Bussa, p 187).
Dopo il 1950, a seguito di importanti fenomeni sociali, economici e culturali, che hanno trasformato profondamente la società, come lo spopolamento delle campagne, l’emigrazione, le modificazioni del sistema agricolo, e la globalizzazione, il tema dell’accabadura diventa fenomeno di interesse collettivo e viene messo in pasto, come avrebbe detto Voltaire, alla «rozza credulità» (Bussa, p. 190). Da parte della cultura massificata l’accabadura diviene oggetto, scrive Bussa, di «una serie sempre più consistente di riflessioni, opinioni, supposizioni, ipotesi, cioè elaborazioni intellettuali, che, sotto la spinta di interessi o idealità politiche e sociali, di concezioni storiche o identitarie, modificano, adattano e sovrastano i modelli dati da Vittorio Angius» (Bussa, p. 190). Gran parte delle ricerche sul tema, fatte le dovute eccezioni che abbiamo già ricordato (Gino e Maria Giuseppe Cabiddu, Toni Soggiu), si lasciano andare a elaborazioni che «sono sempre disancorate da qualsiasi ricerca e appaiono frutto dell’immaginario, cioè della fantasia» (Bussa, p. 191). In questo processo di adulterazione fantastica degli archetipi le due forme di accabadura, quella cruenta o violenta e quella magica simbolica, vengono modificate. «Il precedente impianto conoscitivo, che separava le due fattispecie, viene frantumato, con dispregio delle fonti e del folklore comparato e, peraltro, relativamente a questo aspetto, senza l’apporto di alcuna prova» (Bussa, p. 197).
Tale approccio scorretto al tema, secondo Bussa, raggiunge l’apice negli scritti di Dolores Turchi, presso la quale il problema dell’accabadura assume la valenza di una specificità etnica e identitaria che sospinge la Sardegna e le sue tradizioni nella buia notte di una cultura “primitiva” e “barbara”, “sardopellita”, come la definisce Bussa con un neologismo di suo conio. «Con la Turchi – egli scrive alla fine del suo saggio – risultano marcati i caratteri etnici, o presunti tali, mentre la figura della accabadora viene impastata, nel lungo periodo, con l‘emancipazionismo femminile. La sua opera è una posizione identitaria che può essere inserita a pieno titolo nella cultura sardopellita» (Bussa, p. 198).
13. Conclusioni e osservazioni
Il lungo percorso storico-antropologico-polemico delineato dal Bussa non significa, come egli chiarisce nelle pagine conclusive del suo libro, asserire che in Sardegna come in qualsiasi parte del mondo «non siamo esistite o esistano fenomeni di soppressione di esseri umani particolarmente deboli» (Bussa, p. 199). È del tutto plausibile che vi siano stati e vi siano, in Sardegna come a qualsiasi latitudine, a livello individuale, casi in cui le sofferenze dei moribondi siano state alleviate per l’intervento dell’uomo in presenza di malati terminali o di situazioni problematiche in genere. Cio che «in ogni caso pare da escludere è che siano esistite in Sardegna, usanze, oltre quelle magiche», finalizzate alla «eliminazione dei bambini indesiderati o malformati, degli anziani inattivi, degli infermi non recuperabili» (Bussa, p. 199).
Come tutti sanno, negli ultimi anni il tema è stato e continua ad essere all’attenzione dell’opinione pubblica e il problema dell’eutanasia coinvolge ciascuno di noi e sollecita una presa di posizione. «Da questa situazione del presente – conclude Bussa – possiamo dedurre che nel passato, sia pure su scala di gran lunga ridotta, qualche agonia difficoltosa venisse rivolta con la deliberata soppressione del moribondo. Non avremmo dubbi nel ritenere che queste soppressioni avvenissero ovunque al di fuori di qualsiasi specifica usanza e che anche la Sardegna abbia adottato comportamenti conformi al proprio ambito culturale di riferimento» (Bussa, p. 202).
Ritengo doveroso aggiungere, a margine delle conclusioni di Bussa, alcune considerazioni personali.
Per quanto mi riguarda, devo in primo luogo essere grato a Italo Bussa per questa sua impegnativa e lucida opera di critica di un fenomeno, l’accabadura, che solletica la curiosità e la fantasia, favorendo il rischio concreto di proiettare ancora una volta la nostra isola nella notte buia degli stereotipi pseudo-culturali di ascendenza coloniale che pensavamo fossero già posti doverosamente nel dimenticatoio. Personalmente io condivido in toto la sua analisi e le sue conclusioni e apprezzo moltissimo lo sforzo razionale e metodologico, che ha anche un risvolto generosamente “patriottico”, di liberare con argomentazioni scientifiche la storia secolare dell’isola da questi attardati temi sedicenti identitari “sardopelliti”.
Devo però doverosamente anche osservare che gli strumenti egregiamente da lui usati della critica razionale e di una sana metodologia storico-antropologica in molti punti mal si conciliano con una eccessiva propensione all’annientamento dell’avversario anziché, come esigerebbe un corretto habitus scientifico, alla discussione pacata e civile. Inoltre in molti punti il libro appare pervaso in modo eccessivo da uno spirito volterriano e dissacratore che a me sono apparsi eccessivi e che finiscono per depotenziare un ottimo prodotto intellettuale pieno di acribia e di logica. Per fare qualche esempio, io non riesco a capire come, a pagina 53, egli, dopo aver legittimamente criticato le posizioni di mons. Calvisi, del Bresciani e del Domenech relative all’episodio della giovinetta “oliata”, «la quale sembrerebbe più una favoletta scritta per le scuole normali (elementari) dell’epoca che una testimonianza storica» (Bussa, p. 53), egli poi si lasci andare a considerazioni come questa: «Appartiene senza dubbio alla letteratura edificante, cioè scritta per proporre e sollecitare buoni esempi secondo la morale cristiana. Non è un caso, riteniamo, che i tre ”novellieri” siano tutti ecclesiastici e quindi maestri dell’immaginario» (ibidem). Dove quest’ultima considerazione e generalizzazione riferita al mondo ecclesiastico appare, onestamente, arbitraria e fuorviante, oltre che offensiva. Lo stesso dicasi degli epiteti e del colorito sarcasmo con cui viene accompagnata l’analisi dell’opera di Dolores Turchi e di altri autori del “partito accabaduriale”, che ci pare superino ogni ogni limite di pacato e civile confronto, considerato che alla fin fine, quelle di Bussa e quelle degli “accabadoriali” sono pur sempre delle “opinioni” dal loro punto di vista legittime.
Il dubbio è che l’eccesso di sarcasmo con cui viene condita una polemica lucida e fondata, si trasformi a sua volta in una forma di «provincialismo sardopellita» che l’Autore rimprovera ai suoi avversari. Un tono più pacato sarebbe andato sicuramente a maggior vantaggio del libro, che è un’opera importante. Ma il confronto delle idee, anche acceso, non deve mai trasformarsi in una “zagaglia barbara” di carducciana memoria.
[1] G. Spano, Notizie storico-critiche intorno all’antico episcopato di Sorres, cit., p. 69; «eretici, scismatici, negromanti, streghe, stregoni, maghi, maghe»; G. Spano, Notizie storico-critiche intorno all’antico episcopato di Sorres, cit., p. 69; «eretici, scismatici, negromanti, streghe, stregoni, maghi, maghe».