Ricordando Diego Are. I fratelli Carta di Santu Lussurgiu e l’utopia di una Sardegna migliore (2, fine), di Luciano Carta
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de deghesette.
3. A tutti questi eventi i due fratelli Carta di Santu Lussurgiu hanno preso parte in prima persona: il sacerdote Antonio Giovanni lungo tutto l’arco del periodo cui ho rapidamente accennato, in una posizione che se non fu di primo piano, fu però di tutto rilievo; Pietro Paolo soprattutto nel quadro della lotta antifeudale e in una posizione di assoluta rilevanza nella sua qualità di sindaco di Santu Lussurgiu, subito dopo la ribellione antifeudale del paese nell’ottobre 1800.
Le recenti acquisizioni documentarie sull’attività degli Stamenti nel periodo 1793-1799, appena pubblicate da chi vi parla, hanno consentito di illuminare a giorno l’insostituibile ruolo assunto dai tre bracci dell’antico Parlamento sardo nelle vicende politiche della Sardegna di fine Settecento. Questa stessa documentazione consente di chiarire meglio il ruolo di Antonio Giovanni Carta nel periodo compreso tra il 1793 e il 1800, nonché, indirettamente, di offrire un’ipotesi di interpretazione plausibile per il periodo successivo in cui egli divenne rettore coraggioso e contrastato del paese di Guspini tra il 1806 e il 1823, anno della morte qui a Santu Lussurgiu.
Nella primavera del 1793 gli Stamenti decisero di mandare a Torino presso il sovrano Vittorio Amedeo III una propria delegazione, costituita da sei autorevoli membri dei tre bracci del Parlamento sardo (due per ciascun braccio: Domenico Simon e Girolamo Pitzolo per il Militare, gli avvocati Sircana e Ramasso per il Reale, il vescovo di Ales Michele Antonio Aymerich e il canonico Pietro Maria Sisternes per l’Ecclesiastico) per chiedere al sovrano l’approvazione delle “cinque domande”, ossia di una piattaforma politica unitaria di carattere autonomistico presentata a nome di tutta la “Nazione” sarda. Le “cinque domande” costituirono, nell’ambito del “triennio rivoluzionario sardo”, un atto di fondamentale importanza sia per il contenuto sia per le conseguenze che l’esito negativo della missione ebbe nel prosieguo delle vicende del triennio.
Relativamente al contenuto, diremo in estrema sintesi che le “cinque domande” rappresentavano essenzialmente una solenne e decisa rivendicazione da parte dei Sardi della specificità politica del Regno sardo. In aperta contestazione della pratica assolutistica di governo operata dai sovrani sabaudi, che lungo i settant’anni dacché la Sardegna era passata sotto il loro dominio, l’avevano governata come una colonia, le “cinque domande” ribadivano che la costituzione del Regno non era una monarchia assoluta ma una “monarchia mista”; in virtù di tale specificità costituzionale del Regno sardo, la sovranità dello Stato non apparteneva solo al sovrano, ma apparteneva a pari titolo alla “nazione” sarda legittimamente rappresentata dagli Stamenti, e per essi, dal Parlamento sardo. Il rapporto tra il sovrano e la “nazione” sarda, era un rapporto, come si diceva allora, di carattere pattizio; le legittimità dell’esercizio dei poteri di governo da parte del sovrano discendeva cioè da un patto tra i due contraenti, Sovrano e Parlamento del Regno, titolari a pari titolo della sovranità. Il sovrano in tanto esercitava le prerogative di governo in quanto aveva stretto un patto con la “nazione”; patto che, secondo i principi costituzionali di allora, si concretava, da parte degli Stamenti, nell’impegno a votare triennalmente il pagamento del cosiddetto donativo, ossia le risorse finanziarie necessarie al sovrano per il governo dello Stato, e, da parte del sovrano, nel concedere in cambio, secondo il principio del do ut des (ecco appunto il contratto), i privilegi, ossia le leggi che dovevano regolare la vita dello Stato e della società. Una costituzione e una prassi di governo, non molto dissimile da quella in vigore nell’Inghilterra del Seicento e nella Francia pre-rivoluzionaria. Nel chiedere come prima e principale domanda, da cui discendevano logicamente le altre, la convocazione decennale del Parlamento sardo, le cinque domande denunciavano l’arbitrarietà del governo assolutistico dei sovrani sabaudi, colpevoli di vulnerazione del dettato costituzionale in quanto in settant’anni di dominio non avevano mai convocato l’organo rappresentativo della “nazione”, il Parlamento appunto, che solo in quella sede poteva esercitare quello che con linguaggio moderno possiamo chiamare il diritto di legiferare. Le “cinque domande” erano dunque una inequivocabile rivendicazione di autonomia del Regno sardo nell’ambito degli Stati che costituivano la Corona sabauda. Dirò per inciso che questa tematica viene ampiamente sviluppata nel più noto pamphlet politico del “triennio rivoluzionario sardo”, L’Achille della sarda rivoluzione, redatto e diffuso durante le agitazioni antifeudali del 1796, probabilmente opera di un noto intellettuale di primo piano, il lussurgese don Michele Obino, professore di Decretali all’Università di Sassari, convinto sostenitore dell’Angioy nel periodo di governo del Capo settentrionale, animatore con i fratelli Carta della rivolta lussurgese del 1800, sodale dell’ex- Alternos durante gli anni dell’esilio parigino. Quell’opuscolo si apre appunto con i seguenti assiomi:
Il Reame di Sardegna non è un’assoluta Monarchia. / Il Governo di Sardegna è un Governo misto. / Il Re di Sardegna, oltre al patto implicito che contraggono i Sovrani con le Nazioni, ne ha contratto solennemente ed espressamente uno con la Sarda Nazione, ecc. ecc.
In termini meno dottrinari e più divulgativi, il tema del governo “coloniale” della Sardegna da parte dei Piemontesi, è ripreso nell’inno antifeudale di Francesco Ignazio Mannu Procurade ’e moderare barones sa tirannia, soprattutto nella strofa 32:
“Fit pro sos Piemontesos
sa Sardigna una cuccagna;
che in sas Indias s’ Ispagna
issos s’agattàn inoghe, ecc.
Nella sua qualità di cappellano, ossia di segretario, del vescovo di Ales monsignor Michele Antonio Aymerich, che fu uno dei due ambasciatori dello Stamento ecclesiastico, Antonio Giovanni Carta ebbe un ruolo di rilievo nella missione delle “cinque domande” a Torino. Non solo perché come segretario del vescovo Aymerich ebbe modo di partecipare attivamente a Torino alla redazione dei documenti che accompagnarono la presentazione delle “cinque domande” al sovrano (la redazione di tali documenti, tra cui i più importante è il Manifesto giustificativo delle cinque domande del Regno di Sardegna dalle quali unicamente dipende il necessario risorgimento coll’estirpazione degli abusi, fu effettuata a Torino dai membri riuniti dell’ambasceria tra i primi settembre e i primi di dicembre 1793), ma anche per l’assiduo lavorìo di propaganda che contraddistinse la sua lunga permanenza a Torino (dall’estate 1793 fino alla fine del 1794) in difesa delle rivendicazioni nazionali dei Sardi e per le frequentazioni che egli ebbe nella capitale subalpina con ambienti che guardavano con simpatia alla Francia rivoluzionaria. Inoltre le fonti ci attestano una stretta corrispondenza da lui intrattenuta; in questo periodo della sua temporanea residenza a Torino; con gli amici rimasti in Sardegna, in cui narrava le vicissitudini e le umiliazioni che dovette subire la delegazione stamentaria a Torino. I sei ambasciatori, infatti, non solo non furono ammessi a discutere le istanze della “nazione” sarda in seno alla speciale commissione incaricata di esaminare le “cinque domande”, ma, quando ai primi di aprile del 1794 quella commissione concluse i lavori con un sostanziale diniego su tutta la linea, le decisioni negative non solo non vennero comunicate direttamente ai sei ambasciatori in attesa a Torino, ma il ministro Pietro Graneri a loro insaputa affidò il responso al dispaccio ordinario diretto al viceré. Al danno s’aggiungeva la beffa! I legittimi rappresentanti del Regno non solo non erano stati ascoltati nella fase della discussione del progetto di riforma delle “cinque domande”, ma erano stati ignorati perfino in qualità di latori delle richieste della “nazione”. “Ambasciatori senza parola – ha sentenziato laconicamente il Manno – [i sei deputati] erano anche riusciti messaggeri senza risposta!”.
I resoconti epistolari della delegazione stamentaria a Torino, che raccontavano con tinte forti l’epilogo beffardo e offensivo della dignità della “nazione” della missione, come è attestato dalle fonti, ebbero un ruolo importante nell’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, che portò alla cacciata dei Piemontesi da Cagliari e dall’isola. Tra questi corrispondenti era anche prete Carta.
Il vescovo Aymerich, e quindi anche il Carta, unitamente al canonico Sisternes, non rientrarono in Sardegna subito dopo la conclusione dell’ambasceria, ma vi rimasero ancora per diversi mesi. È in questo periodo che egli, insieme al Sisternes e ad altri patrioti sardi residenti a Torino, assunse un ruolo attivo nel perorare la causa della nomina di funzionari sardi alle più alte cariche dello Stato; ciò avveniva, racconta la Storia de’ torbidi, nel corso delle “sessioni che [tenevano] nella casa di lui [cioè del Sisternes] don Maurizio Sanna, don Salvatore Murgia, Carta, e loro fautori” (Storia de’ torbidi, Cagliari, 1994, p. 53). Fu anche in conseguenza di questo lavorìo presso gli uomini influenti della capitale subalpina che il governo decise di nominare alle più alte cariche dello Stato, subito dopo la cacciata dei Piemontesi, quattro sardi: Gavino Cocco reggente la Reale Cancelleria, Girolamo Pitzolo intendente generale, il marchese della Planargia generale delle armi e Antioco Santuccio governatore di Sassari. Il menato vanto da parte soprattutto del Sisternes di aver contribuito alla nomina dei quattro alti funzionari sardi non piacque al generale della Planargia, che nell’estate del 1794 era ancora a Torino (egli giungerà in Sardegna ai primi di settembre 1794): per questo il generale iniziò a veder male questa pattuglia di sardi, a suo modo di vedere, intriganti, a Torino e fece di tutto per farli espellere dalla capitale e rimpatriarli, come prova la corrispondenza intercorsa col figlio conte di Sindia tra l’autunno 1794 e la metà del 1795. Durante l’estate del 1794, prima che il Planargia partisse per la Sardegna, la Soria de’ torbidi indica il teologo Carta tra coloro che scrivevano ai patrioti cagliaritani lettere illuminanti per segnalare le vere intenzioni con cui il Planargia veniva in Sardegna: vendicare l’onta della cacciata dei funzionari piemontesi e restaurare l’autorità sovrana. I fatti si sarebbero incaricati di provare quanto il teologo Carta e i suoi amici torinesi avessero ragione!
Si radunò perciò nuovamente – scrive l’anonimo autore della Storia nella rievocazione delle vicende che seguirono alla nomina dei quattro alti funzionari Cocco, Pitzolo, Planargia e Santuccio – la mattina successiva delli 6 [giugno 1794] il Magistrato, affine ristabilire o la registrazione, oppure la sospensione delle regie patenti, e il modo altresì di giustificare qualunque loro rappresentanza, ove le cabale avessero ottenuta la vittoria, dovendosi prendere per fondamento il difetto della terna, siccome il teologo Cabras insisteva. Prima che comparissero nel Magistrato gli anzidetti rivoluzionari, si tennero dei particolari congressi dal visconte di Flumini coll’intervento di Sulis, Xiacca, Pintor, e successivamente dal giudice Angioi, ove si lessero e le lettere istruttive del Simon, Cisternes e Bayle, e le altre delli loro subalterni canonico Meloni, e teologo Carta scritte da Torino e dirette ai loro corrispondenti, nelle quali raccomandavano particolarmente d’impegnare ogni ceto di persone, perché di comun accordo venisse il generale Planargia dalli stessi suoi compatrioti ricusato, e si credette molto opportuno di far sentire al marchese di Laconi, che sarebbe egli stesso stato decorato della Gran Croce col titolo di Gran Maestro d’Artiglieria se esso marchese della Planargia non avesse riunito in sé tutti gli onori (Storia de’ torbidi, cit. p. 57).
Rientrato a Cagliari con il vescovo Aymerich attorno alla fine del 1794, prete Carta dovette partecipare attivamente alla vita politica nella capitale se, subito dopo la concitata fase della marcia di Angioy verso Cagliari per chiedere l’abolizione del sistema feudale, egli compare in una lista di soggetti pericolosi, seguaci e fautori dell’Angioy, da togliere immediatamente dalla circolazione e porre agli arresti. Tale lista, che s’intitola Nota delle persone, che questo pubblico ha per sospette nelle attuali circostanze o per essere nota a tutti la loro intelligenza con don Giommaria Angioi, o per essere scandalose le loro sparlate prima e dopo il presente fatto [il fatto è evidentemente la ribellione di Angioy al potere costituito], reca la data del 13 giugno 1796, lo stesso giorno in cui, ormai disperse le schiere del suo improvvisato esercito, Angioy, sul cui capo pende una taglia per reato di ribellione e fellonia, inseguito dalle cavallerie del Marghine, è in fuga verso Sassari attraverso i paesi amici di Santu Lussurgiu, Semestene e Thiesi. Com’è noto, egli s’imbarcherà da Porto Torres sulla via dell’esilio la sera del 17 giugno 1796. Fra i 33 soggetti pericolosi presenti nella Nota citata, che era stata redatta da una sorta di commissione per l’epurazione e avallata dalla Reale Udienza, figurano: quattro componenti della famiglia Simon di Alghero, per i quali si propone il domicilio coatto a Castelsardo poi commutato coll’immediato rimpatrio ad Alghero; don Francesco Ignazio Mannu, l’autore dell’inno antifeudale Procurade ’e moderare, che viene proposto per l’esilio nell’isola di San Pietro; inoltre, si legge nella Nota, “il canonico Giambattista Meloni [questi è l’altro cappellano del vescovo Aymerich] e l’avvocato sacerdote Carta capellano di monsignor d’Ales” con “ordine a monsignore di rinchiuderli senza dilazione” (cfr. L’attività degli Stamento nella “Sarda Rivoluzione”, vol. 24° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae”, a cura di Luciano Carta, Cagliari, 2000, tomo IV, p. 2346, doc. 618/2).
In effetti Antonio Giovanni Carta si costituì nel convento dei padri Mercedari di Villacidro, “per essere io – scrive in una comunicazione al viceré del 27 giugno successivo – dipinto come un nemico del Trono, fautore dei rivoluzionari” (V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari, 1996, p. 133).
È legittimo chiedersi: era o non era il Carta un rivoluzionario? In questa missiva egli nega sdegnosamente di esserlo. A questo proposito occorre fugare una volta per tutte un equivoco, ad alimentare il quale ha fortemente contribuito il singolare libro di Felice Cerchi Paba su Don Michele Obino e moti antifeudali lussurgesi (1796-1803), ricco di interessanti intuizioni ma anche zeppo di fantasticherie storiche improponibili, soprattutto dove insiste sulla presenza in Sardegna nel periodo in esame di logge massoniche e di giacobini. Il fenomeno del giacobinismo in Sardegna in questo periodo fu estremamente limitato. La generica accusa di giacobinismo contro i patrioti del “triennio rivoluzionario” viene dagli oltranzisti, in particolare dal marchese della Planargia e dal Pitzolo, ma è un’autentica forzatura. La gran parte dei patrioti sardi di fine Settecento hanno sdegnosamente rifiutato, come fa nel passo che ho citato prete Carta, in quanto essi erano fondamentalmente dei riformisti moderati che non hanno mai professato una fede politica repubblicana. Francesco Ignazio Mannu, che passa per essere uno dei patrioti più radicali, nell’inno Procurade ’e moderare respinge l’accusa, che gli veniva dal Pitzolo e dal Planargia, di essere giacobino. Ciò egli fa, a nome suo e di gran parte dei patrioti sardi, nelle strofe 28-30:
Timende chi si reforment
disordines tantu mannos,
cun manizzos e ingannos
sas Cortes hana impedidu;
e isperdere han cherfìdu
sos patrizios pius zelantes,
/nende chi fin petulantes
e contra sa Monarchia.
Ai cuddos, ch’in favore
de sa patria han peroradu,
chi s’ispada hana ‘ogadu
pro sa causa comune,
o a su tuju sa fune
cherian ponner, meschinos!
O comente a Giacobinos /
los cherian massacrare.
Però su chelu hat difesu
sos bonos visibilmente;
atterradu hat su potente
e i s’umile esaltadu.
Deus, chi s’est declaradu
pro custa patria nostra,
de ogn’insidia bostra
isse nos hat a salvare.
Quando e chi ha pensato di disperdere i veri patrioti, che sono stati accusati di essere contrari all’istituto monarchico, di essere (ma non lo erano affatto!) dei giacobini desiderosi d’instaurare la repubblica, fino a progettare di massacrarli? La responsabilità della mancata convocazione delle Corti – di cui si parla nella strofa 28 – fu del ministro Galli, istigato dai due alti funzionari Pitzolo e Planargia, esponenti dell’oltranzismo feudale e reazionario, che accusando di giacobinismo i “patrizi più zelanti”, ossia quanti volevano semplicemente l’applicazione delle leggi fondamentali del Regno e l’abolizione dell’obbrobrioso sistema feudale, intendevano annientarli; tali nemici della patria però erano stati abbattuti, cioè assassinati: e infatti Pitzolo e Planargia furono abbattuti, cioè assassinati nel luglio 1795.
Come ho rilevato altrove, la “sarda rivoluzione” non fu, fondamentalmente, una rivoluzione radicale, o giacobina che dir si voglia, ma fu una rivoluzione patriottica di indirizzo moderato: nella sostanza, al di là degli episodi di ira popolare, che nello lotte contro i feudatari pure vi furono, il contenuto politico delle agitazioni fu di segno moderato, direi addirittura “legale”, in quanto si serviva dello strumento legale degli “atti d’unione e di concordia”: il riscatto dei feudi tramite indennizzo, non l’abolizione violenta e cruenta del feudalesimo, fu la vera parola d’ordine della rivolta antifeudale delle campagne. Di qui il rifiuto da parte dei patrioti sardi, o almeno della gran parte di essi, della qualifica di “giacobini”: Prete Carta e Francesco Ignazio Mannu, che pure furono dei riformisti convinti e coraggiosi, rifiutano categoricamente quella qualifica. È questo il contesto storico e politico-ideologico in cui si inserisce l’inno patriottico di Francesco Ignazio Mannu e in cui deve correttamente essere interpretata la vicenda e l’azione politica e sociale di prete Carta.
Un riformista conseguente e coraggioso fu, dunque, prete Carta, come dimostra la sua vicenda biografica successiva alla fine dell’epopea angioiana, quando, nonostante la sanzione del giugno 1796, di cui abbiamo detto sopra, egli continuerà a lottare per l’abolizione del feudalesimo e sarà, insieme al fratello Pietro Paolo, a don Michele Obino, a tutto il paese di Santu Lussurgiu, dopo che a Sassari il tristo giudice Giuseppe Valentino, “l’impiccatore degli angioiani” come lo definisce lo storico Pietro Martini, aveva innalzato le forche contro numerosi patrioti sardi, egli sarà uno dei promotori del moto antifeudale lussurgese dell’ottobre 1800; quando, divenuto parroco di Guspini nel 1806, continuerà a lavorare concretamente per la “felicità della Sardegna”, creando una scuola per i bambini di ambi i sessi nella sua parrocchia, e soprattutto favorendo lo spirito associativo tra i braccianti più poveri di Guspini, che egli guiderà a proprie spese nella bonifica della palude di Urradili, i cui terreni poi farà assegnare ai braccianti stessi che avevano operato la bonifica. Fu certamente questa sua convinta azione politica e sociale all’origine delle persecuzioni cui fu sottoposto a partire dagli anni attorno al 1815, per cui fu costretto ad abbandonare la parrocchia, a subire un lungo processo per accuse infamanti, a soffrire il carcere.
Ciononostante, nel 1820, fu proprio il rappresentante di quello stesso potere pubblico che lo aveva a lungo perseguitato, l’intendente della provincia di Villacidro avvocato Felice Medda, a rivolgersi a lui per rispondere ai quesiti sulla situazione sociale ed economica della provincia di Villacidro. Antonio Giovanni Carta trasformò quell’incombenza burocratica in un’occasione utile per riproporre tutta la sua concezione di riformista illuminato, redigendo un documento, meritoriamente pubblicato e commentato da Diego Are, dall’autore stesso intitolato La felicità della Sardegna, a voler significare che i mali della provincia di Villacidro sono i mali dell’isola intera.
Si tratta di un documento straordinario in quanto esso conferma, come dicevo all’inizio di questo mio contributo, la cultura illuministica dell’intellettualità isolana formatasi nelle Università sarde riformate del seconda metà del Settecento, una cultura pervasa da passione civile, tutta tesa al raggiungimento del benessere dell’umanità, o, come si diceva allora, la “pubblica felicità”. Basta dare anche una scorsa rapida per rendersi conto dello spirito che pervade quello scritto: la mentalità sperimentale, l’esprit systématique di condillachiana memoria soprattutto nell’uso della statistica e del calcolo come strumenti indispensabili per motivare e dimensionare gli interventi di bonifica (si vedano ad esempio le parti relative alla canalizzazione delle acque e alla creazione di un sistema di “trombe per far rimontare l’acqua”, ossia di pompe idrauliche per creare un sistema di irrigazione nelle campagne (cfr. A. G. Carta, La felicità della Sardegna (1820), a cura di Diego Are, Cagliari, 1999, p. 98); la mentalità fisiocratica e liberista, che postula la creazione della proprietà privata perfetta, riducendo “almeno alla metà – egli scrive – la proprietà con la schiavitù dei pascoli comunali” poiché in quei terreni soggetti a tale servitù “non vi può mai fiorire l’agricoltura” (ivi, p. 89); la mentalità industriale, che sollecita “l’introduzione della manifatture, ed arti” come “l’unico mezzo di far fiorire l’agricoltura, popolare, civilizzare ed arricchire uno Stato aumentandone prodigiosamente le finanze e non produrre il contrario, come i maligni per continuarne la miseria, e dapocagine, in cui trovano il loro conto e interesse, vanno con vecchi sofismi di diminuazione di braccia all’agricoltura e di dogane al Principe, sfacciatamente pubblicando” (ibidem); la necessità di promuovere in generale “la maggior cultura nel popolo, e principalmente nelle donne” (ivi, p.63); la creazione di infrastrutture viarie; creare la piccola proprietà contadina con “dividere i terreni comunali ad ogni Capo famiglia e con questo mezzo rendere proprietari tanti poveri che presi per la gola dai ricchi marciscono nel bisogno e nella bassezza; ma soprattutto, se si vuol mettere a frutto la risorsa fondamentale della nostra isola, cioè la terra, la necessità di “promuovere l’agricoltura con tutto l’impegno possibile, esaminando e riformando i pesi feudali che, mal piazzati, ne sono impeditivi” (ivi, p.57).
Ho fatto solo qualche cenno per segnalare la modernità delle idee di Antonio Giovanni Carta; una modernità che è ulteriormente confermata anche dai testi presenti nella sua biblioteca, opportunamente riportati da Diego Are in appendice al volumetto in cui pubblica l’opuscolo La felicità della Sardegna. Spigolando velocemente tra le opere della biblioteca di Antonio Giovanni Carta, insieme a testi scolastici di autori latini, di diritto, insieme alle opere di storia, di oratoria sacra e di varia letteratura teologica e profana, troviamo numerosi trattati di economia politica e civile, diversi corsi di agricoltura, un dizionario di industria, i catechismi agrari del censore generale Cossu nonché il poema Tesoro della Sardegna del Purqueddu, che ho citato sopra; le opere di alcuni tra i più noti illuministi italiani e francesi, come Spedalieri, Genovesi, Filangieri e Mably; infine l’opera Della pubblica felicità di Ludovico Antonio Muratori.
Ecco, è forse quest’opera del Muratori che, meglio di qualunque altro elemento, ci aiuta a capire la mentalità e la cultura di intellettuali come Antonio Giovanni Carta, o di conduttori e proprietari d’azienda come Pietro Palo Carta: una mentalità e una cultura permeata dai valori tipicamente settecenteschi della scienza ed della conoscenza finalizzate al raggiungimento della “felicità” dell’uomo, del suo benessere; una mentalità progressiva permeata di filantropia e di un fortissimo amor loci, di amore e di attaccamento alle memorie patrie, secondo l’insegnamento appunto del Muratori. A una mentalità progressiva e filantropica permeata da una genuina ispirazione cristiana e da forte amor patrio si ispirava, come abbiamo cercato di mostrare, l’azione di prete Carta; a quella stessa mentalità si ispirava la volontà testamentaria di Pietro Paolo Carta, che legava tutto il suo patrimonio alla fondazione di un istituto d’istruzione a Santu Lussurgiu: un gesto analogo, mi pare opportuno ricordarlo in questa sede, a quello di un altro importante personaggio delle lotte antifeudali di fine Settecento, Francesco Ignazio Mannu, l’autore dell’inno antifeudale morto nel 1839, tre anni prima di Pietro Paolo Carta, che donava il suo cospicuo patrimonio all’Ospedale civile di Cagliari, sebbene nessuno si sia mai curato di dare al pubblico un segno tangibile di tanta filantropica generosità.
Sviati dalle nostre mal digerite nozioni scolastiche – e con questo concludo – noi siamo abituati, quando ci riferiamo al secolo dei Lumi, alla cultura illuministica, a ridurla a quella che potremmo definire la componente “radicale” dell’illuminismo, ad autori come Voltaire, Diderot, Rousseau, Raynal, D’Holbach, Helvétius, ecc.E’ giusto invece, oltre che storiograficamente corretto, ricordare che il secolo dei Lumi è un secolo complesso e che nella cultura dei Lumi trovano posto, insieme agli autori che ho citato, anche autori assertori di una “visione del mondo” più moderata, come Genovesi, Filangieri, Muratori, che fanno parte di quell’importante filone della cultura del secolo dei Lumi che la più recente storiografia definisce la corrente dei “cattolici illuminati”. A questo ambiente culturale vanno ascritti molti dei patrioti sardi del Settecento, tra cui Antonio Giovanni Carta; anch’essi fanno parte a pieno titolo della cultura dei Lumi; anch’essi, se posso esprimermi con il titolo dell’opera di Franco Venturi, il più grande storico dell’illuminismo italiano ed europeo, sono attori non marginali del Settecento riformatore.