Ricordando Diego Are. I fratelli Carta di Santu Lussurgiu e l’utopia di una Sardegna migliore (1), di LUCIANO CARTA

Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de seighe.

1. Diversi anni fa, per onorare la memoria Diego Are, un personaggio lussurgese benemerito della cultura sarda, uno di quei silenziosi operatori che tanto bene hanno fatto nei contesti locali in cui hanno vissuto e che dovremmo doverosamente trasmettere ai posteri i meri, non pochi, che si sono guadagnati sul campo, volli compiere un tuffo nel passato tale da offrire plasticamente il nesso che lega il presente col passato.

Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000) è stato, tra l’altro, il fondatore dell’Istituto “Carta-Meloni” di Santu Lussurgiu (NELLA FOTO), in quei locali che, per diversi decenni, aveva ospitato la Scuola gestita dai Salesiani e ancor prima, agli inizi del Novecento da privati, come sanno in particolare, quanti hanno letto la vita di Gramsci di Giuseppe Fiori.

A me parve, allora, e pare ancora oggi, che Diego Are abbia vissuto un’esperienza abbastanza comune per quanti, intellettuali e no, provengono da un paese dell’interno: un’esperienza di immedesimazione nei “compaesani” del passato, che consente di stabilire un nesso tra lui e i fondatori dell’Istituto “Carta-Meloni”.

Dunque, quale nesso può stabilirsi tra due personaggi nati nella seconda metà del secolo XVIII e i problemi della Sardegna di oggi e di uh paese della Sardegna dell’interno, nel caso specifico di Santu Lussurgiu? Ha qualche senso, al di là della pura erudizione storica e del pur doveroso ricordo di un meritorio gesto filantropico quale è stato il lascito dei lussurgesi Pietro Paolo Carta e Giovanni Andrea Meloni per la fondazione di una scuola, indagare sulla vicenda biografica dei fratelli Carta, due personaggi minori nel quadro delle vicende storiche della Sardegna di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento?

A questi interrogativi legittimi io non esito a rispondere che non solo ha senso questa rivisitazione, ma essa costituisce il modo forse più idoneo per ricordare la figura di Diego Are, che nella sua attività di studioso di cose patrie, di docente di Storia e Filosofia nonché di preside dell’Istituto d’Istruzione Secondaria Superiore “Carta-Meloni”, ha sempre sostenuto la necessità di operare nel presente facendo tesoro della memoria storica del nostro passato, ponendosi in una linea di continuità con i valori che la memoria storica ci consegna; in una parola, recuperando e arricchendo nel nostro agire la nostra identità culturale.

Ho conosciuto Diego Are e ho conversato con lui in una sola circostanza della mia vita, in occasione di un evento culturale che mirava proprio al recupero della memoria storica di un grande maestro dell’identità sarda dell’Ottocento, Giovanni Battista Tuveri, l’inventore dell’espressione “questione sarda”. Diego Are mi fu presentato nel 1987 a Collinas dall’amico sassarese professor Antonio Delogu, docente di Filosofia Morale all’Università di Sassari, in occasione del convegno di studi sulla figura di Giovanni Battista Tuveri, organizzato per celebrare i cento anni dalla morte del filosofo di Collinas. Io facevo parte allora della Redazione della rivista storica “Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico”, diretta da Girolamo Sotgiu, rivista che era anche promotrice del convegno tuveriano. La presenza di Diego Are a quel convegno costituisce una delle tante dimostrazioni del profondo e convinto interesse con cui egli si occupava di tutti i problemi relativi alla “questione sarda”. Are era convinto del fatto che, per quanto l’espressione “questione sarda” sia stata coniata dal Tuveri nella seconda metà dell’Ottocento, i problemi della Sardegna affondano le radici nella storia a tutto campo della nostra isola, e, relativamente ai valori propri della Sardegna contemporanea, essi affondano le proprie radici e germogliano nell’ambito della Sardegna del Settecento, nel secolo dei Lumi. Ed è questo il motivo per cui egli ha voluto, or sono pochi anni, rivisitare e pubblicare un’importante relazione inedita sulla Felicità della Sardegna (tipica espressione della filosofia civile del Settecento) scritta da Antonio Giovanni Carta, l’intellettuale lussurgese formatosi nella temperie culturale del secolo dei Lumi su cui intendo concentrare l’attenzione.

Tutti sappiamo che il Settecento è un secolo fondamentale per comprendere i valori fondanti della civiltà occidentale contemporanea: nel Settecento si ritrovano i “germi della contemporaneità”. È difficile pensare a un uomo contemporaneo la cui “visione del mondo” non comprenda i “grandi veri” dell’Ottantanove, le grandi conquiste di civiltà della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese, i principi di libertà, eguaglianza, fratellanza, i principi della democrazia, della sovranità popolare, della Stato di diritto, del suffragio universale, della divisione dei poteri dello Stato; in poche parole dei valori contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese nell’agosto del 1789.

È in questa temperie culturale che dobbiamo idealmente proiettarci se vogliamo comprendere nella giusta dimensione personaggi, pur minori, come Antonio Giovanni e Pietro Paolo Carta, vissuti tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento sardi. Anche la Sardegna di oggi – lo possiamo affermare senza paura di essere smentiti in sede di ricostruzione storica – è in certa misura figlia di quel secolo, nella misura in cui, come cercheremo di dire brevemente, è figlia del secolo dei Lumi. Come la più recente storiografia ha posto in evidenza, il Settecento sardo, in particolare il “triennio rivoluzionario sardo” del 1793-1796, o se si preferisce, allargando l’arco cronologico, il periodo compreso tra il 1793 (invasione francese) e il 1812 (congiura di Palabanda), ha costituito per la Sardegna un periodo cruciale della sua storia, uno di quei momenti di svolta che ha condizionato in modo determinante il suo futuro e ha rappresentato, di conseguenza, un punto di riferimento obbligato per l’azione politica e per l’ispirazione ideale delle generazioni successive che si sono battute per il riscatto dell’isola da una condizione di subalternità e di arretratezza. Secondo la storiografia più accreditata e secondo anche un sentimento comune molto diffuso, quegli anni drammatici rappresentano l’alba della Sardegna contemporanea: in quel periodo, infatti, i sardi hanno maturato una nuova e forte coscienza nazionale (si pensi alla vittoriosa resistenza contro l’invasione francese nel 1793), hanno affermato la volontà di edificare un più moderno assetto statale fondato sull’autogoverno (si pensi alle riforme invocate con la piattaforma delle “cinque domande” e al significato complessivo della cacciata dei Piemontesi e alle sue conseguenze negli anni 1794-95), hanno lottato per cancellare dalla società sarda l’anacronistico sistema feudale (si pensi al movimento antifeudale capeggiato dall’ alternos Angioy nel 1796). Sull’onda dei grandi avvenimenti che sconvolgevano l’Europa, molti sardi vissuti in questo periodo hanno vagheggiato l’instaurazione di una società nuova fondata sui valori della libertà e dell’eguaglianza, sugli immortali principi dell’Ottantanove. In breve: in quel periodo la Sardegna  ha compiuto uno sforzo grandioso, anche se nell’immediato poco fortunato, di camminare al passo con i nuovi valori che l’Europa era venuta elaborando durante il secolo dei Lumi e della Grande Rivoluzione.

Terminato, con la sconfitta che tutti conosciamo, il generoso tentativo dell’Angioy di abbattere l’anacronistico sistema feudale in Sardegna, non terminarono le agitazioni delle popolazioni sia rurali che urbane per ottenere condizioni di vita migliori e per mitigare, se non per cancellare, il governo “coloniale” della Sardegna da parte della Casa Savoia. Ne sono testimonianza le rivolte antifeudali di Thiesi e di Santu Lussurgiu dell’autunno 1800, il tentativo insurrezionale della Gallura nel 1802, guidato dal prete giacobino Francesco Sanna Corda, ex parroco di Torralba, e dal notaio Francesco Cilloco, due seguaci dell’Angioy esuli in Corsica, la congiura di Palabanda nel 1812, i cui promotori, come l’avvocato Salvatore Cadeddu e il conciatore cagliaritano Raimondo Sorgia pagarono col capestro il disegno d’instaurare un governo liberale nell’isola, l’utopia di una Sardegna migliore.

È nell’ambito di questi grandi avvenimenti che coinvolsero l’Europa intera, l’Italia e la Sardegna di fine Settecento e di inizio Ottocento che vivono i fratelli Carta di Santu Lussurgiu: sarebbe vano sforzarsi di comprendere la loro vicenda biografica, gli ideali e i propositi che ne animarono l’azione, qualora non venissero calati nel complesso contesto di questo particolarissimo momento storico vissuto dai Sardi, qualora le loro figure non venissero studiate nell’ambito del grande turbine politico e sociale, nella bufera rivoluzionaria di fine Settecento, unitamente ai personaggi più noti del movimento patriottico sardo di fine Settecento.

2. Occorre innanzitutto, soprattutto in relazione al sacerdote Antonio Giovanni Carta – che nacque a Santu Lussurgiu nel 1764, frequentò l’Università a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta del Settecento, conseguendo la laurea in Teologia e in leggi, in utroque iure come si diceva allora – delineare l’ambiente culturale nel quale si forma la sua personalità. Orbene, è fondamentale ricordare che egli si è formato in una delle due Università sarde riformate dal ministro Lorenzo Bogino nel 1764-1765; nelle due Università sarde riformate circolava una cultura rinnovata, aperta alle istanze nuove della cultura del secolo; in quelle Università l’intellettualità isolana del secondo Settecento aveva ricevuto quella formazione e quell’apertura di idee che costituisce, come è stato giustamente osservato, l’incubazione della rivoluzione sarda di fine Settecento.

Antonio Giovanni Carta appartiene, dunque, a quella generazione di intellettuali, tra cui sono da annoverare Giommaria Angioy (n. 1751), Domenico Alberto Azuni (n. 1749), Gerolamo Pitzolo (1748), i fratelli Domenico, Matteo Luigi e Gianfrancesco Simon di Alghero (nati rispettivamente nel 1758, nel 1761 e nel 1762), Ignazio Musso (n. 1756), Nicolò Guiso, Efisio Luigi Pintor (n. 1765) – tutti protagonisti, se si eccettua l’Azuni, della rivoluzione sarda – formatisi nelle Università sarde riformate dal ministro Bogino nel 1764-65, forniti di una cultura umanistica e politico-giuridica solida e, soprattutto, partecipe delle problematiche e delle aspirazioni proprie dell’intellettualità europea del secolo dei lumi. Nelle due Università riformate questa generazione di intellettuali era stata allieva di valenti insegnanti come Giambattista Vasco, Francesco Cetti e Francesco Gemelli, che avevano profuso nell’insegnamento universitario sardo una ventata di cultura rinnovata, improntata allo spirito del secolo, l’esprit systématique, per riprendere l’espressione di Condillac, ossia il metodo sperimentale che predilige l’osservazione diretta della natura, della realtà sociale, dei fenomeni economici. Così Giambattista Vasco, uno tra i più rappresentativi illuministi italiani, docente di Teologia dogmatica nell’Università di Cagliari negli anni 1764-67, nelle sue lezioni utilizzava alcune voci dell’Encyclopédie, come ha documentato Franco Venturi in un suo importante saggio; rientrato in Piemonte Vasco pubblicherà nel 1769 l’opera ispirata alle teorie fisiocratiche del Quesnay, La felicità pubblica considerata nei coltivatori delle terre proprie. Nel 1776, un docente dell’Università di Sassari, l’ex gesuita novarese Francesco Gemelli, offriva una trattazione del problema della riforma fondiaria in Sardegna secondo coordinate ispirate alle teorie fisiocratiche, sinonimo di liberismo economico, nell’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura; l’opera sull’assetto fondiario in Sardegna era stata espressamente commissionata al Gemelli dal governo piemontese in vista di una riforma del sistema feudale e della creazione della proprietà perfetta onde incoraggiare l’intraprendenza di una nascente e timida borghesia terriera. Tra il 1774 e il 1777 l’abate Francesco Cetti, anch’egli docente dell’Università di Sassari e seguace del celebre naturalista francese Buffon, autore dell’Histoire naturelle, pubblicava in tre volumi la splendida Storia naturale della Sardegna, impreziosita da pregevoli tavole a colori (quest’opera è stata recentemente ristampata dall’editrice Ilisso di Nuoro a cura di A. Mattone e P. Sanna).

La nuova cultura universitaria era inoltre permeata da una rinnovata sensibilità per la storia patria e da una particolare attenzione in ambito giuridico ai fondamenti e ai fini della società, che traevano ispirazione, oltre che dalla tradizione giusnaturalistica e contrattualistica, dalla grande lezione di Ludovico Antonio Muratori sia sul versante della ricerca storica che su quello della filosofia civile, espressa questa nell’ultima opera del grande intellettuale modenese, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni prìncipi, pubblicata un anno prima della morte del grande modenese, nel 1749. Rifacendosi espressamente all’opera Rerum italicarum scriptores del Muratori, Domenico Simon aveva iniziato, tra il 1785 e il 1788, la pubblicazione della collana intitolata Rerum sardoarum scriptores, di cui uscirono due volumi, tra cui, significativamente, il breve compendio di Sigismondo Arquer, vittima dell’Inquisizione, Sardiniae brevis historia et descriptio. Esempio significativo del rinnovato impegno civile dell’intellettualità isolana è la letteratura didascalica del secondo Settecento sardo, redatta sia in lingua sarda che italiana, tra cui ricorderemo: il poema giovanile dello stesso Domenico Simon intitolato Le piante (1779); i catechismi agrari di monsignor Giuseppe Maria Pilo vescovo di Ales (Discorso sopra l’utilità delle piante e della loro coltivazione  per uso della diocesi di Ales  e Terralba, 1779) e del censore generale Giuseppe Cossu (tra i tanti catechismi agrari del Cossu ricordo solo il bilingue Moriografia sarda, ossia catechismo gelsario proposto alli possessori di terre ed agricoltori del Regno sardo, 1788-1789, nonché in lingua sarda  le due Istruzioni po coltivai su cotoni, 1806 e Istruzioni po sa cultura e po s’usu de is patatas in Sardegna, 1805); il poema bilingue del parroco di Senorbì Antonio Purqueddu, Del tesoro di Sardegna nel coltivo de’ bachi e gelsi canti tre / De su tesoru de sa Sardigna, 1779 (di quest’opera è stata recentemente curata da Peppino Marci l’edizione critica per i tipi della CUEC); il trattato del sassarese Antonio Manca dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, 1780 (di quest’ultima opera sono state fatte recentemente due ristampe, una a cura di Gian Giacomo Ortu per l’editrice Ilisso di Nuoro e l’altra a cura ancora di Peppino Marci per la Cuec).

Questa nuove temperie culturale interagiva, com’è ovvio, con il contesto locale e con le condizioni politiche ed economiche della Sardegna del Settecento: i principi della fisiocrazia e del liberismo economico, applicati alla situazione sarda, comportavano uno scontro decisivo col sistema feudale che costituiva il principale ostacolo per la loro concreta affermazione; l’impegno civile per il riconoscimento della specificità della costituzione del Regno sardo era ostacolato dal sistema coloniale di governo del Piemonte sabaudo, che oltre a vanificare le prerogative costituzionali della nazione sarda, impediva alla nuova intellettualità la concreta partecipazione al governo dello Stato interamente affidato ad una burocrazia esterna famelica e incapace; il rinnovato interesse per la storia consentiva di individuare in un passato lontano una sorta di età dell’oro o di stato di natura in cui la Sardegna viveva arbitra del proprio destino e libera dalle catene del giogo feudale.

La linfa nuova immessa nella cultura, compenetratasi con le condizioni oggettive della realtà politica e sociale dell’isola, costituì la precondizione della nostra rivoluzione e il terreno su cui poggiava le formazione culturale e la “visione del mondo” di intellettuali riformisti come Antonio Giovanni Carta, di conduttori d’azienda come Pietro Paolo Carta, tipico rappresentante della borghesia rurale che si affaccia timidamente alla ribalta storica proprio a cavallo tra Settecento ed Ottocento. Furono questi intellettuali e questi “borghesi” ante litteram del contesto sociale ed economico della Sardegna di allora gli ispiratori e gli artefici di quel decennio portentoso e fondamentale della Sardegna contemporanea, i cui momenti cruciali sono rappresentati dalla  vittoriosa lotta dei sardi contro l’invasione francese (1793); dalla cacciata dei Piemontesi (1794); dalla prima esperienza di governo autonomo dei sardi durante l’estate 1794; dalla lotta intestina tra l’anima riformista e l’anima conservatrice del partito patriottico che avrà il suo epilogo nell’estate 1795 negli assassinii politici dei capi del gruppo legato all’oltranzismo reazionario del ceto feudale (l’intendente generale Pitzolo e il generale delle armi marchese della Planargia); dalla ribellione delle popolazioni rurali del Logudoro contro l’iniquo sistema feudale, che esprimerà la propria volontà di riscatto dal feudalesimo attraverso l’originalissimo istituto degli “strumenti di unione e di concordia”, che si proponeva di giungere all’abolizione della giurisdizione feudale attraverso lo strumento legale del riscatto dei feudi tramite indennizzo; dal fatto portentoso rappresentato dalla conquista di Sassari, cittadella dell’oltranzismo feudale, da parte di un esercito contadino alla fine di dicembre 1795; dallo sfortunato tentativo dell’alternos Giovanni Maria Angioy, mandato a governare il Logudoro in rivolta tra febbraio e giugno 1796, di abolire il sistema feudale; infine dal persistere dell’agitazione feudale negli anni successivi all’esilio dell’Angioy, agitazioni promosse dai suoi seguaci, che avranno il loro epilogo proprio con la rivolta antifeudale dei villaggi di Thiesi e di Santu Lussurgiu nell’anno 1800. (1. CONTINUA)

 

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