Pietro Maurandi, Hombres y dinero. Storia di passioni, congiure e delitti nella Sardegna spagnola (Cagliari, Cuec, 2010), di Luciano Carta
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de bindighe. La Sardegna del Seicento nel romanzo storico dell’economista cagliaritano (nella foto).
1. Tra le tante chiavi di lettura che questo romanzo storico può offrire, ritengo sia opportuno, anzitutto, segnalare due aspetti: l’aspetto narrativo e l’aspetto storico-politico. Non ritengo infatti sia sufficiente limitarsi al solo aspetto “letterario”, considerate soprattutto le motivazioni che l’autore dichiara stare a fondamento della sua opera, ossia, in primo luogo, raccontare uno dei più celebri – se non il più celebre – giallo storico della storia della Sardegna; in secondo luogo, cercare di “comprendere” (nel senso weberiano dal verbo di “comprensione interpretativa” del periodo storico in cui la vicenda si svolge) la Sardegna spagnola, un periodo della nostra storia a torto vilipeso e sminuito – ma le cagioni di ciò tutti le conosciamo -, che possiede al contrario tutti i titoli per essere annoverata tra i periodi della nostra storia con la S maiuscola; la Sardegna spagnola non costituisce affatto un periodo di decadenza e di cesura, ma i problemi politici, economici, sociali e culturali della Sardegna di allora rientrano a pieno titolo in quel continuum che costituisce la vita e la civiltà di ogni popolo nel corso dei secoli.
2. Partiamo, dunque, anzitutto, dall’aspetto che ho genericamente definito “letterario” e con esso vediamo di delineare la “trama” del romanzo.
Nel maggio 1665, pochi mesi prima della morte (sarebbe scomparso il 17 settembre di quell’anno) Filippo IV d’Asburgo re si Spagna (1605-1665) nominava viceré di Sardegna don Manuel Gomez de los Cobos, marchese di Camarassa, località catalana in provincia di Lleida, nella co-marca di Noguera, già viceré di Valencia dal 1659 al 1663. Poteva sembrare un normale avvicendamento nella carica luogotenenziale di governo della nostra isola e così di fatto finse di considerare l’evento la corte di Madrid.
Per i Sardi le cose non stavano proprio così. Vi era in essi la legittima aspettativa che un nobile capace e valorosa militare sardo, don Bernardino Mattia Cervellon, governatore dei Capi di Cagliari e della Gallura, che per la terza volta consecutiva svolgeva le funzioni vice-regie nell’interim di nomina del nuovo viceré, potesse finalmente essere elevato a quelle suprema carica di governo dell’isola. Si sarebbe trattato della prima volta per un sardo sardo-spagnolo! I Sardi subirono, dunque, ancora una volta, una profonda delusione, che generò forte scontento.
La preferenza data al funzionario catalano Gomez de los Cobos non costituiva però il motivo principale dello scontento della classe dirigente sarda e, con essa e per essa, del popolo sardo, anzi meglio della “nazione” sarda, che da quella nobiltà di origine catalana, era rappresentata; una nobiltà, occorre aggiungere, che a distanza di tre secoli e mezzo dalla conquista aragonese, si era interamente sardizzata.
Le motivazioni profonde dello scontento dei Sardi e della sua classe dirigente in particolare, capeggiata dalle grandi famiglie feudali, nasceva da cause più profonde e più lontane nel tempo.
Il regno di Spagna (costituito da regni diversi uniti nella persona del sovrano e retti ciascuno da ordinamenti propri) viveva nella metà del Seicento il momento più cruciale della propria crisi di decadenza. La lunga Guerra dei Trent’anni (1618-1648) e la politica del conde-duque Olivares, conclusasi con la Pace di Westfalia nel 1648, aveva stremato politicamente e finanziariamente la grande Spagna a causa dell’enorme dispendio di risorse necessarie per sostenere le guerre su tutto il teatro europeo a sostegno dell’Impero e della Controriforma e al termine aveva anche comportato la perdita definitiva delle Provincie Unite, la Repubblica Olandese.
Terminata la Guerra dei Trent’anni, le guerre della Spagna non erano finite, costretta dalla politica aggressiva della Francia di Mazzarino, a cedere, con la pace dei Pirenei nel 1659, numerosi territori lungo i confini pirenaici (Cerdagna e Rossiglione) e dei Paesi bassi spagnoli (Artois e terre borgognone) e successivamente altri territori a seguito della Guerra di devoluzione (1667-1668) promossa dal Re Sole.
In questa situazione è facile capire il malcontento delle popolazioni di tutto quel coacervo di regni diversi e autonomi, uniti nella persona del sovrano, continuamente sottoposte a drenaggi forzati di risorse finanziarie e umane che il governo centrale di Madrid pretendeva, ma che le popolazioni, ormai stremate da decenni di guerre, non erano in grado di reggere. Inoltre, a questo estenuante drenaggio di uomini e di denaro (hombres y dinero, appunto) non aveva mai corrisposto, per le classi dirigenti, in particolare per quella sarda (il regno di Sardegna rispetto agli altri Stati della Corona aveva sempre goduto di minori privilegi e di minore autonomia), alcuna contropartita vantaggiosa. Alla Corona e al Governo centrale, come dice il bel titolo del romanzo di Maurandi, interessavano solo, per sostenere la politica di potenza e la formazione dei tercios, il nerbo dell’esercito spagnolo, hombres y dinero, carne da macello e risorse finanziarie.
Com’è noto, il prepotente centralismo del Governo di Madrid e il fiscalismo indefesso aveva innescato nei decenni precedenti la vicenda narrata nel romanzo, vasti moti interni di ribellione, dalla Catalogna e dal Portogallo (1640) al regno di Napoli (rivolta di Masaniello 1647) e regno di Sicilia (rivolta di Palermo nel 1647 e di Messina nel 1674). In estrema sintesi, dunque, erano due le fondamentali rivendicazioni dei diversi regni della Corona: da parte delle classi dirigenti l’esercizio dell’autonomia di governo, misconosciuta dal centralismo spagnolo anche se costituzionalmente operante; da parte delle popolazioni l’allentamento della pressione fiscale e la fine delle guerre.
Al progressivo e inarrestabile indebolimento dello Stato spagnolo del Seicento sul piano internazionale, conseguente allo scontro con le Grandi Potenze di allora (Inghilterra, Francia, Olanda e Impero), variamente interessate ad allungare le mani sopra territori continentali e coloniali della Spagna, con la morte del re Filippo IV nel settembre 1665 s’aggiunse una grave situazione di debolezza interna.
Filippo IV alla sua morte lasciava come erede un bimbo di quattro anni, il futuro Carlo II d’Asburgo (1661-1700), per cui il governo fu affidato in qualità di Reggente alla madre, la seconda moglie del defunto sovrano, Maria Anna d’Austria. Malato e deforme, Carlo II avrebbe assunto ufficialmente il potere solo nel 1675, all’età di 14 anni, però sempre sotto tutela della madre o dei suoi ministri, perseguitato dalla leggenda, cui egli stesso a quanto pare dava credito, di una sorta maledizione che avrebbe gravato su di lui. Infatti egli è conosciuto come el rey hechizado, come dire il re affatturato, il re stregato dall’arte di malefiche meigas. Morirà a soli 39 anni nel giorno di Ognissanti del 1700.
3. In questo complessivo quadro di crisi dello Stato spagnolo s’inscrive la vicenda narrata nel romanzo; un periodo in cui la Sardegna, per sovrappiù, fu anche funestata dalla peste (si ricordi il voto a sant’Efisio del 1652, che s’inscrive anch’esso in questo contesto).
Durante il primo periodo di Reggenza Mariana d’Austria fu coadiuvata nell’attività do governo, in seno alla Junta Suprema de Gobierno sedente a Madrid, dal proprio confessore e Inquisitore Generale, il gesuita austriaco Juan Everardo Nithard (1607-1681), che il lettore troverà abbastanza favorevole alle rivendicazioni dei Sardi, fortemente avversato, questo “potente straniero”, dalla nobiltà spagnola, in particolare dal Vice-Cancelliere don Cristobal Crespi marchese di Valdaura, spalleggiato e istigato dal figlio naturale di Filippo IV, don Juan José de Austria. Nel 1669 fu proprio quest’ultimo, a seguito delle disastrose conseguenze del Trattato di Lisbona (1668), che aveva comportato la definitiva perdita del Portogallo, a provocare un pronunciamiento dell’esercito, che egli fece marciare da Barcellona alla volta di Madrid, e a imporre l’esautoramento del Nithard. Un altro influente alleato della Sardegna a Madrid era, inoltre, don Jorge de Castelvì, Reggente del Supremo Consejo de Aragon, fratello di uno dei principali protagonisti della nostra vicenda, don Jayme de Castelvì, marchese di Cea, l’uno e l’altro cugini di don Agustin di Castelvì, personaggio centrale del romanzo, prima voce dello Stamento militare.
Il racconto si apre con il sibilo, nel cuore della notte tra il 20 e il 21 giugno 1668, di tre colpi di archibugio sparati proprio contro don Agustin de Castelvì, che viene poi finito a stilettate da “due sicari” prezzolati nella “carrer Mayor” (o calle Mayor) del quartiere di Castello (l’attuale via Lamarmora). Uno dei due sicari, proveniente dal villaggio dei pescatori di San Avendras, figuro assai noto per il suo squallido mestiere, anche se “nessuno lo disturbava” e ”quando non aveva niente di meglio da fare, aiutava i pescatori nello Stagno di Santa Gilla”, in genere durante la notte, quando i pescatori “venivano a cercarlo nel buio con le lanterne e li aiutava a spingere i cius dentro l’acqua e a tirar su le reti fino all’alba” (p. 9).
Inizia con la descrizione di questa squallida figura di sicario di San Avendras, certo Antonio Ghiani (p. 27) la delineazione plastica e sempre partecipata di numerosissimi popolani della Cagliari dei sobborghi, che costituiscono, a mio giudizio, insieme alla accurata descrizione degli ambienti e dei luoghi della città, uno dei valori aggiunti del romanzo, reso, per questa corale partecipazione del popolo cagliaritano all’intera vicenda, molto accattivante nella lettura.
Tra questi personaggi è necessario, seppure a volo, ricordarne alcuni, perché essi costituiscono, per così dire, l’anima e il sale del racconto; è attraverso questi popolani, che accompagnano il lettore lungo tutto il racconto, che il romanzo storico diviene al tempo stesso romanzo di costume, racconto di un appassionato coinvolgimento corale del popolo cagliaritano a quella che, soprattutto da parte degli storici e letterati che se ne sono occupati (penso a Dionigi Scano, a Francesco Loddo Canepa e, da ultimo, Antonello Angioni), è stata ingiustamente considerata una vicenda che ha interessato solo il mondo privilegiato e chiuso dell’alta nobiltà feudale. E’ soprattutto attraverso questi personaggi popolari che Maurandi riesce a dimostrare che la vicenda non interessò solo il ceto nobiliare, ma coinvolse l’intera “nazione” sarda.
Personaggi, dicevo, vivacemente delineati e immessi come protagonisti nell’azione, come Antonio, “il bastaxiu stampacino più forte di Caller”, popolano laboriosissimo dai mille mestieri, “un asino da lavoro” (p. 11) che “si buttava giù dal letto alle prime luci dell’alba, mangiava pane e formaggio e se ne andava alla Plazuela per aspettare il lavoro del giorno”. Antonio, grande ammiratore del marchese di Laconi don Agustin de Castelvì, scrive Maurandi, “era alto come due sardi, aveva spalle larghe e dure come travi di ginepro stagionate”; nel 1668 aveva vent’anni ed era benvoluto ed apprezzato da tutti perché era “scrupoloso e attento sul lavoro […], era educato con tutti, gli piaceva parlare con la gente, parlava senza difficoltà con nobili e signori, con preti e contadini, non c’era differenza per lui, solo con le donne era un po’ intimidito e non sapeva bene come comportarsi” (p. 12). Oppure come Raimundo, lo squattrinato studente in Medicina, originario di Villamar, che “abitava una stamberga della Marina”, grande amico di Antonio, assai ben informato e sagace nelle cose della politica, che condivideva con l’inseparabile amico stampacino le avventure amorose a pagamento “nella carrer de Calabraga” (p. 12), dove a pagare era sempre Antonio, il quale però veniva ricompensato “dalle fave e dal formaggio che ogni settimana [Raimundo] gli portava dal terreno di suo padre” (p. 13); oppure, ancora, Antiogu, il contadino degli orti di Villanova che ogni mattina vendeva gli ortaggi degli orti di Villanueva nella Plazuela; inoltre le numerose figure popolane femminili, in genere nel ruolo di “serve” delle case nobiliari, come Maria, figlia di un laborioso e onesto pescatore stampacino, la vagheggina di Antonio, che sarà costretto a difendere dalle insane brame di un nobilotto prepotente e spregiudicato; ancora, ad un livello più alto nella scala sociale, il dottor Deonetto, l’avvocato “piccolo e curvo”, versatissimo nella conoscenza della legislazione sarda e della storia del Parlamento del regno, dalla sua istituzione nel secolo XIV, che era il consigliere nato dei nobili dello Stamento militare, ascoltatissimo da don Agustin de Castelvì. Oppure, infine, in questa indicazione solo a titolo d’esempio di alcuni tra i più significativi personaggi “popolari” del romanzo, il giovane archivista della Reale Udienza Pascual, geloso custode e conoscitore puntuale delle cause del supremo tribunale del regno, che è il personaggio del popolo cui Maurandi affida la puntuale e ragionata narrazione del “delitto politico” di don Agustin all’altro personaggio-chiave che compare all’inizio del romanzo: quel don Juan Herrera giurista napoletano, chiamato dal nuovo viceré duca di San Germano, giunto in Sardegna nel dicembre 1668 in sostituzione dell’assassinato Camarassa, per ribaltare le conclusioni della prima istruttoria predisposta dalla Reale Udienza sull’assassinio di don Agustin de Castelvì e del viceré, che aveva accreditato la tesi del delitto politico, per “costruire” il nuovo processo sulla base del movente “passionale”. Ma di ciò diremo più oltre.
Ciò che mi preme sottolineare ancora sull’aspetto narrativo del romanzo, è l’accuratezza e la bravura con cui Pietro Maurandi descrive, insieme al popolo cagliaritano, la Citta seicentesca. Indicherei, a titolo di esempio, a tal fine, la descrizione contenuta alle pagine 15-16 del romanzo.
4. Torniamo ora all’assassinio di don Agustin de Castelvì nel “lugubre silenzio della notte di Castell, nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1668.
Perché questo feroce assassinio? Vediamo di raccontarne il motivo nel modo più sintetico possibile, perché la vicenda, ampiamente svolta nel romanzo, è assai complessa.
Nell’autunno 1665, subito dopo la morte del sovrano, la Reggente Mariana d’Austria aveva confermato al viceré de los Cobos l’autorizzazione alla convocazione, in occasione della consueta scadenza decennale, del Parlamento sardo, le Cortes de Çerdeña “allo scopo di votare il donativo, settantamila ducati all’anno che la Sardegna doveva pagare alla Spagna per i bisogni della Corona” (p. 49). E la Corona spagnola, in quel periodo, “di bisogni ne aveva davvero molti [perché] era impegnata in una guerra lunga, sanguinosa e disastrosa con la Francia di Luigi XIV, e servivano uomini e armi, tutte cose che costano montagne di denari” (p. 48).
I tre bracci del Parlamento, gli Stamenti militare, capeggiato da don Agustin de Castelvì, reale (in rappresentanza delle 7 città reali) ed ecclesiastico, quest’ultimo presieduto da don Pedro de Vico, figlio dell’illustre don Francisco, che era stato il primo sardo a ricoprire il prestigioso incarico di Reggente del Supremo Consejo de Aragona (1627-1644), non ebbero difficoltà a dichiararsi disponibili a votare il donativo, però ad una condizione: che il Governo madrileno accogliesse le domande o privilegi che il Parlamento chiedeva, 25 in tutto, tra cui, irrinunciabile, il “privilegio” – così allora si chiamavano quelle che oggi chiameremmo “leggi” – di attribuire gli impeghi ai Sardi; in altre parole, tutte le cariche politiche, civili, ecclesiastiche, da quelle di vertice a quelle più umili dell’amministrazione burocratica pubblica ed ecclesiastica, dovevano essere date ai nativi dell’isola. Non si trattava di richieste nuove. Fin dai tempi di Ferdinando il Cattolico, nei primi decenni del Cinquecento, la feudalità di origine spagnola (e in generale la classe dirigente isolana), ormai interamente sardizzata, ma fedelissima alla Corona, ambiva all’autogoverno di quella che ormai era divenuta la sua patria.
Altra importante domanda (particolarmente posta in evidenza da Maurandi, soprattutto a dimostrazione del fatto che la piccola e remota Sardegna non era affatto sganciata dai grandi temi e problemi politici che agitavano l’Europa) era quella per cui nessun suddito di S. M. Cattolica, di qualunque condizione, poteva essere arrestato senza un legittimo provvedimento del tribunale della Reale Udienza e che comunque “l’accusato dovesse essere prosciolto se entro otto giorni la Reale Udienza non gli avesse notificato le accuse” (p. 76). In sostanza, secondo la giusta osservazione che Maurandi mette in bocca all’avvocato Deonetto, si trattava della richiesta di introdurre nell’ordinamento giudiziario del Regno sardo l’Habeas corpus, una richiesta che il Parlamento inglese, assai simile al nostro nella sua composizione e nel suo funzionamento, aveva presentato nel 1628, ma avrebbe ottenuto solo nell’Habeas corpus Act del 1679. Con quella domanda il Parlamento sardo, scrive Mauradi, chiedeva fosse sancito il principio per cui “ciascuno sia padrone del proprio corpo, cioè che nessuno possa essere incarcerato senza ordine di un giudice che formuli un’accusa di reato” (p. 76). [Il sunto delle richieste del Parlamento Camarassa nel loro insieme il lettore le trova nelle pp. 75-76 del romanzo].
Secondo i principi e la prassi di quella che è legittimo definire la Costituzione del regno di Sardegna, il rapporto tra il sovrano e il regno, quest’ultimo rappresentato dal Parlamento nelle sue diverse componenti cetuali, era un rapporto di carattere pattizio, che si configurava coma una sorta di “contratto fra eguali con diritti e obblighi da ambe le parti” contraenti, secondo il rapporto del do ut des, cioè secondo un rapporto di scambio. In altri termini, il sovrano aveva diritto di esigere il donativo, ossia l’annuo carico fiscale; in cambio il Parlamento, in rappresentanza della “nazione” sarda, aveva diritto alla concessione dei “privilegi” che di volta in volta, nel corso della decennale riunione del Parlamento, venivano richiesti.
In seguito, soprattutto nel Settecento in occasione dei triennio rivoluzionario sardo del 1793-96, questa teoria contrattualistica sarebbe stata ulteriormente elaborata e precisata in sede di riflessione giuridico-costituzionale e si sarebbe parlato della Costituzione del regno di Sardegna come di un reggimento politico di monarchia mista e non assoluta; una monarchia, cioè, in cui l’attributo fondamentale dello Stato, che è l’esercizio della sovranità, apparteneva a pari titolo al sovrano e al Parlamento. Si tratta di una “sovranità policentrica”.
Sebbene la feudalità sarda fosse percorsa al suo interno da forti inimicizie – nel periodo cui ci riferiamo le due fazioni contrapposte erano quelle che facevano capo alle famiglie Castelvì e degli Alagon, questi ultimi marchesi di Villasor - sulle rivendicazioni di carattere pattizio da presentare all’approvazione del Governo centrale, il donativo in cambio dei privilegi richiesti, i tre Stamenti erano concordi e determinati, incitati e sospinti dalla personalità forte e volitiva della prima voce di quello militare (don Agustin) e autorevolmente sorretti dallo stesso arcivescovo di Cagliari don Pedro de Vico, prima voce dell’ecclesiastico.
È evidente che l’approvazione condizionata del donativo rivendicata dal Parlamento sardo apertosi nel 1665 non poteva essere ben accolta dalla monarchia spagnola, per motivi contingenti e per motivi politici. I motivi contingenti erano rappresentati dalle necessità dell’erario, che doveva affrontare in quella fase spese ingenti per armare gli eserciti che combattevano con il Re Sole e i suoi alleati. I motivi politici erano rappresentati dal fatto che, nel periodo storico di cui parliamo, in tutta l’Europa delle monarchie si andava consolidando l’assolutismo monarchico secondo il modello che stava instaurando in Francia il Re Sole. Dal punto di vista dell’assolutismo e dell’accentramento dei poteri dello Stato, è evidente che una richiesta di autogoverno (è questo il vero senso della domanda degli impieghi ai Sardi) veniva vista come foriera del pericolo di una disgregazione della Monarchia spagnola e di un indebolimento del potere centrale, proprio in un momento in cui era vitale un’azione politica centralizzata.
Il primo scoglio all’accettazione di un’approvazione condizionata del donativo il Parlamento lo trovò nel viceré Camarassa, che nel gennaio 1667 vi si oppose con veemenza, senza peraltro scalfire la determinazione degli Stamenti. Non restava che la carta della trattativa diretta con la regina e con il Governo centrale. Fu così che gli Stamenti decisero di mandare a Madrid una delegazione capeggiata da don Agustin de Castelvì, marchese di Laconi, prima voce dello Stamento militare.
5. Partito da Cagliari nel febbraio 1667, don Agustin giunse a Madrid, dopo un viaggio assai periglioso, quanto mai deciso a sostenere con fermezza la “causa dei Sardi” (p. 70). A Madrid egli poteva contare su appoggi influentissimi a Corte, di cui il principale era rappresentato da don Jorge de Castelvì, reggente del Supremo Consejo de Aragon; addirittura, sebbene per motivi più strumentali che sostanziali, sul favorito della Regina padre Nithard e perfino sulla regina stessa Mariana d’Austria, non insensibile alla causa dei Sardi e, soprattutto, ai consigli di don Jorge. Questi, dal canto suo, fece ogni sforzo per “toccare le corde della benevolenza della regina per i Sardi, della loro lealtà e fedeltà alla Corona” e soprattutto per persuaderla di ciò di cui egli era profondamente convinto: “dare più potere ai nativi – diceva don Jorge alla Reggente – è utile per rafforzare l’unità della Corona” [e inoltre] alla Spagna servono Sardi soddisfatti nelle loro aspirazioni piuttosto che ostili e diffidenti” (p. 71).
Nonostante questi significativi appoggi alla causa dei Sardi, il memoriale che don Agustin presentò alla regina mariana con le 25 richieste delle Cortes de Çerdeña non superò l’ostacolo del potente Vice-Cancelliere del Supremo Consejo de Gobierno, inflessibile assertore della rigida politica di accentramento e convinto che cedere a quelle domande e al presupposto dell’approvazione condizionata del donativo, oltre a intaccare il potere della Corona, sarebbe poi sfociato in un “principio di disgregazione del regno di Spagna, frantumato in diversi piccoli regni, di fatto indipendenti e impotenti” (p. 77). Una visione politica simmetricamente opposta a quella di un fine statista come don Jorge.
Venne il momento in cui l’ambasciatore del Parlamento sardo don Agustin dovette affrontare direttamente il Vice-Cancelliere marchese di Valdaura e da quello che Maurandi definisce lo scontro “all’arma bianca” tra i due, la prima voce risultò essere il vero sconfitto, sebbene avesse difeso, con grande fermezza e dignità di fronte alla boria spagnolesca del suo avversario, il principio dell’approvazione condizionata del donativo. Don Agustin si era perfino dichiarato disposto a ridurre da 25 a sole 5 le richieste stamentarie, fermo restando che l’approvazione condizionata costituiva principio non negoziabile. Egli aveva inoltre rivendicato, con orgoglio e sincerità, di fronte all’albagia e all’odio evidente contro i Sardi del Valdaura, che tutte le casate feudali della Sardegna erano spagnole ed erano leali verso la Corona; esse desideravano solamente governare la loro terra, in nessun caso e per nessun motivo disgregare lo Stato spagnolo. “Noi vogliamo governare la nostra terra – dice don Agustin a Valdaura -, sotto il potere della Corona certo, ma vogliamo governarla noi!” (p. 82). Per Valdaura tali richieste costituivano, egli asseriva, un inaccettabile “ricatto alla Corona”, “un atto al limite della sedizione”, “un grave rischio di disgregazione e di perdita di potenza del regno di Spagna” (p. 81, passim).
Pur sconfitto sul piano politico, don Agustin non cedette però di un passo. Sarebbe rientrato in Sardegna e avrebbe invitato le Cortes a non votare il donativo, come poi di fatto avvenne; esso, infatti, sarebbe stato imposto autoritativamente dal marchese di Camarassa, ignorando la volontà degli Stamenti.
Entrambi questi atteggiamenti avrebbero avuto come conseguenza due assassinii politici: quello di don Agustin e quello del Camarassa. Rientrato in Sardegna alla fine di maggio 1668, don Agustin de Castelvì fu assassinato, per i motivi politici insiti nella sua missione e nella sua determinazione, nella notte tra il 20 e il 21 giugno successivo; ancora per motivi politici e anche di vendetta privata, secondo i canoni etici di allora, in quanto ritenuto responsabile della morte di don Agustin, il 21 luglio successivo fu assassinato il viceré Camarassa. Questa, almeno, fu la conclusione dell’istruttoria processuale fatta dalla Reale Udienza nell’estate del 1668.
6. Don Agustin era tornato da Madrid portandosi dentro un’altra sconfitta, questa di carattere affettivo e familiare. Con una lettera anonima gli era stato rivelato che la sua giovane moglie, appena venticinquenne, donna Francisca Zatrillas marchesa di Siete Fuentes, se la intendeva con un brillante e avvenente rampollo della famiglia degli Aymerich, il ventunenne don Silvestre.
È a questo punto che, nel romanzo, con la vicenda politica s’intreccia, mirabilmente raccontata dall’autore con la tecnica del contrappunto, la vicenda passionale.
Differentemente da altri autori che si sono occupati del nostro “giallo” secentesco – mi limito a far riferimento ai già ricordati Dionigi Scano, Francesco Loddo Canepa e Antonello Angioni – Maurandi, sotto il profilo strettamente processuale, è il solo a sfatare con decisione e con adeguata argomentazione logica, la “favola” dell’assassinio per motivi passionali di don Agustin. Questa tesi è la novità che contraddistingue quest’opera rispetto a tutti gli altri autori che ne hanno trattato. Eppure quella del delitto passionale fu la conclusione del secondo processo, voluto dal nuovo viceré, il feroce duca di San Germano. Questi, dopo aver annullato il primo processo già interamente istruito dalla Reale Udienza, che riteneva politico il movente dei delitti e individuava i mandanti e gli esecutori negli ambienti della corte viceregia – in particolare la viceregina donna Isabella di Portocarrero – e nei pochi nemici del marchese di Laconi, annidati nell’alta burocrazia spagnola e nella famiglia degli Alagon di Villasor, ne costruì uno nuovo, interamente fondato sul movente passionale. Compito che egli affidò, come si è accennato all’inizio, a don Juan Herrera, appositamente chiamato da Napoli e che poi, al fine del romanzo, troveremo attanagliato dai dubbi e dal rimorso sul suo operato, per cui, quasi a titolo di espiazione, abbraccerà lo stato religioso.
Non è possibile in questa sede seguire nei particolari la vicenda passionale, raccontata con tatto e con delicatezza dall’autore, che in questa parte del romanzo delinea un affresco vivace e affollato della società dell’epoca: le viscerali contrapposizioni tra le figure femminili delle grandi casate feudali; le diatribe quotidiane ma anche la saggezza e gli intrighi delle numerose figure di popolane dei sobborghi; l’esistenza grama del popolo di Stampace, Marina e Villanova contrapposta a quella dei “signori” del Castell; la vita violenta e gaudente dei rampolli della nobiltà (vedi, ad esempio, il personaggio di don Miguel dos Passos, originario di Barcellona e feudatario di Las Plassas, che s’invaghisce e insidia la giovane popolana Maria, fidanzata di Antonio, il bastaxiu stampacino, e la rapisce); la vita degli artigiani dei sobborghi organizzati nei gremi; la vita non sempre esemplare delle numerose fraterie cittadine; le inquietanti trame di fra’ Jorge, il francescano del convento di San Benedetto, confessore di donna Francisca Zatrillas, che tradirà il segreto confessionale rivelando alla marchesa di Villasor, grande nemica dei Castelvì e di donna Francisca, il suo amore per don Silvestre, elemento su cui verrà interamente costruito l’impianto del delitto passionale, ecc. ecc.
Il fatto che Maurandi sia convinto che il delitto passionale sia una “favola”, una tragica favola appositamente costruita dal duca di San Germano, non significa, ovviamente, che egli sostenga che tra i due giovani amanti non vi sia stata una fortissima attrazione; nella narrazione di Maurandi si è trattato di una “tresca”, se vogliamo usare questa brutta parola, pudica, che non trascese in tradimento coniugale dell’attempato don Agustin da parte di donna Francisca, almeno finché il marito fu in vita. Donna Francisca fu però molto imprudente, quando, allontanatasi da Cagliari per recarsi nei suoi feudi subito dopo l’assassinio di don Agustin e dimorando in Cuglieri nel Montiferru, non pose più ostacoli all’amore per don Silvestre e lo visse liberamente, coronandolo con il matrimonio nell’ottobre 1668, appena quattro mesi dopo l’assassinio del marito, anche in questa circostanza spintavi, secondo la narrazione di Maurandi, dal confessore don Jorge, istigato dalla marchesa di Villasor.
Ma questa bella e avvincente storia d’amore il lettore deve gustarla da solo, senza ulteriori indicazioni del recensore. Una delicata storia d’amore, che, perfidamente fatta assurgere a causa di due delitti politici trasformati in delitti passionali, continuerà a intrecciarsi – ecco un altro aspetto che rende molto artificiosa la tesi del delitto passionale – con la fedeltà assoluta alla “causa di Sardi” sia in donna Francisca che in don Silvestre; quest’ultimo pagherà con la vita, a soli 24 anni, sullo scoglio dell’Isola Rossa, tre anni dopo, per il tradimento del fosco avventuriero sassarese don Jayme Alivesi, la sua fedeltà a questa causa e al sogno del riscatto della Sardegna dal dispotismo del potere assoluto.
7. Con l’assassinio di don Agustin e del viceré Camarassa, la “RIBELLIONE” dei Sardi contro l’assolutismo spagnolo non fu domata. Essa continuò, capeggiata dal mite e irresoluto don Jayme Castelvì, marchese di Cea, Procuratore Reale e fratello del Reggente del Supremo Consejo de Aragon don Jorge. Tre anni durerà la sua avventura di capo dei ribelli, fortemente sostenuta da tutto il popolo sardo. Una ribellione, la sua, alla quale egli non seppe dare concretezza, perché gli mancava la spregiudicatezza e l’ardimento di don Agustin, ma anche perché troppo leale verso la Corona e troppo legato alle sue radici di nobile sardo-spagnolo.
Dopo il rovesciamento della verità processuale e l’affermazione del movente passionale dei due assassinii, il nuovo viceré conte di San Germano iniziò la lunga e feroce repressione, processando non meno di duecento persone tra nobili, borghesi, ecclesiastici, popolani, irrogando numerose condanne al carcere e alle galere, esiliando (la vittima più illustre fu l’arcivescovo don Pedro de Vico) ed erigendo numerosi patiboli contro i patrioti sardi (vedi elenco parziale in D. Scano, Donna Francesca di Zatrillas, Cagliari, 1942, pp. 214-217). Tra i condannati a morte erano, ovviamente, il marchese di Cea, ritenuto il mandante dell’assassinio del viceré Camarassa, e donna Francisca con don Silvestre, ritenuti mandanti ed esecutori di entrambi i delitti.
Il marchese di Cea cercò rifugio prima a Sassari, sua città di origine, quindi a Ozieri, infine nelle balze di Monte Nieddu, in Gallura, protetto dalla banda del fuorilegge tempiese Ludovico Rizo, già distintosi nella guerra delle Fiandre, che “faceva la vita di bandito, da quando aveva accoltellato per vendetta chi gli aveva ucciso un fratello” (p. 304).
Nel maggio 1670 il marchese di Cea, che fino all’ultimo, con lettere e memoriali al viceré e alla regina, protestò la propria lealtà alla Corona di Spagna e affermò la legittimità della ribellione dei Sardi, si rifugiò a Nizza, territorio del Duca di Savoia, dove, dall’agosto 1669, si erano rifugiati anche donna Francisca con il marito don Silvestre e il loro figlioletto.
Da Nizza i contatti tra il marchese di Cea e gli altri esuli con la Sardegna continuavano; anzi, i frequenti smacchi subiti dall’azione repressiva del viceré erano segnali positivi di un persistente malcontento delle popolazioni che, opportunamente guidate, potevano ancora provocare un incendio rivoluzionario.
E’ in questo contesto di speranza di un perdurare della rivolta antispagnola che s’inserisce il tradimento del nobile sassarese don Jayme Alivesi, “una specie di avventuriero vissuto tra carceri e banditi [e che] si era macchiato di numerosi delitti” (p. 315). Trasferitosi anch’egli a Nizza nelle simulate vesti di servitore della “causa dei Sardi”, qui ebbe numerosi incontri con don Silvestre Aymerich e con don Francisco Cao, ai quali illustrò il suo progetto di ritornare in Sardegna per sollevarla in armi contro la tracotanza e la prepotenza del duca di San Germano, partendo dalla Gallura.
Sebbene non fosse convinto del progetto e fosse molto diffidente nei confronti dell’avventuriero sassarese, alla fine gli amici convinsero anche il capo, il marchese di Cea. Nel maggio 1671 partirono da Nizza quattro uomini: il marchese di Cea, don Silvestre Aymerich, don Francisco Cao e l’Alivesi, più un domestico del marchese. Il piano prevedeva che i quattro sarebbero sbarcati sull’Isola Rossa, nella costa gallurese a Nord di Castell’Aragonese. Solo l’Alivesi avrebbe preso terra per contattare i capi delle bande di banditi, che avrebbero fornito le prime truppe del presunto esercito di liberazione. Durante una sosta in Corsica ai quattro si aggregò don Francisco Portogues. Giunti all’Isola Rossa il 27 maggio, Alivesi, secondo il piano, raggiunse la costa. “Su quella piccola striscia di roccia frastagliata dal vento di maestrale, i quattro si trovarono soli con il fragore del mare che batteva sugli scogli in un posto popolato di falchi e di conigli selvatici” (p. 319).
Alivesi fu di parola. Tornò sull’Isola Rossa con un nerbo di gente armata; alla sera festeggiarono, cenarono e bevvero tutti lautamente; la mattina successiva tutti avrebbero preso terra e sarebbe iniziata la ribellione, la marcia armata dei Sardi contro il viceré.
Nella notte, invece, scattò la trappola del traditore Alvesi.
Era l’alba – scrive Maurandi -, il mare era più fragoroso che mai e uno spicchio di luna bianca era rimasta in mezzo al cielo, quando don Jayme fu svegliato da urla disperate, da rumori metallici di spade e da spari di archibugi che squarciarono il cielo. Quando s’affacciò guardingo fuori della tenda con in mano il pugnale, seguito dal suo servo armato di fucile, nella poca luce dell’alba vide che la trappola dell’Alivesi era scattata. Gli si presentò orribile spettacolo: davanti alla loro tenda distrutta stavano i corpi esanimi di Cao, Portogues e Aymerich, che erano stati trucidati. Ma la cosa più orribile era che sopra i poveri corpi martoriati stava palesemente soddisfatto, don Alivesi sorridente (p. 321).
Il marchese di Cea fu temporaneamente risparmiato. Egli serviva vivo, per essere pubblicamente offerto, nella capitale del regno, a perpetua infamia e a monito truce, sull’altare del Moloch del potere, per la celebrazione del più raccapricciante politico auto da fè di cui la storia del popolo sardo conservi memoria.
La mattina dopo, il 28 maggio 1671, dall’Isola Rossa, scrive Maurandi, “nell’aria tiepida di maggio, si mosse una macabra processione, che attraversò tutta la Sardegna, con le tre teste mozzate montate sulle picche per esporle al popolo, seguite dal marchese di Cea in catene e dal suo servo fedele, ben scortati da compagnie di fanti e cavalieri” (p. 323).
Il dramma della ribellione dei Sardi seguita al Parlamento Camarassa si compì a Cagliari due settimane dopo. La macabra processione giunse nella capitale, dopo dodici giorni, il 9 giugno; le teste dei tre nobili furono esibite per tutta la città e poi riposte di fronte al luogo dove era stato assassinato il Camarassa, nella calle de los Caballeros. L’esecuzione del marchese di Cea, condannato a morte per il delitto di “lesa maestà”, fu fissata per il 15 giugno 1671. Nel corso della settimana, in attesa dell’esecuzione, il viceré duca di San Germano e il marchese di Cea ebbero il loro primo ed ultimo incontro nelle carceri della torre di San Pancrazio. Al viceré che chiedeva al capo dei patrioti sardi il motivo che lo aveva spinto a quello che egli definiva “un aperto atto di ribellione” (p. 325) contro lo Stato, il marchese di Cea rispondeva pacatamente: “Ormai mi sono convinto che voi non capirete mai i Sardi; la nostra tragedia deriva da questo, dal fatto che voi vi rifiutiate di capire che si può essere, con eguale intensità, con eguale onestà, sardi e spagnoli. Ma per voi essere spagnoli vuol dire accettare tutto quello che decide la Corona, senza cercare di capire la Sardegna e i Sardi” (p. 325). La “favola del delitto passionale – continuò il marchese – lasciatela alle vostre sentenze” (ivi). La “ribellione” dei Sardi non si era mai proposta “di staccare il regno di Sardegna dalla Corona spagnola”. “Il nostro obiettivo – concluse il marchese – era di governare la Sardegna nell’ambito della Corona di Spagna” (p. 326).
“Il 15 giugno, alle 5 di sera, don Giayme Artal de Castelvì marchese di Cea, all’età di sessantacinque anni, venne decapitato” (p. 327), sul palco innalzato “nella Plazuela” (l’attuale Piazzetta Carlo Alberto), proprio nel cuore del Castell, che era stato teatro di quelle trame e di quelle tragedie” (p. 327). La testa del marchese e degli altri tre nobili trucidati nell’Isola Rossa “furono chiuse in una gabbia e appese alla torre di San Pancrazio, a monito di quanti potessero coltivare propositi di ribellione” (p. 329). Le teste dei quattro “ribelli” rimasero esposte per ben 17 anni, fino al 1688, quando il Parlamento convocato dal viceré conte di Monteleone ne chiese ed ottenne la rimozione. Il Parlamento non ottenne invece di poter rimuovere la lapide, che esiste tutt’oggi, e che il duca di San Germano aveva fatto apporre, “ a perpetua infamia dei traditori”, sul muro della casa Brondo, dove era stato assassinato il Camarassa, nella attuale via Canelles, dopo che detta casa era stata interamente demolita.
Io ritengo che la conservazione di quella lapide sia stata in certo senso provvidenziale. Essa deve ancora essere conservata e letta, sulla scorta del bel romanzo di Maurandi, “a perpetua infamia” dei carnefici dei patrioti sardi del Seicento che avevano affermato il diritto all’autogoverno e all’autonomia.
8. Il libro di Maurandi, come egli stesso ci ha rivelato nell’agile e nitido pamphlet pubblicato nel 2008, intitolato La ribellione e la rivoluzione. Sardegna spagnola e piemontese (Cagliari Cuec), non è e non ha voluto essere solo una bellissima rievocazione letteraria dei delitti Castelvì e Camarassa, ma ha voluto essere anche l’affermazione di un continuum storico del popolo sardo nella rivendicazione del diritto all’autogoverno lungo i secoli, dall’età giudicale all’età moderna e all’età contemporanea; una dimostrazione che la Sardegna, lungi dall’essere una lontana periferia dell’Europa, ha sempre vissuto nel passato, e vive oggi, all’unisono con i popoli dell’Europa, i problemi propri di ogni epoca, insieme ovviamente ai suoi più specifici problemi. La “ribellione” seicentesca del Castelvì e del marchese di Cea e la “rivoluzione” settecentesca dell’Angioy hanno tante e tali analogie che dimostrano come entrambe le vicende hanno un alto valore politico per tutto il popolo sardo; non si è trattato, nell’un caso come nell’altro, di lotte tra fazioni per accaparrarsi impieghi e prebende, ma si è trattato della “ricerca di strumenti e situazioni di emancipazione da una soffocante presenza della Corona e da un arrogante dominio di ministri e viceré, spagnoli in un caso, sabaudi nell’altro”. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un “tratto comune di ricerca di autonomia per la Sardegna, cioè di una dislocazione di poteri verso i residenti, pur nell’ambito dello Stato spagnolo o sabaudo” (p. 21). Questo è stato, nel suo insieme, “il senso delle richieste del Parlamento del 1666-1668 e di quelle del 1794” (ivi).
E qualora, mi permetto di aggiungere, alla luce della richiamata continuità della vicenda storica di noi Sardi, volessimo esaminare, come la ricorrenza dei 150 Anni dell’Unità d’Italia ci sollecita a fare in quest’anno particolare, il senso della nostra storia più recente, dalla “fusione perfetta” del 1847-48 all’Unità d’Italia, dalla “questione sarda” nell’Ottocento alla questione sarda nel Novecento e nel Duemila, ebbene, a me pare legittimo affermare che il senso, le aspirazioni, i valori per cui hanno lottato i Sardi del Seicento e del Settecento sono gli stessi degli uomini di oggi.
Ed è per questo che questo romanzo storico di Pietro Maurandi, che si inserisce degnamente e a pieno titolo nel panorama letterario della Sardegna, senza voler sminuire i suoi pregi letterari, io dico che esso, prima di ogni altra cosa, è un libro veicolatore dei valori più autentici e profondi della nostra identità storica; è un libro totus politicus.
By Mario Pudhu, 13 novembre 2019 @ 14:15
Tandho sos Sardos, ponimus puru sardos-ispagnolos, isconcados coment’e fedelissimi confessi.
Como sos Sardos…(o sardos-italianos che a su carpesce?) isconcados no a bistrale ma in manera “soft”: sos pes in Sardigna (pardon… nell’isola, antzis nella regione) e sa conca (ma fossis totu sa carena dae sos cambutzos in subra) Oltretirreno (e chentza las apicare in carchi gàbbia a iscrammentu de chie las bidet), cun cambiamentu però de Ovest in diretzione Est.
Totu custu in «ricerca di strumenti e situazioni di emancipazione da una soffocante presenza della Corona e da un arrogante dominio di ministri e viceré, spagnoli in un caso, sabaudi» ma italiani NO. Custos própriu NO.
Sos catedhos nàschidos chentza ogros tiant bídere e nàrrere sa matessi cosa. Fossis fintzas totu sos catedhos suta mesa. Candho sa ‘Dignidade’ docet za est abberu!