Fragili e soli, così cadono i nostri ragazzi, di Susanna Tamaro

Non c’è weekend in cui gruppi di amici non perdano la vita schiantandosi. Queste ecatombi forse nascono nel momento in cui l’obbligo del divertimento ha sostituito la gioia di una festa.

Non c’è fine settimana che non ci riporti la triste cronaca di gruppi di amici che perdono la vita schiantandosi sulle strade al termine di una nottata di sballo in discoteca. Per tentare di arginare questa tragica realtà, si evocano nuove strategie: più controlli, etilometri all’uscita dei locali, mezzi di trasporto che possano riportare i giovani a casa sani e salvi. Interventi sicuramente necessari, e in parte salvifici, ma che non sono molto diversi dal voler delimitare un baratro con un filo spinato. Qualcuno certo si salverebbe ma il baratro sarebbe sempre e comunque lì davanti, con il suo cupo, irresistibile richiamo.

Quello che mi stupisce è che nessuno, dopo questi ripetuti eventi, si fermi e dica: ma che cosa sta succedendo? Che mondo è un mondo in cui divertimento fa rima con stordimento, in cui strafarsi, fino al rischio di perdere la vita e farla perdere ai propri amici, diventa parte di un inevitabile rito settimanale? Che mondo è un mondo dove gli adolescenti si ubriacano a tal punto da non essere più in grado di ricordarsi con chi hanno passato la notte?

La mia generazione è stata la prima cresciuta in compagnia delle droghe. Si beveva anche, soprattutto vino. Farsi le canne, bere era un modo per sentirsi affrancati da un mondo che sentivamo opprimente, una via forse anche per entrare nel magico mondo della creatività. Bevevamo e scrivevamo orripilanti poesie, ci facevamo le canne e ridevamo per ore senza alcun motivo. Alcuni poi si inoltravano nel mondo inafferrabile del buco, si isolavano, sparivano in realtà parallele, partivano in autostop per l’Afghanistan — allora era ancora possibile farlo — o morivano rinsecchiti nel gabinetto di qualche stazione. Diversi miei amici hanno fatto questa triste fine, altri hanno continuato a farsi le canne mantenendo le loro vite nell’ambito di quella che si potrebbe definire una quieta normalità. Intorno a noi comunque c’era un mondo, il mondo delle ideologie, dei grandi ideali di cambiamento per cui era giusto e doveroso combattere. Nel bene e nel male, le nostre vite erano comunque tese nella direzione di una scelta da compiere.

Il grande mutamento è avvenuto alla fine degli anni Ottanta. Un mutamento che ha per me il volto di una ragazza che praticava arti marziali nella mia stessa palestra a Roma. Stava finendo il liceo, era piena di progetti per il futuro. In pochi mesi l’ho vista cambiare in modo drammatico: assente, distratta, arresa. Mi aveva confessato che da qualche tempo tutti i sabati sera andava con un gruppo di nuovi amici in una discoteca di Rimini. Partivano da Roma con la macchina piena di superalcolici e tornavano la domenica sera, sfiniti e strafatti. Era il 1990, avevano fatto irruzione le micidiali droghe chimiche. Questo è uno degli effetti più devastanti dell’uso delle droghe. Vite che partono e poi si arrestano, cominciano a girare intorno senza essere più in grado di intravedere un orizzonte. La circolarità al posto della progettualità.

Queste ecatombi — che prima che di corpi sono ecatombi di anime — da dove nascono? Forse proprio nel momento in cui l’obbligo del divertimento ha sostituito la gioia della festa. Da sempre la festa, in tutte le società umane, esiste per celebrare qualcosa. Nel nostro mondo, molte feste erano dettate dal calendario liturgico: il battesimo, la prima comunione, la cresima, il matrimonio. Più laicamente, i ragazzi festeggiavano la fine del servizio militare, la laurea, la conquista di un lavoro, un qualche successo sportivo. C’erano delle tappe nella vita, e superarle era considerato un fondamentale e socializzante rito di passaggio. Era una festa, anche se di un tipo diverso, l’addio di una persona cara che normalmente veniva accompagnata da abbondanti libagioni. Ora che la morte è diventata solo un breve addio nelle Sale del Commiato, ora che non si battezza più — perché sarà il bambino da grande a scegliere —, che non ci si sposa più — perché l’amore è bello soltanto finché è libero —, ora che lo stesso sistema economico costringe a vivere in una condizione di perpetua e ansiogena precarietà, le giovani generazioni sono le prime e più tragiche vittime di questa visione del mondo.

Non si celebra, perché non c’è più niente da celebrare. La vita conosce solo il giogo della materia e da questo giogo non si può scappare. Non esiste il bene, non esiste la bellezza, non esiste l’amore, né il dono di sé, il mistero è una realtà che non appartiene alle nostre vite. Il velo del cinismo avvolge ormai ogni cosa. O sei cinico, o non sei niente, mi diceva convinta una ragazza di sedici anni. La complessità, la fragilità e la forza di una persona sono scomparse lasciando al loro posto cupe rovine neo darwiniste. Essere duri, essere cinici, essere furbi, farcela: sono questi gli orizzonti in cui sono costretti a muoversi i ragazzi. I giovani che si drogano, che bevono fino al coma etilico, che praticano il sesso seriale, che compiono atti di autolesionismo sul proprio corpo, ci parlano di un tragico vuoto, di totale mancanza di senso e di direzione.

Non sono nati però così, lo sono diventati crescendo in una società che, espropriandoli della voce della coscienza e del principio di responsabilità, li ha trattati — e li tratta — unicamente come consumatori. L’individuo, con il suo culto narcisista, ha divorato la persona. Nel suo cielo non brillano più stelle, ma solo il sibilo dei satelliti. Non c’è orizzonte davanti a loro, alle spalle non hanno alcuna radice in grado di nutrire la loro memoria. Sono cresciuti nell’immediatezza e nell’apparenza, perché questo è il banchetto che è stato preparato per loro. E in questo banchetto, gli adulti al massimo si sono offerti nel ruolo di camerieri. Abbiamo creduto, ci è piaciuto credere, alla favola bella che i cuccioli d’uomo non siano molto diversi dai funghi: nascono da una spora e da quella si sviluppano naturalmente, senza bisogno di alcun intervento esterno.

Ora forse, davanti a tanta distruzione, davanti a tanta disperazione, è venuto il momento di dire che non è così. Non siamo funghi, né meduse, ma una specie con un altissimo grado di complessità. E questa complessità, per svilupparsi nei ragazzi in modo positivo, ha bisogno di essere guidata da regole, paletti e limiti tracciati con fermezza dalla generazione che li ha preceduti. Regole, paletti e limiti che crescendo potranno anche abbandonare — perché questa è la nostra grande e inquietante libertà — ma senza i quali non avranno mai la possibilità di diventare davvero adulti.

Ilcorriere della sera, 18 ottobre 2019

 

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