Correnti illuministiche e fermenti laici nel Settecento e nell’età giacobina e napoleonica, Luciano Carta (terza parte)
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de doighe.
Sommario (terza parte): 6. Le idee del secolo dei Lumi attraverso il canto della sarda rivoluzione e della pubblicistica clandestina. 7. Il primo documento letterario in cui si parla espressamente di “frammassoni”: “Sa Libertade e Iguaglianza” del Solitario di Monte Nieddu (1798 ca.). 8. Una traccia documentaria del 1816. Per una ricerca archivistica e documentaria sulla massoneria in Sardegna tra Settecento e primo Ottocento
6. Le idee del secolo dei Lumi attraverso il canto della sarda rivoluzione e della pubblicistica clandestina
Queste connotazioni del «triennio rivoluzionario sardo» si possono evincere da una mole impressionante di materiali archivistici e fonti letterarie, oggetto di numerosi studi pubblicati nell’ultimo ventennio. In questa sede sarà sufficiente prendere in esame due scritti, nati nel cuore delle vicende del Triennio, conosciuti anche dai non addetti ai lavori: l’inno antifeudale di Francesco Ignazio Mannu Procurade ’e moderare barones sa tiranìa e il libello anti-assolutista L’Achille della sarda liberazione[1]. Troveremo in essi, ancor più evidenti per coerenza e vivacità, quei principi dell’illuminismo che abbiamo visto diffondersi nel trentennio precedente, che ha rappresentato, come è stato efficacemente scritto, quasi un’incubazione del momento alto della «sarda rivoluzione»[2].
L’inno Su patriota sardu a sos feudatarios (meglio noto come Procurade ’e moderare barones sa tirannia), composto dal magistrato ozierese Francesco Ignazio Mannu (1758-1839), che ebbe un ruolo importante durante la «sarda rivoluzione» costituisce la versione poetica del movimento posto in essere dalla circolare viceregia del 10 agosto 1795, con cui venivano invitati i Consigli comunitativi a denunciare i diritti feudali controversi e illegittimamente pagati ai baroni, movimento che progressivamente approda alla richiesta di abolizione del feudalesimo fatta dalle ville attraverso gli «Atti di unione e di concordia». Il contenuto dell’inno si ferma, per così dire, al contenzioso antifeudale così come si era delineato fino al dicembre 1795, prima della svolta radicale dell’espugnazione di Sassari, ma non va oltre e, soprattutto, non incita le popolazioni rurali ad azioni cruente. In sintesi possiamo dire che, essendo l’autore un angioiano convinto, l’inno rappresenta nella sua pienezza il disegno politico di abolizione del feudalesimo a titolo oneroso portato avanti dall’Angioy[3].
L’inno antifeudale non è l’unico documento letterario del triennio rivoluzionario sardo che parli il linguaggio del riscatto politico e sociale dell’isola, anche se è sicuramente il più noto e il più amato dalla tradizione. Durante il triennio ne circolarono diversi altri, sempre anonimi come l’inno, dello stesso tenore, anzi talvolta assai più radicali nei contenuti. Tra questi non si può tacere il pamphlet anonimo, antiassolutista e antifeudale, L’Achille della sarda liberazione, scritto sicuramente da un giurista[4].
Suddiviso in quattro capitoli, il pamphlet esamina la costituzione del Regno sardo da un’angolatura rigorosamente autonomistica; denuncia la costante vulnerazione di essa da parte dei governanti piemontesi, dai quali la Sardegna «viene considerata e trattata come una colonia americana»; pone in risalto la condizione di schiavitù cui sono sottoposte le popolazioni rurali (Schiavitù feudistica s’intitola il paragrafo 3)[5].
Si respirano, nell’inno antifeudale del Mannu come nell’Achille della sarda liberazione, insieme ai grandi temi della lotta al dispotismo e della fiducia nel progresso dell’umanità, temi cari a due illustri massoni del Settecento come Lessing e Condorcet, che non è difficile ritrovare in altri personaggi adepti della Libera Muratoria. Tra questi, il duca Ferdinando di Zweibrücken, di cui riportiamo un passo del discorso pronunciato in occasione della sua iniziazione alla loggia La Candeur di Strasburgo nel 1777. Dopo aver ricordato che il dispotismo feudale era stato introdotto in Occidente dai barbari, asseriva: «il sistema feudale in effetti con i suoi abusi degenerò in un dispotismo dalle cento teste che il giogo di una religione intollerante aggravava ancora più […]. Dei mortali privilegiati si spartivano la terra e i suoi tesori e il popolo gemeva nella servitù senza industria, senza cultura, senza felicità, senza consolazione»[6].
Ciò che occorre chiedersi a questo punto è quali conseguenze ebbe il movimento antifeudale, che nell’autunno-inverno 1795-96 raggiunse l’apice e del quale i due testi letterari citati costituiscono l’espressione più alta e chiara. Ebbene, la conseguenza più radicale di quella sollevazione fu l’azione clamorosa di quell’informe esercito contadino che, sotto la guida dei due «giacobini» Francesco Cilloco e Gioacchino Mundula, conquistò Sassari, sottraendola alla feudalità oltranzista costretta alla fuga. Conquistata Sassari, i due capi «giacobini» accompagnarono come prigionieri a Cagliari le due massime autorità, il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre, mentre i loro seguaci, che appartenevano all’ala radicale del movimento antifeudale, governarono il capoluogo turritano fino all’arrivo dell’alternos Giovanni Maria Angioy il 28 febbraio 1796. Fu soprattutto a questo punto che il viceré, la Reale Udienza e gli Stamenti si resero conto che la radicalizzazione della lotta antifeudale delle campagne era foriera di importanti conseguenze politiche e sociali di vasta portata, che, se anche non avessero portato a radicali cambiamenti di natura politica e al sovvertimento delle istituzioni monarchiche, in ogni caso andavano ben oltre le aperture riformistiche dei mesi precedenti, che intendevano «sanare gli abusi» del sistema, non sovvertirlo.
Si trattava di conseguenze che la gran parte della classe dirigente sarda, fedele alla monarchia e aperta ad un movimento di riforma moderata della società e dello Stato, non poteva accettare, fatta eccezione per i seguaci dell’Angioy, le cui convinzioni in merito alla necessità del superamento del sistema feudale erano note. Per questo il viceré e gli Stamenti fecero di tutto per vanificare l’azione dei due «giacobini», impedendo loro di giungere a Cagliari con i due prigionieri. Mandarono, infatti, incontro al Cilloco e al Mundula, che viaggiavano verso Cagliari con i due prigionieri, una delegazione capeggiata da Efisio Luigi Pintor Sirigu e li fermarono a Uras presso Oristano. I due prigionieri furono presi in consegna dai delegati e furono accolti a Cagliari con tutti gli onori. Ben diverso avrebbe potuto essere l’esito dell’impresa sassarese se Cilloco e Mundula avessero potuto sfruttare la ghiotta occasione di presentarsi a Cagliari con i due prigionieri al cospetto di una folla irriverente e propensa a vedere in essi il simbolo vivente della resa dei potenti alle aspirazioni del popolo.
Nel periodo immediatamente successivo, tra gennaio e metà febbraio 1796, gli Stamenti e il governo viceregio, senza prendere di petto il partito angioiano, iniziarono a minarlo con l’allontanamento da Cagliari del capo carismatico. Blandito con la prestigiosa carica di Alternos, che gli dava pieni poteri, l’Angioy fu incaricato di riportare la calma nel Capo del Logudoro.
7. Il primo documento letterario in cui si parla espressamente di “frammassoni”: “Sa Libertade e Iguaglianza” del Solitario di Monte Nieddu (1798 ca.)
Le vicende dei tre mesi di governo dell’Angioy a Sassari, l’epilogo della sua lotta per l’abbattimento del sistema feudale, con la fuga in terraferma e il tentativo di convincere Napoleone, in una situazione politica internazionale profondamente mutata, ad appoggiare la «sarda rivoluzione», il tentativo di «giustificazione» del proprio operato presso Carlo Emanuele IV tra il 1796 e il 1797, nonché il successivo esilio in Francia, dove morì nel 1808, sono sufficientemente noti perché sia opportuno ricordarli analiticamente in questa sede[7]. Relativamente al nostro argomento, nessuna delle fonti coeve, tra cui il «Giornale di Sardegna» e la Storia de’ torbidi[8], né alcuno storico, hanno parlato di presenza massonica nell’isola in questa fase e in quella immediatamente successiva[9]. I possibili contatti con l’istituto latomistico da parte di numerosi esuli, in Francia come in terraferma, non interessano più la Sardegna[10].
La lotta contro il feudalesimo, negli anni compresi tra la fuga dell’Angioy e il 1802, continuò a scuotere il Logudoro con i tentativi di sollevazione delle campagne nel Sassarese, le rivolte di Thiesi e di Santu Lussurgiu nell’ottobre 1800, l’eroica quanto sfortunata impresa di far insorgere la Gallura nel giugno 1802 ad opera di Francesco Sanna Corda e di Francesco Cilloco[11]. Una repressione feroce colpì i patrioti più irriducibili e a Cagliari si verificarono diverse congiure, ancora oggi dai contorni oscuri, come quelle attribuite al «tribuno» cagliaritano Vincenzo Sulis nel 1799 e al frate dei Minimi Girolamo Podda nel 1801[12]. In tutti questi avvenimenti non si ritrovano indizi di presenza massonica.
È tuttavia opportuno chiedersi: considerata l’assenza di logge massoniche, nel Settecento e ai primi dell’Ottocento il fenomeno era conosciuto nell’isola? In quali termini? Nei testi ufficiali, soprattutto ecclesiastici, è presente il riferimento alla massoneria e ai princìpi da essa professati? Nei testi storici, letterari e poetici è presente il riferimento specifico ad essa?
Abbiamo già detto che non si può assolutamente escludere che la massoneria fosse conosciuta e fossero presenti nell’isola, persone che ut singuli professassero princìpi massonici e fossero adepti di qualche loggia non locale. Ciò si verificò probabilmente presso i militari di guarnigione nell’isola o uomini di mare provenienti dagli Stati di terraferma o da Stati esteri (si pensi, ad esempio, al Reggimento svizzero che incontriamo nel triennio 1793-96); presso la nobiltà piemontese proveniente in particolare dalla Valle d’Aosta e dal Piemonte che occupò cariche di prestigio nell’Amministrazione del Regno; presso la nobiltà o militari sardi che rientrarono nell’isola dopo aver prestato servizio negli Stati di terraferma; presso ricchi commercianti soprattutto delle città marittime, come Cagliari, Alghero, Oristano e Sassari capoluogo del Capo settentrionale; presso letterati, sardi e non, legati ai diversi Ordini religiosi che facevano la spola tra la Sardegna e gli istituti di educazione della penisola; tra i giovani rampolli della nobiltà isolana che, secondo il costume dell’epoca, facevano il tour culturale e l’avviamento professionale nelle maggiori città italiane, in particolare Torino, Genova, Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli[13]. Tutte queste categorie di persone, almeno a livello conoscitivo, non dovevano essere all’oscuro dell’esistenza della massoneria e dell’ideologia massonica. Ciò che manca è la ben che minima prova di un’azione di proselitismo massonico, almeno fino al periodo del triennio rivoluzionario sardo. Non si conoscono, inoltre, riferimenti specifici alla massoneria sia nella documentazione politico-amministrativa che nelle pastorali dei vescovi. Relativamente alle autorità ecclesiastiche, solo nella seconda metà dell’Ottocento verranno pubblicate pastorali di vescovi di condanna della «setta» massonica, di cui le più note sono quelle del vescovo di Alghero mons. Giovanni Maria Filia[14].
Diverso è il discorso quando si affronta la documentazione politico-amministrativa e storico- letteraria del triennio 1793-96. La documentazione di questo periodo, a partire dall’invasione francese, la corrispondenza tra la corte di Torino e il viceré, diversi pregoni viceregi, le pastorali dei vescovi mettono ripetutamente in guardia contro le idee francesi e le trame cospirative che ad esse si rifanno; soprattutto, stigmatizzano i «giacobini» e il «giacobinismo» come portatori di un’aberrante ideologia repubblicana e sacrilega, contraria ai principi della religione e agli ordinamenti monarchici del Regno e perciò stesso punibili come reato di alto tradimento[15]. Il termine «giacobino», nel periodo della contrapposizione tra i patrioti riformisti e i campioni del legittimismo monarchico tra il settembre 1794 e il luglio 1795, costituisce l’epiteto con cui vengono catalogati indistintamente tutti gli avversari di Gerolamo Pitzolo e del Marchese della Planargia nella loro corrispondenza segreta e cifrata con i ministri torinesi e il Conte di Sindia[16]. La scoperta di questa corrispondenza contenente l’accusa di «giacobinismo», infamante per la gran parte dei patrioti, sarà all’origine dei due assassinii politici il 6 e il 22 luglio 1795. Questa accusa, come abbiamo visto nell’esame dell’inno antifeudale Procurade ’e moderare, viene sdegnosamente respinta da Francesco Ignazio Mannu e dai patrioti autonomisti che condividevano le sue posizioni[17]. Lo spirito di setta e l’attitudine alla congiura viene dunque attribuito, nelle fonti di questo periodo, non specificamente alla massoneria, ma ai giacobini e al giacobinismo. Tuttavia, sotto il profilo strettamente lessicale e dei contenuti ideologico-politici, si può affermare con certezza che nel decennio compreso tra il 1793 e il 1802, i termini «giacobino», «frammassone» e «libertino» sono sinonimi, intendendosi con il primo riferirsi a chi professa idee repubblicane, con il secondo a chi si fa assertore di principi di uguaglianza e libertà, con il terzo a persona moralmente e religiosamente eretica e seguace del libero pensiero.
Di tale equivalenza abbiamo una interessante testimonianza in una composizione poetica in Logudorese di un anonimo, Sa Libertade, ed Iguaglianza, di autore che si firma «Il Solitario di Monte Nieddu»[18].
Il carme è una lunga composizione poetica di 37 strofe di versi ottonari di varia lunghezza per complessivi 804 versi. La variante dialettale usata, il logudorese, induce a ritenere che lo pseudonimo dell’autore, faccia riferimento, tra i numerosi rilievi dell’isola denominati «Monte Nieddu», al massiccio compreso nel territorio dei Comuni di San Teodoro, Budoni e Padru, nella Bassa Gallura, presso la costa orientale. Sebbene il componimento non rechi la data, numerosi riferimenti interni ne suggeriscono l’attribuzione ad una fase particolare del cosiddetto «triennio giacobino italiano» (1797-99). Infatti, insieme alla menzione di diverse «Repubbliche sorelle» della Penisola costituite tra il 1797 e il 1798 – la Repubblica Ligure, la Cisalpina e la Romana, ma non quella Partenopea, che verrà costituita nel 1799 – suggeriscono la datazione proposta i riferimenti alla Pace di Campoformio (18 ottobre 1797), data per già avvenuta da tempo, alla campagna di Napoleone in Egitto (aprile 1798-ottobre 1799), descritta come in atto al momento della redazione del testo, così come risulta essere in atto la prigionia inflitta a papa Pio VI, iniziata nel febbraio 1798[19]. Questo insieme di riferimenti interni suggerisce una datazione del poema tra la seconda metà del 1798 e i primi del 1799.
Intento principale della lunga composizione in versi, rivolta a tutti i Sardi in un momento in cui nell’isola si parla insistentemente di una prossima venuta dei Francesi, è la dimostrazione della fallacia, sotto il profilo razionale, religioso e della tradizione, dei due «grandi Veri» dell’Ottantanove: la Libertà e l’Uguaglianza.
Al tema della Libertà, nel manifesto ideologico di questo reazionario legato ai valori dell’Ancien Régime, sono dedicate le prime cinque strofe. I Francesi, avverte il poeta, vogliono ingannare i Sardi, promettendo loro una falsa libertà politica che vuole dar vita ad una «Nazione senza Dio e senza Re»[20]. La libertà è un dono concesso da Dio all’uomo fin dalla creazione e non è una libertà incondizionata ma consiste nella capacità di scegliere tra la virtù e il vizio; la caduta di Adamo, la perdita dell’innocenza originaria è derivata dall’aver l’uomo accettato dal maligno di cibarsi del frutto proibito, ossia dalla volontà di voler diventare simile a Dio e immortale attraverso l’albero della conoscenza. I Francesi oggi vogliono diffondere proprio questa «dottrina infernale» [21] dell’assoluta libertà della conoscenza e dell’azione, che ha condannato Adamo e l’umanità. La Scrittura insegna che la libertà non è assoluta ma è sempre condizionata; libertà vera, infatti, è quella che si raggiunge con l’osservanza dei Comandamenti di Dio. Del resto, la libertà assoluta, ossia la licenza dell’uomo di fare tutto ciò che vuole, non esiste nella legge di natura, che è scritta nel cuore dell’uomo, e si caratterizza per i numerosi vincoli che essa pone a ciascuno, legge la cui massima espressione si ritrova nel Vangelo e nell’insegnamento della Chiesa. Ascoltino, dunque, i «libertini» tale insegnamento e desistano dal diffondere questa esiziale dottrina della libertà assoluta; alla libertà ha posto limiti precisi Dio stesso ed è pazzia negarlo: «Libertinos iscurtade / faghide cantu cherides, / sa libertade, chi endides / andat dae male in peus, / ca l’hat limitada Deus / est locura lu negare»[22].
Se la libertà francese è «titolo senza sostanza»[23], tale è anche il principio dell’Uguaglianza, cui il poeta dedica le strofe 5-14. È questa una delle parti del componimento di maggiore interesse perché vi compare per la prima volta il termine di «frammassone» (flammasone), che viene identificato, a seconda del punto di vista da cui si guarda al problema, con il libertino» o con il «giacobino». Tra loro, esordisce il poeta, i «massoni» di chiamano «fratelli», ma la loro «fratellanza» è fondata esclusivamente sulla spoliazione dei vassalli, dei ricchi e dei signori, che effettuano anche ricorrendo alla distruzione: «Est s’insoro libertade / titulu chena sustanzia, / asi e totu est s’Iguaglianzia / no dat igualidade. / Candi’ssos bos naran: frade, / bos lassana chena calzone, / amore de Flammasone / no est pro bos irrichire, / benit solu a distruire / armas, ricchesas, onores, / vassallos, riccos, Segnores / nudos los solen lassare»[24].
Dopo questo inizio dai toni popolareschi, segue l’argomentazione di carattere razionale e teologico-morale tesa a confutare il principio di uguaglianza predicato dai Francesi. L’uguaglianza non esiste neppure tra i santi in Paradiso e la beatitudine nell’aldilà è riservata solo ai giusti; il «tristo libertino» non potrà mai ottenerla se continuerà a predicare «quell’uguaglianza che non si trova neppure in cielo»; infatti quel principio «è una stravaganza di matti da legare»[25]. La disuguaglianza esiste, dunque, anche in cielo. Lì vi è qualcuno uguale a Maria? Nessuno! Eppure tutti sono felici perché ogni beato possiede la beatitudine secondo i propri meriti e secondo diversi gradi di perfezione[26]. Neppure nell’Inferno esiste l’uguaglianza, dove i dannati patiscono l’assenza di Dio secondo il grado di colpa e lo stesso Lucifero si guarda bene dal cedere il suo scettro![27]. L’uguaglianza non si trova nel firmamento, perché le stelle brillano secondo gradazioni di luce diverse, e neppure nel regno dei volatili, dove ciascuno, anche all’interno della sua specie, è diverso dall’altro. Come oserà il «giacobino delirante», s’interroga il poeta, rispondere a questa logica ferrea?[28]. Identico è il responso che ci viene dal mondo della natura, dalla società, dalla storia, dall’esame dei talenti naturali, delle qualità morali, dell’intelligenza: in natura non esiste assolutamente l’uguaglianza e «il mondo è bello proprio per la sua diversità»[29].
A fronte di tali argomentazioni razionali e di buon senso, l’autore ritiene di avere definitivamente smascherato l’inganno dell’uguaglianza: quella predicata da libertini, massoni e giacobini altro non è che rapina nei confronti della vecchia élite sociale per sostituirvene un’altra. In questo nuovo regime di uguaglianza, si chiede ancora il poeta, chi dovrebbe esercitare il comando? Chi dovrà ubbidire? I ricchi? Ma questi i giacobini li vogliono ridurre a servi. I poveri? Ma questi non hanno mezzi di sostentamento. E «il popolo scontento – ammonisce l’autore – prima o poi si leva a tumulto»[30].
I concetti di libertà ed uguaglianza, considerati in senso assoluto, presentano, inoltre, aporie insuperabili. I cittadini diverranno tutti signori? Ma allora tutti sarebbero, ad un tempo, «imperatori e cavalieri, e fanti, tutti a cavallo e tutti a piedi! Ciascuno sarebbe insieme suddito e re?»[31]. «Una bella insalata secondo la moda giacobina!», commenta sarcasticamente il poeta[32]. Inoltre, chi è il vero detentore della libertà? Tutti e nessuno. Infatti, se tutti sono liberi, anche il signore è libero. Qui il poeta rivela la sua identità sociale e passa a parlare in prima persona. Se sono libero, egli argomenta, perché i giacobini mi ingannano? Perché non devo poter sostenere le mie convinzioni politiche? Le opinioni giacobine sono per caso superiori alle mie? Ecco il mio credo, che voglio manifestare al mondo: «Voglio Dio, voglio il Re, voglio il Papa e la Religione, non voglio essere frammassone e non avete diritto a perseguitarmi»[33]. Maestri di questa libertà ingannevole, che ha portato al delitto della decapitazione di Luigi XVI, che vuol far diventare «repubblicano l’universo intero»[34], che chiamano «tiranno», «colui che Dio chiama Re»[35], sono Voltaire, Filippo Égalité e Mirabeau, già anime dannate nell’Inferno, destinazione sicura di tutti i massoni e i giacobini[36]. Questa è la libertà che i maledetti giacobini vogliono portare in Sardegna, una libertà che non è frutto della libera scelta dei popoli, ma è imposta dai Francesi con le armi; una volta che essi hanno soggiogato una nazione, la rendono schiava, obbligano i cittadini a fare leve obbligatorie di massa per creare eserciti e combattere guerre che arricchiscono solo loro; per gli oppositori è pronta la ghigliottina con sentenza irrevocabile![37]. È ugualmente falsa la formula molto seducente «il Popolo è sovrano». In realtà «i giacobini comandano perché hanno le armi»[38]; ammaliano la gente con nuovi riti laici, canti e balli attorno all’albero della libertà: «il popolo è ingannato, balla, canta, ride, sciala, mangia beve […] a sue spese!»[39]. Questo linguaggio e queste icone popolaresche, che si alternano nel lungo componimento ai ragionamenti sui principi, fanno parte integrante del messaggio politico-religioso che l’autore intende trasmettere ad un pubblico di cultura molto elementare, è capace di riassumere in poche battute di sicura presa su un uditorio rozzo e tradizionalista, la Rivoluzione francese e quella che il poeta chiama la «legge frammassonica»: «Dove i giacobini riescono a conquistare il potere – sintetizza l’autore – fanno tre cose: distruggono la nobiltà, ne arraffano le ricchezze, corrompono le donne; ecco le belle imprese della Nazione famosa! Siano vergini o spose, vedove o maritate, non c’è differenza, perché proprio questa è la legge framassonica: che ogni cosa sia in comune. Questa è la loro uguaglianza!»[40].
L’ultima parte del poema, dove vengono ricordati fatti storici specifici del triennio giacobino italiano e delle vicende dell’astro nascente della Rivoluzione, Napoleone Bonaparte, riveste un particolare interesse soprattutto per i giudizi che l’autore esprime sui fatti storici a lui contemporanei, che denotano una puntuale informazione sulle vicende d’Italia e d’Europa e una sicura capacità di giudizio. Egli si presenta, in questa parte della composizione poetica, come un acuto ideologo di parte reazionaria.
La prova vivente di che cosa sia la libertà e l’uguaglianza massonico-giacobina – egli sostiene – è data dalle «Repubbliche sorelle» che l’esercito francese ha creato in Italia, ossia le Repubbliche Ligure, Cisalpina e Romana. Per essere liberi ed uguali i popoli d’Italia sono «ridotti a chiedere l’elemosina!»[41]. I giacobini francesi sono rapaci, sanguisughe, fedifraghi, come ha dimostrato il generale Bonaparte con la Repubblica di Venezia e la Pace di Campoformio. «Quella volpe di Bonaparte, ateo ed ex-cristiano, con raggiri e senza ricorrere alle armi, ha ingannato il Leone [di San Marco], che si è fidato della pace [di Campoformio], ma era una pace tutta francese, peggiore di quella cartaginese, che non mantiene la parola»[42]. Bonaparte, dopo la Pace di Campoformio (18 ottobre 1797), prima ha spogliato la Serenissima delle sue ricchezze e delle sue opere d’arte, che ha spedito in Francia, poi, sempre per ingordigia imperialistica, ha diretto le sue brame di ricchezza all’Egitto, dove l’esercito francese si trova ancora impegnato. «Sotto parvenza di amicizia [Napoleone] si è riposato [dalla guerra] a Venezia, poi, il traditore, l’ha spogliata dei suoi gioielli e delle sue glorie; tesori e navi, armi e statue di grande valore li ha fatti trasportare in Francia ed ora è andato in Egitto per depredare il Levante»[43].
Le strofe finali sono di carattere parenetico e patriottico: esortano i Sardi a resistere alla forza ammaliatrice della infida Repubblica francese e dell’ideologia massonico-giacobina, invitandoli a ritrovare l’unità che ha portato alla strepitosa vittoria sulle armi francesi nell’inverno 1793: «Sardi! Date nuove prove del valore antico per la vostra fede [cattolica], gridate viva il Re, abbasso il traditore! Rinnovate lo spirito della celebrata vittoria per voi tanto gloriosa, quando la razza ingannatrice venne [in Sardegna] per conquistarla e dovette tornarsene con il muso pesto al porto di Tolone e per eterna sua confusione lasciò arenata [nelle acque di Cagliari] la nave “Il Leopardo”; ricordate che ciò avvenne per volere divino; che quei libertini se lo fissino bene in mente, che dalla Sardegna non poterono tornarsene in patria vittoriosi»[44]. Occorre dunque che i Sardi combattano uniti e con decisione contro questi barbari, giacobini e frammassoni, il cui unico scopo è di portare nell’isola la discordia, l’eresia, l’ateismo e l’anarchia. «Se la Sardegna sarà unita – conclude il poeta – sebbene sia priva di cannoni, qualora ritornassero i frammassoni, tornerebbero in malora; portino pure i loro battaglioni, in entrata e in uscita cadrebbero a grappoli. Sono cani, sono volpi che entrano a tradimento; ma il valore dei Sardi l’hanno già sperimentato: pensano di avere a che fare con gli effeminati milanesi? Se vedono Sardi o Inglesi gli sale la febbre, gente coraggiosa li miete come orzo, e lasciano nel campo carogne e corvi per divorarle»[45].
Termina con questa robusta incitazione alla difesa della tradizione cattolica e monarchica il canto del Solitario di Monte Nieddu, scritto in un periodo, tra il 1798 e il 1799, in cui i corrieri francesi e i fuorusciti angioiani tenevano viva nell’isola la promessa e la speranza di una nuova descente en Sardaigne dell’esercito transalpino che avrebbe dovuto instaurare, secondo il disegno tracciato dall’Angioy nel Memoriale presentato al governo francese, la Repubblica sarda sotto l’egida della Francia[46]. Solo circostanze fortuite impedirono al corpo di spedizione, già raccolto in Corsica nella primavera del 1800, di passare nell’isola per fare di essa una novella «Repubblica sorella». Non furono tuttavia solo le circostanze fortuite a impedire la nuova impresa dell’esercito francese – il corpo di spedizione dovette essere utilizzato in Corsica per sedare una ribellione anti-francese. La situazione internazionale, infatti, andava ormai profondamente mutando agli albori del nuovo secolo. La Francia del Primo Console doveva affrontare la coalizione delle potenze europee e il debole sovrano sabaudo Carlo Emanuele IV, scacciato dal Piemonte nel dicembre 1798, aveva trovato rifugio a Cagliari con tutta la famiglia reale nel marzo 1799. La presenza della Corte a Cagliari rinsaldò attorno alla Casa regnante tutta la classe dirigente rimasta nell’isola e rimise in auge il potere della nobiltà feudale[47]. L’arrivo e la permanenza della Corte in Sardegna segnò, cioè, l’inizio precocissimo della lunga notte della Restaurazione. Il canto del Solitario di Monte Nieddu si situa, dunque, temporalmente, nel periodo che precede l’arrivo della Corte sabauda in Sardegna, in una fase in cui, nel 1797-99, il quadro politico europeo è in continua evoluzione in virtù delle prime imprese napoleoniche in Italia e nasce dalla necessità di irrobustire la propaganda anti-massonica e anti-giacobina soprattutto tra le masse rurali, quando la rivolta antifeudale era ancora viva nelle campagne e le popolazioni erano più esposte alle lusinghe della propaganda francese e angioiana. Il poema rappresenta, dunque, un manifesto politico di parte reazionaria e feudale, quasi un contraltare del manifesto politico dell’insurrezione antifeudale rappresentato dal celebre inno di Francesco Ignazio Mannu. È in funzione di questo destinatario popolare che la trattazione degli argomenti, molto semplificata, è diretta prevalentemente a individuare con precisione le coordinate ideologiche del libertinismo ateistico, del giacobinismo repubblicano e della Libera Muratoria fondata su una visione latitudinaria della religione e tollerante verso le diverse credenze religiose: aspetti questi, del tutto estranei alla “visione del mondo” della società sarda. Tale impianto teorico è intercalato, come avveniva nell’inno anti-feudale del Mannu, con l’esemplificazione popolaresca delle conseguenze di simili presupposti, donde le espressioni truculente e volgari, la denuncia degli inganni, gli esempi desunti dalla realtà sociale, naturale e familiare delle plebi contadine, la classica accusa rivolta ai libertini, giacobini e frammassoni di essere violentatori del ceto debole e squassatori dell’avito istituto familiare con l’asserita comunità delle donne, ecc. Anche se, occorre sottolinearlo, i versi del Solitario di Monte Nieddu, ben informato sulle vicende politiche, deciso e perentorio nei suoi giudizi, non raggiungono mai l’intensità espressiva e il robusto sentimento patriottico di Procurade ’e moderare barones sa tiranìa.
Se prescindiamo da questi limiti, l’opera inedita rappresenta un documento storicamente importante per la storia della Sardegna perché essa, in assenza di altre fonti, contiene la prima testimonianza della conoscenza dei principi della massoneria nell’isola e la più completa trattazione dell’ideologia libero-muratoria, piegata alle esigenze di comprensione delle plebi rurali. Tale trattazione, inoltre, assume una valenza di marcata connotazione politica rispetto a quella ideologica in quanto il termine «frammassone», secondo i canoni espressivi comuni alla controversistica politica europea di parte reazionaria del primo decennio della Rivoluzione francese, è pretto sinonimo di «giacobino» e di «libertino». Non è dato, pertanto, riscontrare nel poema alcuna indicazione concreta di riti d’iniziazione e di logge massoniche presenti nel territorio sardo. Il «nemico» massone e giacobino vi appare sempre come un pericolo che proviene dall’esterno, non come qualcosa di vivo e radicato in terra sarda.
Dopo l’arrivo della Corte sabauda in Sardegna, come hanno rilevato tutti gli storici, la Sardegna vive immersa, con grande anticipo rispetto all’Europa napoleonica, nel cupo clima della Restaurazione assolutista, cui segue la progressiva normalizzazione della ribellione nelle campagne, il ripristino della tracotanza feudale e il completo asservimento alla monarchia sabauda anche di quella parte della “borghesia” locale delle professioni che era stata promotrice del rivendicazionismo autonomistico durante il triennio rivoluzionario sardo.
Come s’è accennato, agli albori del secolo si verificarono delle sollevazioni in armi contro i feudatari in alcune località della Sardegna dell’interno e alcune «congiure» a Cagliari, segno che la ribellione contro l’assolutismo sabaudo, contro l’invadenza della burocrazia piemontese e il suo sistema coloniale di governo, contro l’anacronistico sistema feudale covava ancora sotto la cenere. L’ultimo bagliore di questo spirito antiassolutistico, venato di aspirazioni liberali e costituzionali, fu la cosiddetta «congiura di Palabanda», capeggiata dalla ex-prima voce dello Stamento reale e capo del club di Palabanda avvocato Salvatore Cadeddu e dall’antico autorevole capo del gremio dei beccai Raimondo Sorgia. Scoperto per il tradimento di un congiurato, il complotto fu sventato da Giacomo Pes di Villamarina: numerosi congiurati, primi tra tutti Salvatore Cadeddu e Raimondo Sorgia, affrontarono il capestro mentre alcuni altri riuscirono avventurosamente a salvare la vita con la fuga e con l’esilio in terra straniera[48]. Anche nel caso della congiura di Palabanda non risulta che all’origine di essa vi fosse una loggia massonica.
Continuavano sicuramente a restare vivi in quei patrioti i principi del secolo dei Lumi e della Rivoluzione francese, che furono, come abbiamo detto a lungo nelle pagine precedenti, la nuova linfa che alimentò la cultura sarda. Una nuova linfa che non cessò del tutto con la Restaurazione sabauda, ma restò viva per tutta la prima metà dell’Ottocento, come si evince da opere di intellettuali ed eruditi, come l’algherese Giannandrea Massala, che tentò di impiantare nell’isola nel 1803 il primo giornale scientifico-letterario[49], l’erudito antiquario cagliaritano Ludovico Baille, l’illustre giurista Domenico Alberto Azuni, rientrato in Sardegna, dopo lunga assenza, nel 1819[50]; anche intellettuali della nuova generazione, come Vittorio Angius e Pasquale Tola, tennero viva nella cultura sarda la grande lezione del secolo dei Lumi, il primo con le ricerche di carattere statistico storico e geografico[51], il secondo con il monumentale Codex diplomaticus Sardiniae, imponente raccolta di documenti storici sulla Sardegna fatta ad imitazione delle opere di Ludovico Antonio Muratori[52]. Anche in questa cultura tardo-illuministica della prima metà del secolo XIX la ricerca storica non ha rilevato alcuna diretta presenza della Massoneria in Sardegna.
8. Una traccia documentaria del 1816. Per una ricerca archivistica e documentaria sulla massoneria in Sardegna tra Settecento e primo Ottocento
Alcuni anni orsono Vittoria Del Piano, nel periodico «Il Ritrovo dei Sardi», ritornava sul problema della presenza della Massoneria in Sardegna nel Settecento e nei primi dell’Ottocento, segnalando agli studiosi una testimonianza inedita che in qualche modo vi faceva riferimento[53]. Si tratta di un dispaccio ministeriale inviato da Torino il 30 settembre 1816 al cavaliere Giacomo Pes di Villamarina, che nella fase succeduta alla partenza della Corte esercitò per circa due anni, dal 1816 al 1818, le funzioni viceregie[54]. Il dispaccio, a firma del Primo Ufficiale della Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna cavaliere Renato Gros[55], riferisce del ritrovamento a Cagliari di carte relative ad una «società di Liberi Muratori». «Sua Maestà – scrive il Primo Ufficiale Gros – a cui ho presentato le carte ritrovatesi presso il sig. Biagio Melis luogotenente di Cavalleria relative alla società di Liberi Muratori, ed ho fatto il rapporto sugli atti sommarj a cui si è divenuto per tale fatto, e delle risultanze de’ medesimi, ha ritenuto tra dette carte quelle che erano in stampa, e mi ha ordinato di rimettere alla Regia Segreteria di Stato interna il procedimento per quei lumi, che può somministrare al Governo sulla possibilità dell’esistenza di Logge simili in questi Regj Stati, e segnatamente in Genova, e di persone ascritte alle medesime»[56].
Abbiamo poche e frammentarie notizie su Biagio Melis, tutte dovute alle ricerche di V. Del Piano, che qui intendiamo ringraziare per avercele volute cortesemente comunicare[57]. Fino al 2006, anno in cui fu redatto l’articolo nella rivista «Il Ritrovo dei Sardi», la sola notizia che si possedeva su Biagio Melis si trovava nel vol. 24 della collana Acta Curiarum Regni Sardiniae, edito a cura di chi scrive e dedicato alla documentazione prodotta dagli Stamenti soprattutto durante il triennio rivoluzionario sardo 1793-96[58]. Tale notizia, che «si desume da una nota vergata su una carta della busta 26, fascicolo L, del […] Fondo Aymerich, Stamento Militare […] è del tenore seguente: “Nota […] delle scritture relative all’illustrissimo Stamento reale, che il signor luogotenente Biagio Melis consegna al signor Gioachino Carrus segretario dello Stamento surriferito numerate come sotto. Primo. / N. 15 quinternetti ossiano quintiglie delle sedute tenutesi in detto Stamento dal 19 aprile 1793 fino alli 18 gennaio 1796”»[59]. V. Del Piano ritiene che questa consegna da parte di Biagio Melis dei suddetti Atti dello Stamento reale, di cui non è riportata la data, sia «senz’altro avvenuta […] dopo il 27 agosto 1799, quando l’ultimo verbale pubblicato nel IV volume è firmato dal “pro dottore Efisio Melis notaio, per Melis segretario”. Il segretario Melis – continua V. Del Piano – è il dottor Giuseppe Melis Atzeni, noto come “teologo maritato”, direttore del “Giornale di Sardegna”, organo degli elementi democratici degli Stamenti che sostenevano la politica angioyana; il Melis frequentava il club “giacobino” diretto da Matteo Luigi Simon [sic], che si riuniva nella sede estiva del Collegio dei Nobili (attuale villa Muscas), e fu citato dall’Angioy nel memoriale presentato al Direttorio nel 1799 fra gli avvocati favorevoli alla causa della libertà […]. Il Melis [Atzeni] morì a Cagliari il 2 aprile 1816»[60]. L’autrice, infine, conclude: «Le carte in oggetto potrebbero essere state consegnate al luogotenente Melis per rimetterle al Carrus, da persona che le possedeva in virtù del suo ufficio, e che non voleva essere nominata, e che potrebbe essere il segretario dello Stamento, il dottor Giuseppe Melis Atzeni»[61].
Abbiamo riportato in modo dettagliato questa parte dell’articolo di V. Del Piano, anche dove sembrerebbe non avere diretta attinenza con la storia della massoneria nella Sardegna del Settecento e dei primi dell’Ottocento, per tre motivi: 1) per rimarcare il grande interesse della notizia, trattandosi, a nostra conoscenza, del primo documento ufficiale di fonte governativa in cui viene asserito che dalla Segreteria viceregia di Cagliari sono state inviate a Torino «carte […] relative alla società de’ Liberi Muratori» e che il sovrano ha demandato al Ministero degli Interni il compito di effettuare indagini «sulla possibilità dell’esistenza di Logge simili» negli Stati di terraferma, in particolare a Genova, di recentissima acquisizione per la Casa Savoia; 2) per rilevare qualche incongruenza nelle deduzioni fatte dall’autrice sulle carte dello Stamento reale e sui tempi e i motivi della consegna a Gioacchino Carrus; 3) per auspicare la continuazione di una ricerca archivistica negli Archivi di Stato di Cagliari e di Torino, che non potrà essere né breve né semplice, partendo dalla importantissima traccia offerta dal dispaccio del 30 settembre 1816.
Relativamente al primo punto, occorre riconoscere che la segnalazione offerta da V. Del Piano è di particolare importanza. Si tratta, a conoscenza di chi scrive, dell’unica fonte archivistica, dopo quella di carattere poetico-letterario illustrata sopra, in cui si parli esplicitamente di documentazione relativa alla massoneria nella Sardegna concernente il periodo preso in esame in questo lavoro. È però opportuno precisare, anche sulla base delle ricerche ancora in atto da parte di chi scrive, che il tenore del dispaccio non autorizza ad affermare che le carte si riferiscano all’attività di una loggia massonica sarda anziché alla massoneria in generale. Infatti, nell’espressione asseverativa «carte […] relative alla società de’ Liberi Muratori», l’uso dell’articolo determinativo sembrerebbe fare riferimento ad una specifica istituzione massonica sarda; invece il riferimento a «carte […] che erano in stampa» farebbe pensare a testi ufficiali di larga diffusione tra gli adepti, come manifesti ideologici, lettere interne («tavole» nel linguaggio massonico) degli organismi centrali dell’Ordine o anche biglietti d’invito o convocazioni a stampa per riunioni. A questi dubbi sarà possibile dare risposta con il ritrovamento, per lo meno, dell’inventario delle carte spedite a Torino. La ricerca archivistica sinora effettuata sembra escludere che la documentazione si riferisca ad una loggia locale. Infatti, nella minuta del dispaccio spedito da Giacomo Pes di Villamarina al Primo Ufficiale della Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna si legge:
«Informato, che certo Biaggio Melis Luogotenente di Cavalleria avesse in un baule lasciato a bordo del bastimento in cui era venuto da Terraferma delle carte relative alla Società dei Franchi Muratori ne ho ordinato la perquisizione, ed essendosi trovate veramente alcune se ne sono formati i provvedimenti che trasmetto a V. S. Ill.ma colle carte annesse unitamente alla copia del parere del Reggente la Reale Cancelleria per l’oportuno riguardo, non essendo sembrato il caso di procedere ulteriormente in di lui odio come dal parere dello stesso Reggente il quale sulle risultanze della procedura si è limitato a proporre d’usare vigilanza sulla di lui condotta, né mancherà il Governo di secondare questo oportuno suggerimento»[62]
È chiaro dal dispaccio in partenza che «le carte ritrovatesi presso il sig. Biagio Melis» non furono sequestrate in casa dell’interessato, ma si sarebbe trattato di un ritrovamento quasi fortuito in una nave approdata nel porto di Cagliari. Sarebbe interessante se il proprietario del baule abbia lasciato volutamente o per dimenticanza il baule sul bastimento. Tutto lascia pensare che il Melis fosse rientrato a Cagliari da Genova, donde proverrebbero le carte e come si desume dal passo del dispaccio pervenuto da Torino in cui si dice che quelle carte possono somministrare al governo «lumi […] sulla possibilità dell’esistenza di Logge simili in questi Regj Stati, e segnatamente in Genova». Il capoluogo ligure, come le altre città di mare della costa del Levante, della Francia meridionale e della Corsica, erano sempre stati, prima durante e dopo la Rivoluzione francese, i luoghi privilegiati da cui si facevano pervenire in Sardegna numerosi documenti di propaganda, e gli uomini di mare, tra cui erano molti adepti alle logge massoniche continentali, ne furono spessissimo i latori e i divulgatori. È tuttavia alquanto singolare che il dispaccio non declini almeno il nome della loggia cui fa riferimento o quello del suo Maestro Venerabile; così come appare piuttosto ingenuo il proposito del sovrano Vittorio Emanuele I di affidare il caso per ulteriori indagini al Ministero degli Interni, quasi escludendo a priori che negli Sati di terraferma potessero esistere simili istituzioni. Come s’è accennato in altra parte di questo lavoro, anche a non voler considerare la presenza di logge massoniche negli Stati di terraferma nel periodo pre-rivoluzionario, l’imperatore Napoleone, con l’istituzione a Milano del primo Grande Oriente d’Italia nel giugno 1805, aveva grandemente favorito la diffusione della massoneria nella Penisola, utilizzando le logge come canale privilegiato di reclutamento delle alte sfere della burocrazia del Regno italico[63].
Relativamente al secondo punto è da rilevare, in generale, che le deduzioni dell’autrice, a partire dal ritrovamento delle carte sulla massoneria presso il luogotenente di cavalleria Biagio Melis, appaiono non proprio implicite nel testo. Procediamo con ordine.
Il testo riferisce, in primo luogo, che nel 1816 sono state «ritrovate presso il sig. Biagio Melis» delle «carte relative alla società de’ Liberi Muratori». Le puntuali ricerche della dott.ssa Del Piano hanno aggiunto qualche tassello sulla biografia di Biagio Melis[64], che doveva esser personaggio abbastanza in vista nella Cagliari dei primi dell’Ottocento. Ulteriori ricerche le hanno consentito di accertare che Biagio Melis era figlio del notaio Pietro Giuseppe Melis, segretario del gremio dei Santelmari, probabilmente parente del «teologo maritato» Giuseppe Melis Atzeni, che fu a lungo segretario dello Stamento Reale. Biagio Melis, inoltre, era fratello di Efisio Luigi Melis, «pro-dottore» e notaio, che troviamo spesso come firmatario dei verbali dello Stamento reale in sostituzione del teologo Giuseppe, con la formula «pro-dottore Efisio Melis, per Melis secretario», o, più spesso, «Melis, per Melis secretario». Questa rete di parentele, di cui qualcuna sicura e qualche altra probabile, può essere utile per una più puntuale ricostruzione dei passaggi attraverso i quali le carte dello Stamento reale citate nel vol. 24 degli Acta Curiarum siano finite in mano al luogotenente di cavalleria Biagio Melis. Questi era probabilmente parente del segretario dello Stamento reale Giuseppe Melis Atzeni e fratello del pro-dottore in utroque e notaio Efisio Melis. Conosciamo la data di morte di Giuseppe Melis Atzeni (2 aprile 1816), di Biagio Melis (20 ottobre 1832), mentre non conosciamo quella di Efisio Melis. Tra questi, il personaggio più importante è Giuseppe Melis Atzeni, che ebbe parte non secondaria nelle vicende del triennio rivoluzionario sardo per essere stato in stretto contatto con gli uomini più influenti della «sarda rivoluzione», per aver ricoperto a lungo il ruolo di segretario dello Stamento reale e per il suo rapporto di collaborazione e di amicizia con il preside del Collegio dei Nobili di Cagliari, l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon, membro dello Stamento ecclesiastico e uomo di vasta cultura, che fu il vero ideatore del «Giornale di Sardegna», organo di stampa degli Stamenti, a capo della cui redazione egli mise proprio il teologo Melis Atzeni, principale estensore e direttore del periodico, che si pubblicò dal 13 agosto 1795 al 26 luglio 1796[65].
Quanto al ruolo di segretario dello Stamento reale, Giuseppe Melis Atzeni dovette svolgerlo a lungo, probabilmente sino alla morte nel 1816. Nella fase di maggiore impegno del titolare, che coincise con la pubblicazione del «Giornale di Sardegna», egli incaricò di sostituirlo il probabile parente Efisio Luigi a partire dal 1° settembre 1795, seduta nella quale questi firma il verbale come «pro-dottore Efisio Melis, per Melis secretario», e successivamente come «Melis, per Melis secretario»[66]. Come rileva V. Del Piano, tra i verbali dello Stamento reale sinora noti, l’ultimo a firma del «pro-dottore Effisio Melis notaro per Melis secretaro» è del 27 agosto 1799[67]. Giuseppe Melis Atzeni fu titolare del segretariato dello Stamento reale molto a lungo ed Efisio Melis non risulta gli sia succeduto, considerato che nel giugno 1801, dopo la morte del padre Pietro Giuseppe, avvenuta nel 1800, ambisce a sostituirlo nella carica di segretario dei gremio dei Santelmari[68]. Sulla base di questi elementi riteniamo che le carte dello Stamento reale siano state conservate presso il segretario titolare Giuseppe Melis Atzeni e che solo dopo la sua morte, oppure dopo la morte di Efisio, aprile 1816, esse siano state consegnate al nuovo segretario Gioacchino Carrus da Biagio Melis, probabile erede di entrambi. Nello stesso periodo avvenne il «ritrovamento» della «carte […] relative alla società de’ Liberi Muratori» presso «il luogotenente Biagio Melis». Non è improbabile, pertanto, che sia le carte dello Stamento reale che quelle relative alla massoneria provenissero dall’eredità di Giuseppe Melis Atzeni e che sia stato lo stesso Biagio Melis a favorirne il reperimento con un abile escamotage e a metterle nelle mani del viceré Giacomo Pes di Villamarina, del quale è nota la severità e l’attitudine poliziesca: quattro anni prima aveva sventato la congiura di Palabanda e aveva fatto condannare al capestro numerosi patrioti, tra cui i capi Salvatore Cadeddu e Raimondo Sorgia, che affrontarono con grande dignità il patibolo[69]. Come rivela la lettura dei dispacci intercorsi tra il Ministero di Sardegna e la Segreteria di Stato, nel periodo in cui esercitò le funzioni viceregie (10 giugno 1816 – 3 gennaio 1818)[70] Giacomo Pes di Villamarina andava molto fiero del suo stile di governo, improntato ad una severa azione di vigilanza poliziesca e di repressione dei reati anche lievi. «Resto inteso di quanto V. S. Ill.ma si compiace significarmi – scriveva con manifesta compiacenza al Primo Ufficiale Gros in risposta al dispaccio del 30 settembre 1816 – intorno alle Carte dell’Ufficiale di Cavalleria Biagio Melis ed ho piacere, che i procedimenti sommari possono essere utili per verificare l’esistenza di Loggie nei Regj Stati di S. M. nel Continente»[71].
Se questa ipotesi di lavoro si rivelasse corretta, le carte sulla massoneria ritrovate nel 1816 potrebbero offrire un apporto concreto alla controversa questione della presenza massonica durante il triennio rivoluzionario sardo. Le carte di Giuseppe Melis Atzeni condurrebbero infatti a Gian Francesco Simon e al club da lui capeggiato[72], che faceva capo al Collegio dei Nobili e si riuniva nella casa delle vacanze di questa istituzione.
Tutto ciò diciamo in via del tutto ipotetica, coscienti del fatto che un indizio non vale mai una prova e che il paradigma indiziario non può costituire la via maestra della ricerca storica.
Non sarebbe tuttavia completo questo saggio se non accennassimo alla pubblicazione di un recentissimo lavoro di Massimo Falchi Delitala sulla loggia inglese a Cagliari tra il 1738 e il 1814 [73]. Si tratta di un breve saggio ricco spunti interessanti sull’argomento. Tra l’altro in esso l’autore individua con chiarezza i motivi per cui la nobiltà sarda e la nascente borghesia delle professioni non erano in grado di accettare, a differenza di quella piemontese, l’ideologia massonica; documenta una sorta di “genealogia massonica” di incaricati d’affari inglesi che hanno risieduto a Cagliari fin dalla prima metà del Settecento e la funzione di mediazione diplomatica che avrebbero svolto, in sintonia con le rappresentanze consolari e diplomatiche di altri Paesi, in particolare francesi, analogamente a quanto avveniva a Torino attraverso la loggia La Mystérieuse; evidenzia il ruolo avuto dai noti massoni savoiardi Joseph De Maistre, Reggente la Reale Cancelleria tra il gennaio 1800 e il febbraio 1803, e l’Intendente generale Iacopo Vichard de Saint Real, che avrebbero fatto capo alla Loggia inglese durante la loro permanenza a Cagliari; ritiene plausibile l’esistenza di una loggia militare, costituita soprattutto da mercenari svizzeri, sebbene non regolare e non strutturata; sottolinea l’importanza del ruolo svolto attraverso la Loggia dal «nutrito corpo diplomatico»[74] giunto a Cagliari dopo il trasferimento nell’isola della Corte sabauda. Tra questi ultimi cita in particolare il Segretario di Legazione Joseph Smith (1806) e il massone William Hill Lord di Berwick (1807), ministro plenipotenziario e ambasciatore, per il raccordo diplomatico da essi svolto con gli altri ambasciatori accreditati, in particolare della Russia e del Portogallo, tutti «se non massoni, comunque vicini agli ambienti della massoneria»[75].
«Sotto l’impulso dell’ambasciatore Hill – scrive il Falchi Delitala – la Loggia cagliaritana divenne il centro di una intensa attività diplomatica massonica parallela a quella ufficiale. I rapporti tra massoni assumono in questo una rilevanza essenziale. Non solo nelle riunioni di Loggia può confrontare, probabilmente, il suo pensiero con l’Ambasciatore Russo o comunque per il tramite dei massoni russi (regolari e quindi in contatto con la Loggia madre d’Inghilterra) e del de Maistre influire sul suo comportamento, e, tramite le Logge lusitane, influire su quello Portoghese, ma può anche venire in contatto con esponenti Massoni italiani e savoiardi che da Torino hanno seguito il re nell’isola»[76].
Si tratta, per sommi capi, di alcuni aspetti che rendono intrigante questo saggio, il quale si distingue in modo singolare dagli altri autori che hanno sostenuto la presenza della massoneria nell’isola, di cui condivide in parte le posizioni, affermando che i cosiddetti clubs giacobini che operarono a Cagliari durante il triennio rivoluzionario sardo non erano e non potevano essere logge massoniche, anzi erano il principale nemico della Loggia inglese.
«Sul fronte interno – scrive Falchi Delitala, in sintonia con la tesi di Federico Francioni – in questo ultimo decennio del secolo, i principali nemici della loggia massonica di Cagliari sono i circoli democratici. Erroneamente i tre circoli democratici della Cagliari di fine secolo XVIII sono stati, a volte, ricollegati ad attività massoniche. Non esistono né indizi né prove che tali Clubs fossero composti da Massoni né che fossero Logge ritualmente costituite e d’altra parte “sembra essenziale ribadire che la cesura dell’Ottantanove non fu un’orgia di sangue e neanche un complotto delle Logge massoniche”. Dunque “la massoneria non lanciò alcuna parola d’ordine rivoluzionaria, né ebbe un ruolo politico di preparazione del 1789” […]. Alle riunioni partecipavano vari personaggi, prescindendo da un loro rapporto di affiliazione col Club. Erano dunque associazioni aperte ove il legame fra gli aderenti era certamente estemporaneo e legato alle contingenze politiche del momento. Erano in definitiva dei “circoli informali di dibattito politico”, lontani dalla esperienza massonica»[77].
Un saggio interessante, dunque, che in parte condividiamo e che offre importanti spunti di riflessione. Il punto di maggiore vulnerabilità del lavoro di Falchi Delitala risiede se mai nel problema delle «fonti» da cui prendono le mosse le sue riflessioni e le conclusioni. Secondo la tesi dell’autore a Cagliari avrebbe operato nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento una sola loggia, ben protetta dal Consolato e dall’ambasciata britannici. A fondamento di questa asserzione l’autore non pone alcuna documentazione «diretta»: esordisce infatti con l’opinione espressa da Paul Naudon nella sua storia della massoneria[78] e prosegue adducendo come rinforzo le opinioni di altri storici, tra cui Oreste Dito, Alberto Maria Visalberghi, Gaetano Madau Diaz e Felice Cherchi Paba, sul valore delle quali ci siamo soffermati a lungo in questo lavoro. Anche nel caso di Massimo Falchi Delitala, dunque, la pur interessante riflessione storiografica resta ancorata ad un’opinione avallata da molti ma storicamente non confortata da una documentazione «diretta». Sarebbe forse stato più consono ai canoni della ricerca storica presentare come altamente probabile l’esistenza della loggia inglese a Cagliari anziché darla come certa. Come ha scritto Diderot «un’ipotesi non è un fatto»[79], e «i fatti» nella ricerca storica sono la documentazione diretta.
Possiamo concludere, sulla base dei dati finora in possesso degli storici, che si può con assoluta certezza affermare che la cultura del secolo dei lumi ha permeato la società sarda del Settecento; all’interno della cultura illuministica non è errato individuare, anche in Sardegna, germi di cultura massonica, che di quella temperie culturale dell’Europa intera ha fatto parte integrante. Andare oltre tale considerazione, allo stato attuale delle ricerche, soprattutto per il periodo che precede il triennio rivoluzionario sardo, non ci sembra legittimo. Quanto al periodo della «sarda rivoluzione», se vi è una maggiore probabilità della presenza massonica in Sardegna, questa ancora non ha trovato adeguati riscontri documentari. La ricerca deve continuare, soprattutto per verificare se la pista lasciata intravvedere dal dispaccio ministeriale del 30 ottobre 1816 e le riflessioni sulla loggia inglese a Cagliari potranno dare in futuro risultati più concreti. Ma una speranza non può essere scambiata per una certezza. Lo storico deve prudentemente attenersi ai fatti e non indulgere ad affrettate illazioni. Sul tema della massoneria in Sardegna tra Settecento e primo Ottocento, allo stato attuale della ricerca, è prudente attenersi alla massima dell’antico scolastico: contra factum non valet argumentum! (FINE)
[1] L’edizione critica dell’inno in F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, Cagliari, Centro Studi filologici sardi/Cuec, 2002, pp. 3-121; il testo dell’Achille della sarda liberazione è riportato in appendice a L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana, cit., pp. 59-64. Si veda anche L. Carta, voce Mannu Francesco Ignazio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 69, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2007, pp. 131-32
[2] Cfr. A. Mattone, P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit, p. 106.
[3] Ci permettiamo di rimandare al volume in cui abbiamo sviluppato in modo ampio questa interpretazione dell’inno: cfr. L. Carta, Introduzione a F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, cit., pp. IX-CCLI.
[4] Cfr. L’Achille della sarda liberazione, in L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana, cit., pp. 59-64.
[5] Cfr. ivi, pp. 62-64.
[6] Il brano è riportato da G. Giarrizzo, in Massoneria e illuminismo, cit., pp. 224-35.
[7] Cfr. D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, Introduzione di Federico Francioni, Cagliari, Della Torre, 1985, pp. 135-222; A. Mattone, P. Sanna, Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del «diritto patrio» del Regno di Sardegna, in Iid., Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 241-97; Parabola di una rivoluzione. Giovanni Maria Angioy tra Sardegna e Piemonte, a cura di A. Lo Faso, Prefazione di A. Accardo, Saggio introduttivo di L. Carta, Cagliari, Aìsara, 2008.
[8] La Storia de’ torbidi è la prima ricostruzione storica degli avvenimenti della «sarda rivoluzione» scritta “a caldo” da autore anonimo ferocemente anti-angioiano: cfr. L. Carta, La più antica ricostruzione storica del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796), saggio introduttivo alla Storia de’ torbidi occorsi nel Regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi, opera anonima del secolo XVIII, cit., pp. VII-LXII.
[9] Oltre alla Storia moderna di Sardegna del Manno, più volte citata, ricordiamo soprattutto l’opera di F. Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821. Narrazioni storiche, Torino, Biancardi, 1857, la cui narrazione arriva fino al 1796 ed è incentrata sulla tesi dell’influsso della Rivoluzione francese sulla rivoluzione sarda del 1793-96.
[10] Sulle presunte frequentazioni massoniche dei più illustri esuli sardi come l’Angioy, Michele Obino, Matteo Lugi Simon, Domenico Alberto Azuni, sulla base del solito teorema dell’identità di massoneria-giacobinismo-Rivoluzione francese insiste F. Cherchi Paba, op. cit., cap. XV, L’esilio dell’Obino, pp. 218-28. Sulla valenza e l’attendibilità di queste ulteriori gratuite affermazioni di questo autore riteniamo inopportuno soffermarci ancora.
[11] Cfr. S. Pola, I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, a cura di L. Carta, Nuoro, Ilisso, 2009 (1a edizione 1923), Parte III, I moti di Gallura, pp. 345-415; La Rivoluzione sulle Bocche. Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda “giacobini” in Gallura (1802), cura di M. Brigaglia e L. Carta, Cagliari, Della Torre, 2003.
[12] Cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., p. 221-27; M. Pes, La rivolta tradita. La congiura di Palabanda e i Savoia in Sardegna. Introduzione di G. Serri, Cagliari, Cuec, 1994; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento, Cagliari, Condaghes, 1996, pp. 140-98
[13] Cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon, una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, cit., in particolare le vicende biografiche dei quattro fratelli Domenico, Matteo Luigi, Gian Francesco e Gian Battista e i loro viaggi in Italia.
[14] Cfr. G. M. Filia, I nemici della Chiesa e della società civile. Lettera pastorale al clero e alla diocesi di Alghero, Sassari, Tip. Azuni, 1874; Id., I due timori. Lettera pastorale, Sassari, Tip. Azuni, 1877. Le due lettere pastorali sono entrambe dedicate a combattere il liberalismo e la massoneria; secondo lo storico della chiesa sarda Damiani Filia la prima è «la prima e più informata lettera pastorale contro la massoneria» e vi fa menzione delle logge «Vittoria e fedeltà» di Cagliari, «Eleonora d’Arborea » di Nuoro, «Giuseppe Dalfi» di Alghero e di quella di Ozieri (cfr. D. Filia, La Sardegna cristiana (Dal 1720 alla Pace del Laterano), Sassari, Libreria Italiana e Straniera, 1929, p. 444, nota 1). Sul Filia, cfr. L. Carta, Giovanni Maria Filia, vescovo di Alghero, in «Quaderni bolotanesi», Nuoro, Tip. Solinas, 1977, pp. 35-40.
[15] Sugli arresti per propaganda filo-francese a Cagliari, oltre alle opere di carattere generale del Manno, Sole e Sotgiu più volte citati, cfr. 1793: I franco-corso sbarcano in Sardegna, a cura di F. Francioni, Cagliari, Condaghes, 1993, pp. 40-43.
[16] Cfr. Pezze originali di cui si fa menzione nel Ragionamento giustificativo rassegnato colla Rappresentanza quarta dai tre Stamenti del Regno di Sardegna a S. S. R. M. sotto li 24 agosto 1795, edizione anastatica, in Pagine di storia cagliaritana. Manifesto giustificativo e altri documenti stamentari del triennio rivoluzionario, Saggio introduttivo di L. Carta, Prefazione di P. De Magistris, Cagliari, Camera di Commercio Industria e Artigianato, 1995, pp. 275-444; si veda inoltre la citata Storia de’ torbidi.
[17] Cfr. F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, cit., commento alla strofa 29, pp. 55-56.
[18] Cfr. Sa Libertade, ed Iguaglianza detestada de su Solitariu de Monte Nieddu, in Biblioteca Universitaria di Cagliari, monoscritto XLVI, Port. 3. La composizione poetica è contenuta in un quadernetto interamente manoscritto di 40 pagine; il testo è contenuto nelle pagine 1-32.
[19] Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. I, Le origini del Risorgimento 1700-1815, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 168-377, passim.
[20] Chena Deus sa Nassione / chena Re la cheren fagher (strofa 1, vv. 3-4).
[21] Custa infernale dottrina / cheren como renovare (strofa 3, vv. 18-19).
[22] Libertini ascoltate, fate pure come vi pare, la libertà che voi vendete va di male in peggio, perché è stato Dio stesso a limitarla ed è pazzia negarlo (strofa 5, vv. 14-19).
[23] Sa Libertade, ed Iguaglianza, cit., strofa 6, vv. 1-2.
[24] Come la loro libertà è titolo senza sostanza, così è della loro uguaglianza, che essi non danno. Quando essi vi chiamano fratelli, vi lasciano in mutande; l’amore del Frammassone non è fatto per arricchire voi, viene solo per distruggere armi, ricchezze, onori; vassalli, ricchi e signori è loro abitudine lasciarli nudi (ivi, strofa 6, vv. 1-12).
[25] Ma su Libertinu tristu / no la det mai alcanzare, / si s’ostinat a preigare / in terra cun vanu zelu / sa chi ne mancu in su Chelu / s’agattat iguaglianzia / cust’est una stravaganzia / de maccos de accappiare (strofa 7, vv. 16-22, «Ma il tristo Libertino, se si ostina a predicare con zelo vano questa uguaglianza che non si trova neanche in cielo, non la potrà mai raggiungere [la beatitudine]; questa è una stravaganza di matti da legare»).
[26] Cfr. ivi, strofa 8.
[27] Cfr. ivi, strofa 9.
[28] Giacobinu dilliriante / risposta has a mi torrare? (ivi, strofa 11, v. 21-22).
[29] Asie est totu su Mundu / bellu pro sa differenzia (ivi, strofa 13, vv. 10-11).
[30] Su Populu discuntentu / benit a tumultuare (ivi, strofa 14, vv. 17-18).
[31] Cfr. ivi, strofa 15.
[32] O ita bella insalada / a sa moda giacobina! (ibidem, vv. 11-12).
[33] O la tenzo, o no la tenzo / sa libertade famada. / Si l’appo es cosa assentada / de narrer già no m’astenzo. / So liberu? Edducas benzo / a faeddare prite no? / Si est chi liberu no so, / proite m’ingannades edducas? / Est libertade de zucca / totu pazza, e fumu, e bentu./ Rispondide a s’argumentu, / Giacobinos ite nades? / Si liberu mi lassades / faeddo liberamente. / No bos connosco pro niente / chi siades pius de me. / Chelzo Deus, chelzo Re, / chelzo Paba, e Religione, / no chelzo esser Flammassone, / né m’hazis ite chircare (ivi, strofa 16).
[34] Ca s’Universu connotu / cheren republicare (ivi, strofa 18, vv. 9-10).
[35] Ivi, strofe 18-19, passim.
[36] Bazi in ora mala, andade / a s’Inferru coitende, / Voltèr bos est ispettende, / Orleans, e Mirabò, / mancari nedes, chi no, / innie hazis a parare (ivi, strofa 17, vv. 8-13).
[37] Est prezisu a ubbidire, / chie si cheret resistire, / già es pronta sa ghigliottina. / Sa sentenzia es giacobina. / Né si podet revocare (ivi, strofa 20, vv. 8-12).
[38] Sos Giacobinos cumandana, / già chi han sas armas in manu (ivi, strofa 22, vv. 1-2).
[39] Sos populos arruinana, / tando impare s’incaminana, / cantende ti los incantana, /a s’alvure chi piantana / de libertade giamadu. / Su populu coglionadu / ballat, cantat, e riede, / ixalat, mandigat, biede. / Ite maccu! A gastu sou! (ivi, strofa 22, vv. 6-13).
[40] Ue intran faghen tres cosas, / distruin sa Nobilesa, / s’inde lean sa ricchesa, / e corrumpin sas ermosas. / Ecco sas bellas impresas / de sa Nassione famosa. / Sia Virgine, o isposa, / o viuda, o cojuda, / discrezione no b’hada, / ca es leze flammasone, / onzi cosa est a cumone, / ch’est s’insoro igualare (ivi, strofa 24, vv. 1-12).
[41] Pro esser liberos e iguales, / como semus a pedire (ivi, strofa 28, vv. 14-15).
[42] Su mazzone Bonaparte / cun trampas, e senza Marte / su Leone hat’ingannadu / in sa paghe fit fidadu, / pero fit paghe franzesa / peus de cartaginesa / no servat fidelidade (ivi, strofa 29, vv. 19-25).
[43] In s’umbra de s’amistade / sa Venezia reposada. / Tand’isse l’hat ispozada / de ornamentos, e de parmas, / tesoros, barcas, e armas, / istatuas de altu valore, / Bonaparte su traitore / totu a Franzia si ch’hat gittu, / como est andadu a s’Egittu / su Levante pro ispozare (ivi, strofa 29, vv. 26-35).
[44] Sardos, s’antigu valore / pro sa fide renovade, / chi bivat su Re gridade, / e a terra su traitore; / sa vittoria zelebrade / pro ois tantu gloriosa; / cando sa razza tramposa, / chi enzesit pro conchista, / che torresit murri pista / a su portu de Tolone, / e pro eterna confusione / restesit su Leopardu / arenadu in mare sardu / pro permissione divina, / pro chi zente libertina / s’imprimat in sa memoria, / chi de Sardigna vittoria / no che potesin bogare (ivi, strofa 34, vv. 1-18).
[45] Si Sardigna fit unida / bellechì no hat cannones, / si torran sos Flammasones / faghian mala ennida, / attan issos battagliones, / a s’intrada, e a s’essida / dian ruer a muntones. / Sun canes, sunu mazzones / ch’intran a traitoria, / ma sa sarda valentia / già l’han bida, e l’han proada: / cun sa zente effeminada / s’isan de sos Milanesos? / S’iden Sardos, o Inglesos / lis intrat sa calentura. / Zente, chi tenet bravura / los messat comente olzu, / e bi lassana moltolzu / fera, e colvos pro attattare (ivi, strofa 36, vv. 1-19).
[46] Cfr. G. M. Angioy, Mémoire sur la Sardaigne (1799), in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari, Fossataro, 1967, pp. 167-204. Si veda nello stesso volume, J. F. Coffin, Mémoire sur la situation politique de la Sardaigne (1798-99), pp. 205-241.
[47] Per un bilancio critico della permanenza della Corte sabauda in Sardegna cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., pp. 231-360; C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, cit., pp. 259-63. Si vedano inoltre i sempre utili P. Martini, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, a cura di A. Accardo, Nuoro, Ilisso, 1999 (1a ed. Cagliari, Timon, 1852); G. Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1798 al 1848, Torino, Libreria F. Casanova, 1877, ora in edizione anastatica Forni, Sala Bolognese, 1978; G. Manno, L’arrivo in Sardegna della Real Famiglia in Sardegna e il viceré Vivalda, in Id., Note sarde e ricordi, Torino, Stamperia Reale, 1868, pp. 127-33.
[48] Vedi supra, nota 193. Tra i congiurati che riuscirono a scampare alla morte ricordiamo Gaetano Cadeddu (1782-1758), figlio dell’avvocato Salvatore, che riparò prima in Corsica, poi dal 1829 ad Algeri, donde rientrò temporaneamente a Cagliari nel 1857. Cfr. V. Del Piano, op. cit., ad vocem, pp. 109-12.
[49] Sull’abate algherese Giannandrea Màssala (1773-1817) cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. II; pp. 376-82; L. Carta, voce Màssala Giannadrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 71, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, pp. 694-95; G. A. Massala, Giornale di Sardegna, Prefazione di A. Accardo, Nuoro, Poliedro, 2001.
[50] Su Ludovico Baille (1764-1839), cfr. P. Tola, voce Tola Pasquale, in Dizionario biografico, cit., vol. I, pp. 180-88); P. Martini, Catalogo della biblioteca sarda del cav. Lodovico Baille preceduto dalle memorie intorno alla di lui vita, Cagliari, Timon, 1844. Sull’illustre giurista sassarese Domenico Alberto Azuni (1749-1827), vedi il fondamentale saggio di L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827), Milano, Giuffrè, 1966.
[51] Su Vittorio Angius (1798-1863), cfr. B. J. Anedda, Vittorio Angius politico, Milano, Giuffrè, 1969; G. Sotgiu, Vittorio Angius e i suoi tempi, prefazione di A. Accardo, Nuoro, Il Poliedro, 2001; L. Carta, Il contributo di Vittorio Angius al “Dizionario storico geografico statistico degli Strati di S. M. il re di Sardegna” di Goffredo Casalis, in V. Angius, Città e villaggi della Sardegna, 3 voll., Nuoro, Ilisso, 2006, pp. 7-57.
[52] Su Pasquale Tola (1801-1874), cfr. A. Delogu, Uno studioso di Vico nella Sardegna della prima metà dell’Ottocento: Pasquale Tola, in Id., La filosofia in Sardegna, Etica Politica Diritto, Cagliari, Condaghes, 199, pp. 143-60; A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda. Storiografia e politica nella Sardegna del primo Ottocento, Cagliari, AM&D edizioni, 1996.
[53] Cfr. V. Del Piano, Inedito sulle logge massoniche a Cagliari, in «Il Ritrovo dei Sardi», anno III, giugno 2006, p. 3.
[54] Giacomo Pes di Villamarina (1750-1827), tempiese, fu un alto ufficiale del Reggimento sardo che si era formato all’Accademia militare di Torino. Dopo aver combattuto contro i francesi negli Stati di terraferma rientrò in Sardegna dove servì fedelmente la Corte profuga a Cagliari, che lo elevò ai più alti gradi: generale della armi nel 1805, generale di fanteria e capitano delle guardie del re, governatore di Cagliari. Dopo la partenza di Maria Teresa e di Carlo Felice per il Piemonte, dall’estate 1816 al gennaio 1818 governò la Sardegna come incaricato delle funzioni viceregie. Ebbe fama di governante inflessibile e spietato in difesa dell’istituto monarchico (cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. III, pp. 85-89).
[55] Renato Gros era nato a Torino nel 1749. Figlio di un medico e laureato in Giurisprudenza, aveva sposato la figlia del Protomedico di Sardegna Giacomo Paglietti. Nel 1774 fu nominato da Vittorio Amedeo III Sostituto Controllore Generale del Regno di Sardegna. Passato all’Intendenza di Saluzzo nel 1777, nel 1792 divenne Intendente Generale di Susa, dove acquisì meriti speciali nel corso della guerra contro la Repubblica francese, assumendo anche l’incarico di Intendente d’Armata. Dopo l’occupazione francese del Piemonte si ritirò a vita privata. Con il ritorno dei Savoia negli Stati aviti, durante i Cento giorni, il suo antico protettore duca d’Aosta, ora re Vittorio Emanuele I, gli affidò la Reggenza dell’Ufficio Generale del Soldo. Rientrato definitivamente il re a Torino, il Gros fu nominato Primo Ufficiale della neo-istituita Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna. Morì a Torino il 7 maggio 1829 all’età di ottant’anni (cfr. la Necrologia apparsa sulla «Gazzetta piemontese», N. 56, 9 maggio 1829, pp. 351-52).
[56] Archivio di Stato di Cagliari (di seguito ASC), Segreteria di Stato, Serie I, Dispacci di Corte e Ministeriali al Viceré, vol. 76, c. 406.
[57] Biagio Melis era nato a Cagliari nel 1762 dal notaio Pietro Giuseppe Melis e da Anna Armerin. Entrato nel Corpo delle Guardie del Re, vi raggiunse il grado di luogotenente. Secondo le notizie raccolte dalla dott.ssa Del Piano, Biagio Melis divette essere sin da giovane alquanto intraprendente con il gentil sesso e dovette offrire spunto al gossip cittadino. Da una causa civile conservata nell’Archivio di Stato di Cagliari si viene a sapere che già da prima del 1800 egli conviveva con Apollonia Martini, deceduta nel gennaio 1801, sposata nel 1789 al commerciante Aniello Onorato, originario d’Ischia nel Regno di Napoli, da cui si era separata nel 1790, senza ottenere il divorzio. La separazione, secondo la testimonianza resa dal trentaseienne marito Onorato nel 1800, era da imputarsi al «metodo di vita» della Martini, resasi colpevole di aver tradito i doveri coniugali «avendo avuto a coabitare con un soggetto la di cui frequenza avendola pregiudicata nell’onore, ha in conseguenza offeso il marito nei diritti più sacri da osservarsi illesi dai giugali». Il «soggetto» con cui convisse la donna era appunto l’allora guardia del corpo del Re Biagio Melis, che dopo il 1790 aveva lasciato l’abitazione paterna per convivere con Apollonia Martini, che, secondo la testimonianza dello stesso Melis, egli era riuscito a piegare «ai di lui lascivi voleri» (ASC, Reale Udienza, Cause civili, P. 54, 85/4). Secondo un’altra notizia archivistica del 25 marzo 1811, il luogotenente Biagio Melis avrebbe molestato Raimonda Cortese, figlia del ricco commerciante Onorato Cortese e futura moglie del marchese Viaris, circostanza di cui il genitore ebbe a lamentarsi con il Reggente della Regia Segreteria di Stato cavalier Gioacchino Rossi, che promosse un’indagine presso il comandante della Cavalleria De May (cfr. ASC, vol. Cortese Onorato). Biagio Melis, uomo impenitente sotto il profilo morale, sposò il 13 ottobre 1832, sette giorni prima di morire, la convivente Maria Martini.
[58] Cfr. L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, a cura di L. Carta, vol. 24, 4 tomi, collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», Cagliari, Consiglio Regionale della Sardegna, 2000.
[59] L. Carta, Reviviscenza e involuzione dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento (1793-99), in L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, cit., vol.24, tomo I, p. 267. Il corsivo è nel testo.
[60] V. Del Piano, Inedito sulle logge massoniche a Cagliari, cit.
[61] Ibidem.
[62] ASC, Segreteria di Stato, Serie I, Dispaccio del cav. Giacomo Pes di Villamarina alla Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna del 31 agosto 1816, vol. 319, c. 243r.
[63] Cfr. G. M. Cazzaniga, Nascita del Grande Oriente d’Italia, in Storia d’Italia. Annali 21, La Massoneria, cit., pp. 545-58.
[64] Vedi supra, nota 237.
[65] Cfr. V. Lai, La rivoluzione sarda e il «Giornale di Sardegna», cit.
[66] Cfr. L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, cit., vol. 24, tomo III, p. 1638. Precedentemente, per la sola data del 17 marzo 1795, Giuseppe Melis Atzeni si era fatto sostituire dal padre di Biagio ed Efisio, segretario del gremio dei Santelmari, che firma «Pietro Giuseppe Melis segretario» (ivi, vol. III, p. 1560). Tra i verbali dello Stamento reale sinora rintracciati e pubblicati, il segretario Giuseppe Melis Atzeni firma quelli compresi tra la fine di dicembre 1794 e il 19 agosto 1795; mancano dunque all’appello, tra quelli che risultano consegnati da Biagio Melis a Giacchino Carrus, quelli compresi tra il 29 aprile 1793 e la fine di dicembre 1794. I verbali dal 20 al 31 agosto 1795 non recano firma del segretario; Efisio Melis li firma dal 1° settembre al 18 gennaio 1796, mentre non recano la firma quelli compresi tra l’11 marzo 1796 e il 29 dicembre 1798, probabilmente perché si tratta di minute.
[67] Cfr. ivi, tomo IV, p. 2787.
[68] Efisio Luigi, «notaio e pro-dottore», aveva sposato nel 1800 M. Antonia Mura, dalla quale ebbe dei figli. Debbo anche queste informazione alla dott.ssa Vittoria Del Piano.
[69] Vedi supra, nota 193.
[70] Cfr. ASC, Segreteria di Stato, Serie I, Dispacci col Ministero di Sardegna del 1816 e del 1817, voll. 76-77.
[71] ASC, Segreteria di Stato, Serie I, Dispaccio del cav. Giacomo Pes di Villamarina alla Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna del 26 ottobre 1816, vol. 319, c. 2276r. Non ha sortito risultati le ricerche effettuata in ASC, Segreteria di Stati, Serie II, Pareri del Reggente la Reale Cancelleria, vol. 1741, contenente minute di pareri dal 1807 al 1828; ASC, Segreteria di Stato, Serie I, Dispacci viceregi della Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna, anno 1817], vol. 320.
[72] Cfr. V. Del Piano, Inedito sulle logge massoniche a Cagliari, cit. Il club era capeggiato dall’abate di Salvenero Gian Francesco Simon e non dal fratello Matteo Luigi, come scrive V. Del Piano.
[73] Cfr. M. Falchi Delitala, La Loggia inglese di Cagliari 1738-1814, in Questione sarda e dintorni. Liber Amicorum per Gianfranco Contu, a cura di A. Contu, Cagliari, Condaghes, 2012, pp. 142-69.
[74] Ivi, p. 162.
[75] Ivi, p. 163.
[76] Ivi, pp. 164-65.
[77] Ivi, pp. 157-58. Le espressioni tra virgolette sono desunti da F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento, cit.
[78] Cfr. ivi p. 142. Cfr. P. Naudon, Histoire générale de la Franc-Maçonnerie, s. l., Office du Livre, 1987.
[79] D. Diderot, Interpretazione della natura, a cura di P. Omodeo, traduzione di G. Cantelli, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 23.