Correnti illuministiche e fermenti laici nel Settecento e nell’età giacobina e napoleonica, Luciano Carta (seconda parte)
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de doighe.
Sommario (seconda parte): “4.Fermenti illuministici nella cultura sarda tra le riforme boginiane e la Rivoluzione francese. 5. Il triennio rivoluzionario sardo (1793-96): massoneria o giacobinismo?
4. Fermenti illuministici nella cultura sarda tra le riforme boginiane e la Rivoluzione francese
La ricaduta dell’insegnamento dei docenti «forestieri» sulla più giovane generazione dell’intellettualità sarda non si fece attendere. Quasi a ridosso delle opere più significative dei docenti continentali, segno di una precoce e proficua adesione alla nuova temperie culturale del secolo dei lumi, incentrata sui principi del progresso scientifico dell’umanità e sull’uso delle conoscenze per favorire la realizzazione della «pubblica felicità» in ambito sociale e politico, si assiste ad una notevole produzione locale di scritti di carattere storico, letterario, agronomico, giuridico, linguistico, chiaro segnale del fatto che il seme gettato dalle riforme boginiane iniziava a portare i suoi frutti. In questa fioritura di studi e di opere, fu particolarmente fertile il settore della letteratura didascalica, tipico genere letterario dell’Europa settecentesca atto a propagandare la cultura del progresso e dell’innovazione. Sulla falsariga dell’opera del Gemelli, il «rifiorimento» dell’agricoltura si affermò come problema di rilevanza primaria nella sensibilità dei giovani intellettuali sardi. Tra essi si distinsero soprattutto Domenico Simon (1758-1829), autore del poemetto didascalico Le piante[1], recentemente riproposto da Giuseppe Marci[2], e Antonio Purquerddu (1749-1810), autore del poema, anch’esso didascalico bilingue Del tesoro di Sardegna nel coltivo de’ bachi e gelsi[3].
Il filone della letteratura didascalica, che fu il più vitale nel panorama letterario del Settecento sardo, vanta anche altre importanti figure di dotti della cultura settecentesca. Tra questi l’ex gesuita di Bonnannaro Francesco Carboni, elegante poeta che compose in latino il poemetto De sardoa intemperie (1772), sulla malaria, piaga endemica della Sardegna, e De corallis (1779)[4], sulla pesca del corallo, successivamente tradotto in italiano dal canonico cagliaritano Raimondo Valle, che fu l’ultimo epigono della letteratura didascalica, che nel 1806 pubblicò il poema in versi sciolti I tonni[5].
Nel filone didascalico può essere inclusa anche la poliedrica figura del Censore generale Giuseppe Cossu[6], autore di diverse opere di carattere divulgativo nel campo dell’innovazione in agricoltura e nella pastorizia, due settori cardine dell’economia della Sardegna, forse il migliore interprete del riformismo boginiano e la figura più significativa di funzionario «illuminato». Secondo l’autorevole parere di Franco Venturi, egli deve essere considerato il più significativo «illuminista» sardo. Il grande storico torinese dell’illuminismo europeo, che insegnò nell’Università di Cagliari nei primi anni Cinquanta del Novecento[7], ha pubblicato nel 1964, sulla «Rivista storica italiana» l’importante saggio Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari, e successivamente ha inserito il Cossu tra le figure «minori» dell’illuminismo italiano nel volume Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole[8].
Il cenno ad alcune delle più significative personalità della cultura sarda della seconda metà del Settecento, che seppero trarre alimento per le loro opere dall’innegabile progresso della cultura a seguito della stagione riformistica avviata dal Bogino, non esaurisce il discorso sulla ricaduta positiva di quella stagione, che matura ulteriormente negli anni Ottanta, tra il primo e il secondo decennio del regno di Vittorio Amedeo III, in passato forse troppo ingiustamente presentato come un complessivo periodo di arretramento politico e culturale del Regno sardo[9]. È opportuno sottolineare ancora due aspetti peculiari di questa rinascita culturale in Sardegna: l’acquisizione da parte dell’intellettualità sarda di un rinnovato senso di «identità nazionale» e patriottica che portò al recupero della memoria storica dell’isola; lo studio e la valorizzazione della lingua sarda.
Relativamente al primo aspetto, si deve riconoscere che il merito di aver suscitato l’interesse al recupero della memoria del passato spetta ancora una volta ai professori «forestieri», in particolare gesuiti, che attraverso lo strumento didattico innovativo del teatro realizzarono, nel corso degli anni scolastici, numerose pubbliche «accademie» in cui si misero in scena, oltre che argomenti scientifici, anche argomenti di storia patria. Basti solo ricordare il professore di Eloquenza italiana Angelo Berlendis, che nel 1783 pubblicava la tragedia San Saturnino, martire di Cagliari[10], e prima di lui lo scolopio Stanislao Stefanini, professore di Eloquenza latina, che nel 1773 aveva pubblicato una dissertazione storica dal titolo De veteribus Sardiniae laudibus[11], in cui ricostruiva un ampio quadro della Sardegna antica attraverso le fonti classiche, interrogandosi sulla funzione dei nuraghi e confutando i giudizi offensivi di Cicerone sui sardi «mastrucati latrones». Sempre nel mondo accademico dei professori «forestieri» ebbe inizio un interesse sistematico per le antichità sarde e la raccolta ed esposizione di reperti archeologici. Fu lo stesso Bogino nel 1765 a disporre che le antiche iscrizioni e marmi rinvenuti nell’isola fossero utilizzati per ornare la nuova sede dell’Università cagliaritana. Tre anni prima, nel 1762, avendo il viceré conte della Trinità segnalato la scoperta nelle campagne di Cagliari di un grande mosaico romano raffigurante Orfeo che con la musica ammansisce le fiere, il ministro aveva dato disposizioni perché esso fosse smontato e spedito a Torino, dove sarebbe stato esposto nei locali dell’Accademia delle Scienze. Nel 1790 Ludovico Baille, benemerito erudito e cultore di antichità, suggeriva la fondazione di un «museo di antichità» a Cagliari, suggerimento che sarebbe stato raccolto da Carlo Felice con l’allestimento nel Palazzo regio del «gabinetto di antichità e storia naturale», che nel 1805 avrebbe donato all’Università di Cagliari e che costituì l’originario nucleo del futuro Museo di Antichità[12].
Il frutto più maturo di questo rinnovato interesse per la storia patria è costituito sicuramente dalla raccolta di fonti e documenti di storia della Sardegna, iniziata a Torino da Domenico Simon nel 1787-88 con la collana Rerum Sardoarum Scriptores. Ad imitazione dei Rerum Italicarum Scriptores del Muratori, il Simon si proponeva di raccogliere in modo sistematico i testi e i documenti sulla Sardegna. Nella collana da lui ideata, il nobile algherese riuscì a pubblicare solo due titoli, la Sardinia antiqua di Stefano Cluverio, un classico della geografia antiquaria del Seicento, e la Sardiniae brevis historia et descriptio di Sigismondo Arquer, che era stata pubblicata per la prima volta a Basilea nel 1550 nella Cosmographia Universalis di Sebastian Münster, unitamente ad altre fonti medioevali già pubblicate dal Muratori. Per mancanza di mezzi l’intrapresa editoriale di D. Simon fu interrotta[13].
L’attenzione verso la lingua sarda fu una conseguenza della progressiva introduzione della lingua italiana nelle scuole e dell’uso di essa da parte della burocrazia e dell’intellettualità. I nuovi metodi adottati dai professori «forestieri» nell’insegnamento del latino e dell’italiano, il desiderio di molti di essi di meglio comprendere le tradizioni e i costumi dell’isola, le problematiche del purismo linguistico largamente prevalenti nel dibattito dei letterati settecenteschi, favorirono l’emergere di una sensibilità affatto nuova per i diversi dialetti della Sardegna. Ciò non significa che questo interesse per la lingua sarda dati esclusivamente dalla seconda metà del Settecento. Basti ricordare, nella prima metà del secolo XVIII, l’Index libri vitae del parroco di Villanova Monteleone Giovanni Delogu Ibba (1664-1738), pubblicato nel 1736, che costituisce la più ampia raccolta di Gosos (lodi) in onore dei santi venerati nell’isola e contiene anche una sacra rappresentazione sulla deposizione di Gesù dalla croce, Tragedia in su iscravamentu[14]. L’interesse per la lingua sarda nella seconda metà del Settecento, che si sviluppa in concomitanza con il dibattito letterario in Italia, riguarda la riflessione sulla lingua, la ricerca di una filiazione illustre di essa dalle due lingue dell’antichità classica, il greco e il latino, l’elaborazione di una teoria linguistica capace di annoverare con pari dignità la lingua sarda nel concerto delle lingue neolatine dell’Europa e al tempo stesso lo sforzo di creare una lingua illustre modellata su tale nobile origine.
È all’interno di questo dibattito culturale che si inserisce il primo attento studio dell’«idioma nazionale» ad opera dell’ex-gesuita di Ozieri Matteo Madau (1733-1800)[15], che nel 1782 pubblicava il Saggio di un’opera intitolata il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina[16]. In quest’opera, che costituisce il primo vero studio di linguistica sarda, il Madao motivava in senso «patriottico» la sua ricerca. In linea con la tradizione purista e classicheggiante propria dei Cruscanti, secondo i quali l’italiano più perfetto nel lessico come nella sintassi era quello che si avvicinava di più al latino, il Madao si proponeva di «ripulire» il sardo logudorese per renderlo il più possibile simile «alle sue matrici lingue, il greco e il latino».
Girolamo Sotgiu ha osservato acutamente che «l’incontro con la cultura italiana portò non al fiorire di una letteratura in questa lingua, ma invece alla stagione più alta della poesia in lingua sarda»[17]. Abbiamo già avuto modo di ricordare, oltre alle opere dell’insigne latinista Francesco Carboni, che oltre a essere sommo poeta in latino fu anche forbito autore di versi in italiano, il poema didascalico in ottava rima italiana Le Piante di Domenico Simon e il poema bilingue Il tesoro della Sardegna di Antonio Purqueddu. La versificazione divenne, più che una moda, una mania che durò fino alla metà dell’Ottocento, tanto che G. Siotto Pintor ebbe a scrivere che in Sardegna, tra Settecento e Ottocento, «poetavan tutti». E nel poetare la principale scuola di riferimento fu l’Arcadia e il dramma metastasiano. Nessun autore sardo, tuttavia, raggiunse nella versificazione in italiano traguardi notevoli, anche se qualcuno tra essi si avventurò nell’agone poetico scrivendo e rappresentando, ha scritto Pasquale Tola, «produzioni miserabilissime, le quali possono appena meritare l’indulgenza dei lettori per essere le prime tragedie italiane composte da un autore sardo»[18]. Il Tola si riferiva ai melodrammi composti in stile metastasiano dal cagliaritano Antonio Marcello (1730-1799), autore di diversi drammi per musica come Perdicca (1784), Marcello (1784), La morte del giovane Marcello (1784) e Olimpia (1785).
Molto diverso dev’essere il giudizio sulle produzioni poetiche in lingua sarda, soprattutto quelle liriche: «è viva [ancora oggi] – ha scritto G. Sotgiu – l’alta e non peritura poesia di Pietro Pisurzi (1724-1795), del gallurese don Gavino Pes (1724-1795), del pattadese Gian Pietro Cubeddu (1748-1829) e dell’ozierese Francesco Ignazio Mannu»[19].
5. Il triennio rivoluzionario sardo (1793-96): massoneria o giacobinismo?
Massoneria o giacobinismo Fissare un giudizio sul riformismo sabaudo prima di affrontare il periodo della «sarda rivoluzione» è di notevole importanza per comprendere in modo adeguato l’eccezionale fase storica dell’ultimo decennio del secolo. Per fare ciò è importante partire dai due dei più noti storici sardi contemporanei che hanno pubblicato ciascuno un volume d’insieme sul Settecento sardo nel 1984.
Carlino Sole, autore dell’opera La Sardegna sabauda nel Settecento, pur valutando positivamente alcuni provvedimenti del periodo boginiano, tuttavia, quando deve dare un giudizio complessivo, sostiene che quello sabaudo fu «un riformismo che non rinnova», perché si trattò di un riformismo «ristretto nei suoi orizzonti, specialmente culturali, rivolto com’era, in modo del tutto settoriale, alla unificazione amministrativa dello Stato secondo le esigenze del centralismo burocratico», che non aggrediva la vera cancrena della società rappresentata dal sistema feudale e dai suoi privilegi[20]. Si trattò, dunque, di un’azione riformatrice episodica e frammentaria che non seppe, o non volle, intaccare alla radice l’assetto politico e sociale.
Analogo, ma più articolato, è il giudizio formulato nel volume Storia della Sardegna sabauda da Girolamo Sotgiu, che per definire il riformismo sabaudo usa la formula «razionalizzazione senza riforme». Sin dagli anni Settanta l’illustre storico aveva dedicato un’attenzione particolare alle vicende della Sardegna di fine Settecento, segnalando l’importanza di quel momento cruciale della nostra storia, in cui egli individuava i germi della contemporaneità, impostandone lo studio secondo categorie interpretative nuove e originali, rivalutando l’importanza delle assemblee stamentarie nel complesso periodo del triennio rivoluzionario sardo, sebbene fondasse la sua ricostruzione su una documentazione archivistica già nota, sull’opera del Manno e sulla ormai vastissima storiografia. Egli richiamava anzitutto l’attenzione su un grave limite della storiografia sarda, che, sul presupposto di una malintesa e non meglio definita ‘specificità’ dell’isola, dimenticava che la storia della Sardegna della fine del Settecento, come di qualunque altro periodo, non può essere compresa se non viene inquadrata nel più vasto panorama della storia italiana ed europea.
Si sforzava inoltre di individuare le cause strutturali dell’arretratezza della Sardegna, l’incidenza e i limiti del riformismo sabaudo, le motivazioni economiche, politiche e culturali che stavano alla base del rivendicazionismo autonomistico di fine Settecento, le forze sociali che se ne fecero interpreti. Secondo G. Sotgiu il riformismo sabaudo della seconda metà del secolo XVIII ebbe sulla società isolana un impatto decisamente positivo, che si tradusse in una complessiva per quanto limitata crescita economica e demografica e in un sensibile elevamento del grado di cultura specie tra le classi abbienti; avviò l’ammodernamento della struttura produttiva e la razionalizzazione dell’apparato amministrativo; favorì la crescita di una moderna per quanto poco intraprendente borghesia cittadina e terriera. Tale politica di riforme, funzionale ad un «assolutismo cieco e retrivo» e a un regime coloniale di governo che comportò una «alterazione arbitraria delle istituzioni esistenti», non poté agire in profondità nella società isolana e nelle sue strutture produttive, che mantenne inviluppate nell’anacronistico sistema feudale; soprattutto non fu capace, dopo averne creato le premesse, di rispondere alle aspettative della nuova intellettualità locale che, resa più cosciente della propria identità e dei propri diritti, aspirava legittimamente ad un coinvolgimento diretto nel governo dello Stato. Tale riformismo si risolse, dunque, secondo la definizione di Sotgiu, in una «razionalizzazione senza riforme»[21].
L’interpretazione del riformismo sabaudo proposta da Sotgiu, che ha come punto di riferimento la Rivoluzione francese ed è connaturata ad una concezione fortemente contestativa del rapporto tra centro e periferia nell’ambito dello Stato moderno, risulta oggi, alla luce dei più recenti studi che egli ha contribuito a promuovere, alquanto riduttiva per mettere a fuoco il complesso rapporto tra Piemonte e Sardegna nella seconda metà del Settecento.
Già nella metà degli anni Ottanta Giuseppe Ricuperati, rivalutando una caratteristica della concezione politica e storiografica del Manno e facendo tesoro dei magistrali studi di Franco Venturi sul Settecento riformatore, osservava che un corretto approccio storiografico al riformismo settecentesco non poteva avere come unico punto di riferimento i valori e le conquiste politiche della Rivoluzione francese, alla luce dei quali il riformismo illuminato non poteva che apparire un progetto politico inadeguato e perdente. Il riformismo settecentesco, in particolare quello sabaudo, doveva al contrario essere considerato «dall’interno» della concreta realtà della Sardegna, periferia in situazione di grande arretratezza, per valutarne i risultati non tanto alla luce delle successive conquiste rivoluzionarie, quanto degli altri modelli di riforma attuati negli Stati italiani, ad esempio quello asburgico e quello borbonico[22].
Sulla base di questa ipotesi storiografica, le cui premesse erano presenti nei due lavori di Venturi sulla Sardegna apparsi tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, A. Mattone e P. Sanna hanno offerto, nel più volte citato saggio La «rivoluzione delle idee», un’interpretazione nuova e avvincente del riformismo sabaudo nella Sardegna del Settecento, valutandone gli esiti nell’ottica della “lunga durata”. Concentrando l’attenzione sulla riforma dell’istruzione primaria nel 1760 e delle due Università di Cagliari e di Sassari nel 1764-1765, che può considerarsi la vera grande riforma tra quelle volute dal ministro Lorenzo Bogino, i due studiosi hanno analiticamente ricostruito il percorso attraverso il quale la società sarda nella seconda metà del Settecento, disancorandosi dalle secche della ormai asfittica cultura iberica, si rinnova profondamente immettendosi nel circuito vitale della cultura italiana ed europea. Ciò grazie alla lenta ma progressiva introduzione della lingua italiana nelle scuole primarie e soprattutto alla folta schiera di docenti universitari «forestieri» che il Bogino aveva mandato in Sardegna dalla Dominante, che nel corso di un trentennio furono i promotori del rinnovamento della cultura. Alla loro scuola si formò una classe di intellettuali, che in quella temperie culturale maturò la coscienza di un nuovo «patriottismo», terreno di coltura del risveglio della coscienza autonomistica nel triennio rivoluzionario. Secondo i due studiosi sassaresi, nel trentennio che precedette la «sarda rivoluzione» del 1793-1796, la società isolana è stata lentamente e irreversibilmente pervasa da una rivoluzione meno appariscente, ma non per questo meno importante, di quella di fine secolo: la «rivoluzione delle idee», che rappresenta il vero incunabolo della rivoluzione politica degli anni Novanta.
La Sardegna si presenta, dunque, all’appuntamento epocale della Rivoluzione francese, non impermeabile alle idee del secolo dei lumi, ma sufficientemente coinvolta nella grande «rivoluzione delle idee» che pervase l’Europa del Settecento. Sebbene non siano state sinora individuate tracce della presenza massonica, è tuttavia innegabile che, in senso lato, come si è avuto modo di mostrare, i fermenti culturali del secolo che caratterizzarono anche l’istituto latomistico circolarono in Sardegna.
È noto che nei tre lustri compresi tra l’inizio della Rivoluzione francese e l’età napoleonica, la massoneria fu soggetta ad alterne fortune anche presso gli artefici politici della Francia repubblicana, sebbene la letteratura controrivoluzionaria che ha fatto presa soprattutto in ambito cattolico, abbia creduto di attribuire ad un complotto libero-muratorio la causa prossima della Rivoluzione: è la nota teoria del «complotto massonico», che ha identificato la massoneria con il giacobinismo, accreditata dalla monumentale opera dell’ex gesuita Augustin Barruel[23]. Se è innegabile che numerosi rivoluzionari, soprattutto di parte girondina, furono affiliati alla massoneria – si pensi a Mirabeau, Lafayette, Luigi Filippo d’Orléans, meglio noto come Filippo Égalité – è vero altresì che durante il periodo giacobino, inaugurato nel settembre 1792 con la proclamazione delle Repubblica, diversi leaders giacobini, tra cui spicca Maximilen Robespierre, le furono avversi e la perseguitarono. Ciò non impedì tuttavia a numerose logge di trasformarsi in clubs politici, vere e proprie sette di tendenze politiche radicali, «producendo quello che Giarrizzo ha descritto come passaggio da una società dei segreti, che tramandava conoscenze riservate agli iniziati, a una società segreta con scopi cospirativi»[24]. Sarà questa l’eredità più significativa che la massoneria lascerà alle Società segrete del periodo della Restaurazione. Dopo il Terrore, nel periodo in cui la Francia repubblicana fu governata dal Direttorio a partire dall’estate 1794, le logge massoniche tornarono in auge fino a diventare, nelle mani di Napoleone, la longa manus del potere politico e lo strumento di canalizzazione del consenso al regime tra le élites intellettuali, burocratiche, economiche e militari. All’interno di questa evoluzione della massoneria francese, nel 1805 venne istituito nel neonato Regno d’Italia affidato al governo di Eugenio Beauharnais, il Grande Oriente d’Italia, primo centro latomistico nazionale centralizzato, nelle cui logge poterono trovare un punto di riferimento e un luogo di elaborazione politica non pochi uomini di spiriti liberali e costituzionali. Questi uomini rappresentarono il primo nucleo di quel patriottismo italiano che nei decenni successivi, dopo tramonto di Napoleone, anche attraverso le esperienze dei moti rivoluzionari degli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, le attività cospirative delle sette carbonare e la nascita del movimento mazziniano, riemerse dalla lunga notte della Restaurazione nel 1848, fu parte attiva del moto risorgimentale e fondò nel 1859 a Torino il nuovo Grande Oriente d’Italia[25].
All’interno del periodo storico che inizia con il sommovimento epocale della Grande Rivoluzione e si conclude con il tramonto di Napoleone, in qual modo si situa la Sardegna? Ai fini del nostro discorso, è possibile individuare, nel quadro dei fermenti politici, economici, sociali e culturali di assoluta novità, che maturarono nel «triennio rivoluzionario sardo» del 1793-96, una presenza o per lo meno degli apporti riconducibili con certezza alla massoneria? In termini più semplici, ci furono in Sardegna dei gruppi latomistici specificamente riconducibili ad una presenza organizzata della massoneria?
Alcuni storici ritengono che questa presenza e questo apporto vi siano stati[26]; la storiografia più avvertita li ritiene probabili o dubbiosi; altri li negano. Avendo come punto di riferimento la cosiddetta «sarda rivoluzione» del 1793-96 , che si inscrive a pieno titolo tra i tentativi e le aspirazioni di trasformazione progressiva della società europea e si svolse in concomitanza e, per certi aspetti, anche come conseguenza della Rivoluzione francese, prima di esaminare le opinioni degli storici che hanno postulato la presenza della massoneria in Sardegna, riteniamo sia opportuno delineare i valori e le conquiste significative realizzate dai Sardi in quella fase storica, soprattutto per vagliarne l’aderenza con i «Grandi Veri» dell’Ottantanove, di cui anche la massoneria fu veicolatrice.
Non è possibile in questa sede ripercorrere gli eventi della «sarda rivoluzione», cui sono stati dedicati negli ultimi cinque lustri numerosi saggi storici di grande importanza, ai quali rimandiamo[27].
La ricerca storica più recente ha posto in evidenza come il valore più significativo maturato in quel periodo storico possa essere individuato nell’acquisizione ed elaborazione, da parte delle élites intellettuali e del popolo sardo nel suo insieme, di una matura coscienza della propria «identità», soprattutto ad opera di quei giovani che avevano compiuto i loro studi nelle Università riformate aperte alla cultura illuministica, protagonisti indiscussi della «sarda rivoluzione». Tale nuova coscienza identitaria si concretizzò, in ambito politico e sociale, nella pratica di un forte sentimento patriottico, che comportava l’affermazione della “specificità” del popolo sardo attuata in concreto attraverso la richiesta al sovrano di ripristinare le prerogative costituzionali del Regno, completamente dimenticate nei settant’anni di governo piemontese; la denuncia di un regime “coloniale” di governo; la rivendicazione del diritto dei Sardi di essere parte attiva nel governo dello Stato; la volontà di imboccare la strada di un riformismo capace di distruggere l’anacronistico sistema feudale con una riforma strutturale della società isolana che iniziasse a metterla in sintonia con le conquiste politiche e sociali del secolo.
Sono questi i valori essenziali affermatisi attraverso le vicende del «triennio rivoluzionario sardo», che possiamo riassumere in quattro tappe principali: la resistenza contro l’invasione francese e l’elaborazione durante il 1793 della piattaforma politica unitaria delle «cinque domande» di carattere anti-assolutista e autonomista; la cacciata dei Piemontesi il 28 aprile 1794, conseguenza del non accoglimento da parte del sovrano di quelle richieste; il governo autonomo dei Sardi e la scissione all’interno del movimento patriottico tra il 1794 e il 1795, fase politica culminata con l’assassinio di Gerolamo Pitzolo e del Marchese della Planargia, i due capi dell’ala reazionaria; l’esplosione della lotta anti-feudale nel Capo settentrionale e il fallimento del tentativo dell’alter nos Giovanni Maria Angioy di ottenere l’abolizione del sistema feudale attraverso il riscatto a titolo oneroso, secondo il progetto delle comunità rurali con i cosiddetti Atti d’unione e di concordia[28].
Alcuni storici hanno ritenuto di poter individuare all’interno di questi eventi la presenza della massoneria in Sardegna. Abbiamo già espresso la nostra opinione in merito alle congetture di una presenza massonica in Sardegna già dalla fine degli anni Trenta del Settecento: generose ipotesi prive di prove documentarie. Analogo discorso si deve fare sulla asserita presenza della massoneria nel periodo della «sarda rivoluzione», sebbene nel corso di essa si siano verificati episodi e vi siano stati gruppi di intellettuali, alti funzionari, professionisti, studenti, commercianti, artigiani e membri del clero che possono legittimamente essere considerati aderenti a gruppi che agivano in segreto, come accade in ogni società in cui l’espressione delle opinioni è controllata da un’occhiuta censura, pratica radicata nel governo assolutista piemontese sia nell’isola che negli Stati di terraferma.
Il problema della massoneria in Sardegna venne riproposto, in occasione delle celebrazioni del primo centenario dell’Unità d’Italia, da Pietro Leo in un denso e patriottico discorso tenuto a Cagliari nel 1961, che ancora oggi si legge con interesse[29]. Il Leo, dopo aver rivendicato con forza la partecipazione della Sardegna al moto risorgimentale e la sua appartenenza all’area italiana fin dal Settecento, scriveva: «Il Risorgimento, come è stato ripetutamente affermato, è un fatto di carattere spirituale e culturale che affonda le sue radici sulla ideologia del Settecento europeo. E noi non siamo rimasti estranei a questo movimento di pensiero, tanto poco ci siamo rimasti che molti dei nostri hanno pagato […] di persona per aver voluto tradurre il pensiero in azione»[30]. Dopo aver ricordato la politica riformatrice del ministro Bogino e la linfa nuova di cultura e di idee che nel secondo Settecento plasmarono l’intellettualità isolana, egli aggiungeva:
«attraverso i nostri rapporti con il Piemonte si diffuse ancora in Sardegna la cultura francese cui era strettamente legata quella piemontese. Questa affermazione meriterebbe un lungo discorso: accennerò che nelle biblioteche più o meno copiose dei sardi che vivevano nel mondo della cultura non mancava mai una abbondante scelta di libri francesi. Attraverso anche memorie famigliari posso affermare che qui erano conosciute le opere del Bossuet, del Rousseau, del Fleury, del Raynal, di Corneille, di Racine, di Fénélon, di Voltaire, etc. etc. Si può perciò facilmente comprendere come anche in Sardegna potessero penetrare le idee degli illuministi, ché altrimenti non potrebbero comprendersi gli avvenimenti del 1796 e degli anni seguenti, e con le idee illuministiche dovettero penetrare anche in Sardegna le Società segrete […]. Della diffusione delle Società segrete non dobbiamo meravigliarci perché ne parlano con simpatia il Muratori, il Goldoni e lo stesso De Maistre, il capo dottrinario della controrivoluzione, che si riprometteva di salvare il Cristianesimo per mezzo della massoneria, vi era regolarmente iscritto. Questi del resto doveva ben sentire i vincoli massonici se per ben due volte durante il suo soggiorno in Sardegna intervenne a favore di due personaggi accusati di giacobinismo e cioè il prof. Luigi Liberti dell’Università di Cagliari e il notaro Giovanni Sulis di Oristano, senza contare che per i suoi interventi in favore di perseguitati politici, venne in urto violento con Carlo Felice»[31].
La supposizione del Leo sull’esistenza di logge massoniche, che riprende la citata tesi di Oreste Dito, è indiretta e non fondata su basi documentarie; ha quindi carattere meramente congetturale. Vi è tuttavia un aspetto nel discorso del Leo che va sottolineato: l’affermazione della diffusione in Sardegna della cultura illuministica, un’affermazione corroborata da un’importante testimonianza di carattere personale e familiare. Egli infatti era pronipote di Pietro Antonio Leo, celebre medico dell’Università di Cagliari, prematuramente scomparso a Parigi nel 1802, dove si era recato per approfondire le sue conoscenze professionali, che possedeva una personale biblioteca ricca «di un’abbondante scelta di libri francesi», chiara dimostrazione del fatto che, come altri intellettuali sardi, era partecipe della cultura illuministica[32]. Si tratta di una felice intuizione storiografica, che si muove sulla scia delle indicazioni di Franco Venturi ed è stata recentemente confermata e, si può dire, inverata dal più volte citato saggio di A. Mattone e P. Sanna[33]. Meno condivisibile appare, al contrario, la congettura del Leo per cui «con le idee illuministiche dovettero penetrare anche in Sardegna le Società segrete»[34].
Sono di carattere congetturale anche le numerose asserzioni di Felice Cherchi Paba, lo studioso che più di ogni altro ha sostenuto la tesi della presenza della massoneria in Sardegna nell’ultimo decennio del Settecento. Nel secondo capitolo del saggio Don Michele Obino e i moti lussurgesi, dal titolo significativo Massoni e Giacobini[35], dopo avere acriticamente accolto le affermazioni di Oreste Dito e Alberto Maria Ghisalberti sullo stabilirsi di Società di Liberi Muratori nell’isola, egli asserisce che «la Sardegna fu fra le prime regioni d’Italia ad avere la penetrazione massonica e a sentire gli influssi del suo illuminismo»[36]: non solo, ma ritiene che «la prima loggia sia stata aperta […] presso il Consolato inglese di Cagliari posto che, sin dai primordi del secolo scorso, il Venerabile della Loggia Cagliaritana, di rito scozzese, fu, fino a non molto, il console inglese»[37]. Nessuno storico ha mai documentato a tutt’oggi che il console inglese a Cagliari fin dall’inizio dell’Ottocento sia stato il Maestro Venerabile della presunta loggia del capoluogo né ha documentato l’esistenza stessa di tale loggia. L’obiettivo del discorso del Cherchi Paba, già da queste prime battute, è evidente: fin dall’origine fu la massoneria, e per essa il presunto folto gruppo di «giacobini» che sarebbero stati presenti a Cagliari negli anni Novanta, a dare impulso alla «sarda rivoluzione»; le presunte logge massoniche sarde, così come accadde in Francia, costituirono il brodo di coltura del «movimento giacobino», di orientamento democratico, espressione con la quale il Cherchi Paba intende catalogare indistintamente il «movimento patriottico» sardo, che per obiettivi politici e per cultura fu assai variegato al suo interno[38]. Si tratta, com’è evidente, di una riproposizione in salsa sarda della teoria del «complotto massonico», che sarebbe all’origine della Rivoluzione francese, secondo la nota tesi di Augustin Barruel[39].
Nel 1792, poco prima dell’inizio del «triennio rivoluzionario sardo» – continua il Cherchi Paba -, il noto «poeta in latino» ed ex gesuita Francesco Carboni, prefetto delle Scuole di Santa Teresa e docente di Eloquenza latina presso la Facoltà di Arti dell’Università di Cagliari, accusato di essere seguace delle novità francesi, fu allontanato dall’insegnamento; egli sarebbe stato «assertore di un illuminismo religioso»[40] ed anche autore di un libello «con princìpi giacobini»[41], sebbene la «iniqua operetta»[42], per il cui sequestro erano stati perquisiti la casa ed il negozio di un commerciante cagliaritano e si erano estese le ricerche fino ad Oristano, non sia stato mai rintracciato. A seguito di queste vicende il mite poeta di Bonnannaro abbandonò l’insegnamento e si ritirò nel minuscolo villaggio di Bessude, nel Sassarese, dove morì nel 1817 e dove è sepolto nella chiesa parrocchiale. In seguito avrebbe scritto un poema celebrativo su Napoleone e poi l’avrebbe distrutto[43].
Il culmine dell’infatuazione e della propaganda per le libertà francesi in Sardegna si ebbe, secondo il Cherchi Paba, durante il periodo del «triennio rivoluzionario sardo». Già nell’autunno 1792 il viceré Balbiano comunicava a Torino che era assai attiva nell’isola la propaganda contro il governo, sebbene essa fosse «coperta dalla dissimulazione e dal silenzio» e con un pregone del 14 gennaio 1793 metteva in guardia contro il proselitismo francese[44]. Nel gennaio 1793 fu arrestato il muratore cagliaritano Michele Loi Ceddu per propaganda filo-francese[45]; furono allontanati diversi francesi da lungo tempo residenti nel capoluogo, tra cui il console Guys, il negoziante torinese Gigon e due altri non meglio identificati suoi soci perché «decisi partigiani della Convenzione Nazionale»; nel febbraio 1793, durante il bombardamento di Cagliari ad opera della flotta comandata dal contrammiraglio Laurent Truguet, furono arrestati diversi cittadini, tra cui il docente universitario di diritto Luigi Liberti «per intelligenza col nemico» e perché avevano «tenuto discorsi seducenti in proposito» e avevano «spiegato l’inclinazione loro alle massime di Francia»[46]; fu arrestato il banditore di Sinnai perché, invece di divulgare un pregone viceregio che vietava qualunque intelligenza con il nemico a pena di gravissime sanzioni, aveva comunicato alla popolazione che il viceré era d’accordo con il nemico. Si trattava, commenta Cherchi Paba, di propaganda antigovernativa «evidentemente fatta dal gruppo di cospiratori sinnaesi, capeggiati da Antonio Melis, feroce antimonarchico giacobino»[47]; infine fu giustiziato per propaganda filo-francese un militare del Reggimento Schmid. In quegli stessi mesi, continua Cherchi Paba, uscirono le lettere pastorali dei vescovi «contro gli scritti rivoluzionari e giacobino-massonici» e nel giugno 1793 «la città di Cagliari fu tappezzata di manifesti inneggianti la libertà, contro il Governo e i Piemontesi»[48]. Nel mese di aprile, dopo brevissima carcerazione, era stato rimesso in libertà il professor Luigi Liberti e riammesso all’insegnamento. La causa, nota il Cherchi Paba, era stata affidata al giudice della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy, in odore di massoneria e di giacobinismo: «un maneggio – egli commenta – che sa di società segreta»[49]! L’Angioy, dunque, che appare qui per la prima volta, sarebbe stato, secondo la congettura del Cherchi Paba, da tempo affiliato alla massoneria insieme al «fratello» Liberti: la tempestiva scarcerazione del docente di diritto costituirebbe una prova del soccorso che un «fratello» libero muratore è tenuto a dare ad un altro adepto, secondo le Costituzioni dell’Ordine. Lo stesso sarebbe accaduto in seguito, nel settembre 1799, quando il prof. Liberti fu nuovamente incarcerato e poi liberato nel successivo novembre, pare a seguito dell’intervento del noto «fratello» massone Joseph De Maistre, giunto a Cagliari al seguito della Famiglia Reale, che ricopriva la carica di Reggente la Reale Cancelleria[50].
Numerosi altri esempi adduce il Cherchi Paba della, per lui, provata presenza massonico-giacobina in Sardegna – tra cui non si può passare sotto silenzio il caso di due cittadini ebrei di Alghero, dove, come conseguenza di tale semplice presenza, «doveva esistere un centro massonico»![51] – tanto da asserire che l’isola intera era pervasa dalla «febbre giacobina»[52]. Perfino le monache clarisse di Cagliari sarebbero state in ansia e si chiedevano «quando sarebbero arrivati i francesi a salvare l’isola», mentre il giovane teologo Giovanni Maria Dettori, futuro professore di Morale nelle Università di Cagliari e di Torino, «compose un poemetto, nel 1795, dal titolo Il trionfo della Sardegna in cui esaltò l’attesa liberazione dell’isola ad opera dei francesi»[53].
Il centro propulsore del movimento massonico-giacobino sardo fu, per il Cherchi Paba, la città di Cagliari, dove si costituirono, forse prima del 1795, nel cuore della fase più problematica del contenzioso autonomista e anti-assolutista degli Stamenti, che portò nell’estate di quell’anno all’assassinio dei due reazionari legittimisti Gerolamo Pitzolo e del Marchese della Planargia, almeno tre clubs giacobini. «In Cagliari s’era formata – scrive il Cherchi Paba – una forte corrente massonico giacobina cosiddetta liberale, composta da un gran numero di personalità della cultura, magistratura, professionisti e alti funzionari di governo, studenti e persino operai, che si proponeva l’abolizione dei feudi e una costituzione nazionale improntata ai principi dell’Ottantanove. Era un movimento ispirato dalla rivoluzione francese, ma limitato ai problemi sardi, per la cui soluzione si poneva anzitutto l’abolizione dei feudi»[54]. Il primo club o associazione politica d’ispirazione democratico-giacobina, era capeggiato dall’avvocato Salvatore Cadeddu, uomo di spicco dello Stamento reale, ed era costituito prevalentemente da studenti, che si riunivano in una vigna di proprietà dello stesso in località Palabanda, dove ora si trova l’Orto botanico; il secondo faceva capo al preside del Collegio dei Nobili, l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon, membro influente dello Stamento ecclesiastico, cui facevano capo altri quattro componenti della omonima famiglia algherese, il teologo maritato Giuseppe Melis Atzeni, redattore del primo organo di stampa sardo, il «Giornale di Sardegna», foglio di propaganda degli Stamenti tra marzo 1795 e luglio 1796, nonché diversi personaggi della nascente borghesia cagliaritana delle professioni; il terzo gruppo, il più elitario e il più vicino ai vertici del potere, si riuniva nella casa del giudice della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy, capo indiscusso del movimento «patriottico» progressista, e ne facevano parte i protagonisti più noti della «sarda rivoluzione», tra cui l’intrigante canonico oristanese Pietro Maria Sisternes, il professore di diritto canonico all’Università di Sassari Michele Obino, l’avvocato Vincenzo Cabras e il figlio teologo Antonio, il citato abate Francesco Carboni, gli avvocati Efisio Pintor Sirigu e Ignazio Musso[55], il facoltoso commerciante Onorato Cortese cognato dell’Angioy, e numerosi altri[56]. Che motivo avevano di riunirsi segretamente, si chiede il Cherchi Paba, se dovevano solo discutere di problemi del loro tempo? Nessuno, egli risponde, se non quello di appartenere ad una setta segreta, la massoneria. A proposito del «gruppo simoniano» che si riuniva nel «casinò estivo» del Collegio dei nobili, poco fuori della cinta urbana, scrive: «Qui c’è aria di loggia massonica; se le loggie fino all’inizio di questo secolo erano preferibilmente poste in ville isolate, lontane dalle discrezioni, com’erano i casini di campagna di allora»[57]. E conclude: «V’è da credere che, tanto il primo [scil. il club di Palabanda] che il secondo gruppo, si tenessero lontani dalle pareti domestiche per non essere disturbati dai domestici e familiari nei riti e nelle loro segrete discussioni; il terzo gruppo è pensabile disponesse, a suo uso, tutto il piano della casa Angioy, senza essere disturbato dai familiari di questi. Questi gruppi venivano chiamati in Cagliari “club”, un termine inglese di nuova introduzione, mai usato in Sardegna, per indicare una società o circolo; e poiché anche fuori di Sardegna le società segrete venivano chiamate, come le loggie massoniche inglesi, “club”, ne consegue che anche i club cagliaritani fossero società segrete massonico-giacobine»[58].
Non è opportuno seguire ulteriormente le illazioni di questo autore. Sarà sufficiente dire che, nella sua ricostruzione, non vi è personaggio del «triennio rivoluzionario sardo» legato all’Angioy e al movimento antifeudale che non sia stato in odore di massoneria e di giacobinismo[59]. È tuttavia opportuno rilevare che negli primi anni Settanta del Novecento, quando iniziavano anche ad essere pubblicati i primi lavori scientificamente attendibili sulla «sarda rivoluzione» ad opera di alcuni illustri storici sardi come Carlino Sole, Girolamo Sotgiu e Lorenzo Del Piano[60], il singolare metodo congetturale del Cherchi Paba ebbe diversi imitatori e continuatori da parte di studiosi che hanno dato alle stampe lavori per altri aspetti pregevoli sul «triennio rivoluzionario sardo». Ne ricordiamo in particolare due: Virgilio Lai e Gaetano Madau Diaz.
Il primo, che nel 1971 ha avuto il merito di aver curato l’edizione anastatica del «Giornale di Sardegna»[61], l’anno precedente aveva confermato e amplificato in un breve saggio la tesi di Cherchi Paba sulla sicura presenza della massoneria a Cagliari ai primordi del Triennio[62]. Questa tesi, in termini meno perentori, veniva ribadita nel saggio introduttivo all’edizione anastatica del «Giornale di Sardegna»[63]. Sempre nel 1971 Gaetano Diaz dava ulteriore risalto alle illazioni del Cherchi Paba nell’opera Storia della Sardegna dal 1720 al 1849[64]. Nel capitolo 29 dell’opera La Massoneria in Sardegna, egli scriveva tra l’altro:
«Noi riteniamo che il movimento massonico si duffuse, molto verosimilmente, dal Piemonte, ove Vittorio Amedeo III, pur avendo soppresso a malincuore le case gesuite, aveva accordato una certa ospitalità alle logge massoniche. Certamente il gesuita e poeta latinista Francesco Carboni, nativo di Bonnannaro ma residente a Bessude, professore di rettorica e prefetto della scuola di Cagliari, era massone. Nel 1792 fu estromesso dagli uffici che egli occupava perché accusato di giacobinismo, di giansenismo e di illuminismo religioso, accuse queste che venivano rivolte, in tutta Europa, ai massoni aderenti ai circoli giacobini. Ma tali idee massoniche e giacobine non erano professate solo da pochi eruditi, come il Carboni, se all’inizio del 1793 i vescovi sardi dovettero incitare, con apposite circolari, i fedeli a combattere “gli iscritti rivoluzionari e giacobino-massonici”, che stampati in Corsica, in lingua logudorese, venivano diffusi in Sardegna, se a Sinnai, sempre all’inizio del 1793, si condannava il banditore per aver diffuso la propaganda predisposta dal gruppo sinnaese ”antimonarchico e giacobino” capeggiato da Antonio Melis, se infine si inquisiva il professor Luigi Liberti “per inclinazione alla missione della Francia”. Dopo il 1793 è ormai certo che a Cagliari si era costituita una forte corrente giacobino-massonica, definita liberale, alla quale avevano aderito numerose personalità sarde dell’Università e della magistratura oltre ad alti funzionari, studenti ed artigiani. In Sardegna non furono certamente conosciuti il primo movimento di tipo massonico di Rosa + Croce ed, in primo tempo, i manifesti di Rosenkreutz e della Fama Fraternis [sic; ma recte, Fama Fraternitatis] e Confessioni diffusi nel 1700 in Francia, in Germania ed in Spagna. Le idee massoniche si propagarono anche nell’isola con la pubblicazione di detti “manifesti” allegati all’opera del veneziano Trajano Boccalini, che gli intellettuali sardi, quasi tutti appartenenti al clero, quali Carboni, l’Obino e l’Alberti ebbero possibilità di leggere. I due manifesti erano principalmente un monito ai potenti che alimentavano l’ignoranza dei popoli a loro sottoposti, una nuova propaganda delle nuove idee che si andavano affermando in tutta l’Europa, un appassionato appello a tutti gli spiriti liberi, a tutti gli intellettuali perché si unissero per far trionfare una rivoluzione avente come scopo finale e principale la restaurazione della dignità umana. […] Il movimento massonico-giacobino sardo si proponeva, pertanto, quasi esclusivamente di abolire il feudalesimo con i suoi privilegi e di dare maggiore autonomia ed autorità ai sardi nell’amministrazione dell’isola con una costituzione ispirata ai principi di uguaglianza libertà e fraternità della rivoluzione del 1789, senza però abolire l’ordinamento monarchico. Il fatto che i “clubs” cagliaritani che facevano capo all’avvocato Salvatore Cadeddu ed a Luigi Matteo Simon si riunissero “in un giardino fuori mano, che aveva una casetta isolata” e “in un villino casinò estivo”, per Felice Cherchi Paba, autore del già citato interessante e documentato volume su don Michele Obino, è palese dimostrazione che in essi c’era “aria di loggia massonica”. Non altrettanto poteva dirsi per il circolo capeggiato dall’Angioy che si riuniva nella casa del bonese, posta proprio nel cuore della città, davanti al palazzo arcivescovile ed a pochi passi dalla sede vicereale, pur contando tra i suoi aderenti il poeta Carboni, indicato come il primo massone sardo, ufficialmente riconosciuto. Massoni o giacobini, aderenti a logge più o meno segrete, tutti miravano a dare un nuovo volto alla Sardegna mediante l’abolizione del feudalesimo e l’estromissione dei baroni, che, invece, proprio nello stesso tempo in cui si costituivano i tre ”clubs” cagliaritani avevano costituito in Sassari, […] un “gruppo reazionario”, capeggiato dal duca dell’Asinara ed al quale avevano aderito tutti i feudatari del nord dell’isola oltre a numerosi feudatari del Capo di Sotto»[65].
Abbiamo voluto riportare questa lunga citazione perché il lettore possa verificare quanto i testi del Cherchi Paba e del Madau Diaz, come le affermazioni del Lai, siano tra loro dipendenti e siano fondate su una sorta di paradigma indiziario da essi costruito in assenza di riferimenti documentari. Qualche anno dopo anche Paolo De Magistris indulgeva a queste supposizioni[66]. Già dagli anni Settanta Girolamo Sotgiu assumeva sul tema un atteggiamento decisamente più prudente, asserendo: «non sembra si possa documentare l’esistenza, tuttavia non del tutto improbabile, di logge massoniche, la cui presenza è invece affermata, ma non documentata, da alcuni studiosi»[67]
Nei primi anni Ottanta del Novecento Lorenzo Del Piano pubblicava, come si è avuto modo di accennare, una prima, e sinora unica, indagine critica sulla storia del giacobinismo e della massoneria in Sardegna[68]. Egli, pur riconoscendo che il Cherchi Paba aveva offerto «molti elementi che convalidano l’esistenza in Sardegna di nuclei “giacobini”»[69], assumeva una posizione problematica sulla presenza della massoneria. Secondo Del Piano era documentata la diffusione nell’isola del giacobinismo che ebbe seguaci soprattutto nell’ala radicale del movimento patriottico e antifeudale, ma ciò avvenne fuori dalle pratiche e dai riti del latomismo iniziatico massonico.
«I massoni e i giacobini dunque in Sardegna sarebbero stati numerosi, anche se la documentazione fino ad ora reperita non consente di giungere a conclusioni precise e definitive: se tuttavia poco si sa della Massoneria, del giacobinismo almeno questo si può dire, che sia pure per un breve periodo si fece un’aperta propaganda repubblicana se, come scrive anche il Manno, durante la permanenza dell’Angioy a Sassari, come che questi la pensasse personalmente, si portava da molti la coccarda tricolore e si cantava il Ça ira»[70].
E ancora:
«Se, dunque, non è facile trovare prove indiscutibili della presenza massonica in Sardegna alla fine del ‘700, se il giacobinismo, prima del 1796, va inteso in un senso tutto particolare, se di Carboneria sembra proprio che non si possa parlare, almeno questo è innegabile, che contro l’oppressione feudale e contro il regime reazionario fattosi sempre più pesante con l’aumento delle forze a disposizione delle autorità non mancarono le manifestazioni di insofferenza, ora di carattere più specificamente politico, ora, nell’accezione già precisata, di carattere economico-sociale, manifestazioni che fanno da tramite fra le ondate «rivoluzionarie» della fine del ‘700 e del 1847-48. Tra queste due importanti episodi non c’è il vuoto, né la vita dell’isola, come talvolta si sostiene, stagnò nel più assoluto immobilismo»[71].
Questo prudente atteggiamento storiografico su giacobinismo e massoneria non ha, nella sostanza, subito variazioni nella ricerca storica successiva, che ha ulteriormente precisato e ampliato il panorama della diffusione dei lumi nell’isola, pur entro limiti circoscritti, e ha soprattutto meglio definito il senso del moto rivoluzionario sardo di fine Settecento. Tale moto si può riassumere nella acquisizione di una accentuata cultura laica e progressista da parte delle avanguardie più avvertite, nell’affermazione di un rivendicazionismo autonomistico e identitario che assunse forme marcate di anti-assolutismo, anti-piemontesismo e anti-colonialismo, nella pratica di un nuovo patriottismo che poggiava su un costituzionalismo che, pur prendendo le mosse dall’antica struttura cetuale del Parlamento, andava incamminandosi sulla strada di una riforma politica e sociale più profonda e in sintonia con le conquiste dell’Europa[72]. Lungo il percorso della «sarda rivoluzione» non è dato però riscontrare concreti indizi di logge segrete e tantomeno di ritualità simboliche e iniziatiche di origine massonica. Non mancarono, è vero, gruppi di «patrioti» che diedero luogo a riunioni segrete, ma ciò è comportamento tipico di quanti, sotto un governo assoluto e un’occhiuta censura, intraprendono un’azione politica e sociale di profondo rinnovamento non gradito ai poteri costituiti. Queste forme cospirative, almeno in Sardegna, non risulta però si siano mai rivestite dei simboli rituali e delle pratiche iniziatiche dei Liberi Muratori. Se di aggregazioni segrete è legittimo parlare, non è legittimo inferire sic et simpliciter, che nella Sardegna del Settecento e della prima metà dell’Ottocento, ciò abbia potuto configurarsi come presenza di logge massoniche. Si trattò di gruppi «segreti» e di cospirazione senza riti e simbolismi di carattere massonico.
[1] Cfr. D. Simon, Le piante. Poema, Cagliari, Reale Stamperia, 1779.
[2] Cfr. D. Simon, Le piante, a cura di G. Marci, Cagliari, Centro Studi Filologici Sardi/Cuec, 2002.
[3] Cfr. A. Purqueddu, Il tesoro della Sardegna nei bachi e gelsi. Poema sardo e italiano, Cagliari, Reale Stamperia, 1779, ora nell’edizione curata da G. Marci: cfr. A. Purqueddu, De su tesoru de sa Sardigna, a cura di G. Marci, Cagliari, Cuec, 1999.
[4] Cfr. F. Carboni, De Sardoa intemperie libelli duo, Carali, Typ. Regia, 1772 (una seconda edizione con traduzione italiana di Giacomo Pinna fu pubblicata a Sassari dal tipografo Piattoli nel 1774); Corallorum libelli duo, Carali, Titard, 1779 e I coralli tradotti da Raimondo Valle, Genova, Bonaudo, 1822; al filone didascalico si può ascrivere anche il poemetto italiano del Carboni intitolato Coltivazione della rosa (Sassari, Piattoli, 1776). Sul Carboni, cfr. R. Garzia, Un poeta in latino del Settecento. Francesco Carboni, cit.; vedi anche P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. I, pp. 282-93; C. Boselli, voce Carboni Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 19, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1976, pp. 19-22.
[5] Cfr. R. Valle, I tonni. Poema in sciolti, Cagliari, Stamperia Reale, 1800. Sul Valle, cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. III; pp. 434-37.
[6] Su Giuseppe Cossu (1739-1811) cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. I, pp. 375-87; M. Lepori, Giuseppe Cossu e il riformismo settecentesco in Sardegna. Con antologia di scritti, Cagliari, Cooperativa editoriale Polo Sud, 1991.
[7] Si veda il fondamentale saggio di A. Mattone, Franco Venturi e la Sardegna. Dall’insegnamento cagliaritano agli studi sul riformismo settecentesco, in «Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico», n. 47-49, 1996, pp. 303-355.
[8] Cfr. F. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese del secolo XVIII, in «Rivista Storica Italiana», LXXVI, (1964), pp. 470-506; Giuseppe Cossu, in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, pp. 891-905.
[9] Cfr. V. Ferrone, La nuova Atlantide, cit., pp. 109 ss.; Id., Paradigmi scientifici e politica della scienza. La Reale Accademia delle Scienze di Torino e le scienze della vita nel Settecento, in La politica della scienza. Toscana e Stati italiani nel tardo Settecento, a cura di G. Barsanti, V. Becagli, R. Pasta, Firenze, Olschki, 1996, pp. 307-18; Id., L’Accademia delle Scienze. Sociabilità culturale e identità del «letterato» nella Torino dei Lumi di Vittorio Amedeo III, in Storia di Torino, vol. V, Dalla città razionale alla crisi dello Stato di antico regime (1730-1798), a cura di G. Ricuperati, Torino, Einaudi, 2002, pp. 691-733; si veda anche W. Barberis, Le armi del Principe. La tradizione militare sabauda, Torino, Einaudi, 1988, passim.
[10] Cfr. A. Berlendis, San Saturnino, martire di Cagliari, Cagliari, Stamperia Reale, 1783; questa tragedia, insieme all’altra dal titolo Sardi liberata, si trova tra le composizioni poetiche del Berlendis, Stanze, sonetti e capitoli, raccolti da D. Gianfrancesco Simon, Torino, Stamperia Reale, 1784-85, 3 voll. Cfr. G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, Bologna, Forni, 1966, vol. IV, pp. 103-104 (riproduce in ediziona anastatica la prima edizione, Cagliari, Timon, 1843-44, 4 voll.). Sul gesuita vicentino A. Berlendis cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. I, pp. 208-11.
[11] Cfr. S. Stefanini, De veteribus Sardinae laudibus. Oratio habita in Regia Calaritana Academia, Carali, Typ. Regia, 1773.
[12] Cfr. A. Mattone, P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 61-64.
[13] Cfr. F. Cluverio, Sardinia antiqua, corographia illustrata, a cura di Domenico Simon, Augustae Taurinorum, Typographia Regia, 1787; S. Arquer, Sardiniae brevis historia et descriptio; tabula chorographica insulae ac metropolis illustrata, a cura di Domenico Simon iuxta editionem cosmographiae Munsteri, Basileaen, a. 1588 inserita in Ludovici A. Muratori, Antiquitates Italiae Medii Aevi ad Sardiniam spectantes, Augustae Taurinorum, Typographia Regia, 1788.
[14] Cfr. G. Delogu Ibba, Index libri vitae, Villanova Monteleone, Centolani, 1736, ora nell’edizione a cura di G. Marci: cfr. G. Delogu Ibba, Index libri vitae, a cura di G. Marci, Cagliari, Centro Studi Filologici Sardi/Cuec, 2003.
[15] Su Matteo Madau cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. II, pp. 316-22; P. Sanna, voce Madao Matteo, in Dizionario biografico degli italiani, vol., 67, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2006, pp. 134-37.
[16] Cfr. M. Madao, Saggio di un’opera intitolata il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina, Cagliari, Titard, 1784.
[17] G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., p. 109.
[18] P. Tola, voce Marcello Antonio, in Dizionario biografico, cit., vol. 2, pp. 346-47.
[19] G. Sotgiu, op. cit., p. 109.
[20] Cfr. C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, cit., cap. III, Un riformismo che non rinnova, passim.
[21] Cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., cap. V, Razionalizzazione senza riforme, pp. 89-131, passim.
[22] Cfr. G. Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, cit., pp. 166-67.
[23] Cfr. A. Barruel, Histoire pour servir à l’histoire di jacobinisme, opera in 5 volumi, di cui i primi due uscirono nel 1796.
[24] F. Conti, voce Massoneria, in Dizionario storico, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 2010, Treccani.it, p. 2. Sui clubs giacobini del periodo rivoluzionario cfr. S. Rogari, Idee, movimenti e partiti nel Risorgimento italiano, in «Nuova Antologia», N. 6, giugno 2012, pp. 167-75.
[25] Cfr. A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai giorni nostri, Prefazione di P. Alatri, Milano, Bompiani, 2012 (1a ed. Milano, Rizzoli, 1992); F. Conti, La rinascita della Massoneria: dalla loggia Ausonia al Grande Oriente d’Italia, in Massoneria e Unità d’Italia. La Libera Muratoria e la costruzione della nazione, a cura di F. Conti, M. Novarino, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 111-41.
[26] Recentemente Massimo Falchi Delitala ha sostenuto la certezza dell’esistenza di una loggia inglese a Cagliari: cfr. M. Falchi Delitala, La loggia inglese di Cagliari, in Questione sarda e dintorni, a cura di A. Contu, Cagliari, Condaghes, 2012, pp. 142-69. Ci soffermeremo sull’argomento alla fine di questo saggio.
[27] Vedi supra, le opere citate nella nota 58 e la relativa bibliografia in esse contenuta. Per una ricostruzione analitica delle vicende del triennio ci permettiamo di rimandare al nostro Reviviscenza e involuzione dell’istituzione parlamentare nella Sardegna di fine Settecento, in L’attività degli Stamenti nelle “Sarda Rivoluzione”, cit., tomo I, pp. 15-256 e la documentazione pubblicata nei quattro tomi dell’opera.
[28] Vedi alcuni di tali Atti in L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo 1795-96, in La Sardegna nel Risorgimento. Antologia di saggi critici, Gallizzi, Sassari, 1962, pp. 123-24.
[29] Cfr. P. Leo, La Sardegna e l’Unità d’Italia, in «Il Convegno». Rivista mensile illustrata, Cagliari, Amici del libro, anno 19, n. 11, novembre 1961, pp. 3-16, con bibliografia e tavole iconografiche; a questa edizione fanno riferimento le indicazioni di pagina. Il discorso era stato pubblicato anche in opuscolo: cfr. P. Leo, I Sardi e l’Unità d’Italia. Figure ed episodi del nostro Risorgimento, estratto da «L’Unione Sarda», nn. 107-108, Cagliari, Soc. Editrice, 1961.
[30] Ivi, pp. 4-5.
[31] Ivi, p. 6.
[32] Cfr. P. A. Leo, Lezione fisico-medica di alcuni antichi pregiudizi sulla così detta sarda intemperie, Cagliari, Stamperia Reale, 1801, ora nella nuova edizione a cura di G. Marci, Presentazione di A. Dodero e A. Riva, Profilo biografico di P. Leo Porcu, Cagliari, Centro di Studi Filologici Sardi/Cuec, 2005. Su P. A. Leo (1766-1802), cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. II, pp. 279-85; P. Sanna, voce Leo Pietro Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 64, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2005, pp. 402-404; si veda anche A. Piras, Pietro Leo e Raimondo Garau tempi e luoghi, Guspini, Tip. M. L. Garau, 2003.
[33] Cfr. P. Mattone., P. Sanna, La «rivoluzione delle idee: la riforma delle due università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), in Iid., Settecento sardo e cultura europea, cit., in particolare le pp. 98-106.
[34] Cfr. P. Leo, La Sardegna e l’Unità d’Italia, cit., p. 6. Il corsivo è nostro.
[35] Cfr. F. Cherchi Paba, Don Michele Obino e i moti lussurgesi (1796-1803), cit., cap. II, Massoni e Giacobini, pp.15-32.
[36] Ivi, p. 15.
[37] Ibidem.
[38] Si veda anche V. Lai, Periodici e cultura nel Settecento sardo, Cagliari, Centro di studi sul giornalismo sardo, 1970, pp. 23-40 e 49-54.
[39] Cfr. A. Barruel, Mémoire pour servir à l’histoire du jacobinisme, cit.; si vedano le belle e stimolanti pagine di G. Giarrizzo, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, cit., in particolare il cap. 14, La Rivoluzione francese e la massoneria giacobina, pp. 383-404. Si veda anche M. Vovelle, I giacobini e il giacobinismo, traduzione di C. Patanè, Roma-Bari, Laterza, 1998.
[40] F. Cherchi Paba, Don Michele Obino, cit., p. 16.
[41] Ibidem.
[42] Ibidem e nota 10
[43] Cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. I, p. 288; G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, cit., vol. IV, p. 270.
[44] F. Cherchi Paba, op. cit, p. 16.
[45] Ivi, p. 16; sul Loi Ceddu cfr. V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari, Edizioni Castello, 1996, p. 257.
[46] Cfr. F. Cherchi Paba, op. cit., pp. 16-19, passim.
[47] Ivi, p. 18.
[48] Ibidem.
[49] Ibidem.
[50] Cfr. V. Del Piano, op. cit., voce Liberti Luigi, pp. 254-55.
[51] Ivi p. 19. Citiamo per intero il brano perché particolarmente significativo del metodo di prova dei fatti storici di questo autore: «La presenza in Alghero di due ebrei sospetti di giacobinismo, come il David e il Bonfil, lascia supporre che anche in questa città di mare vi fosse un centro massonico, dato che tutti gli ebrei, nel sec. XVIII, facevano parte delle Società Segrete, dalle quali sortì quel giacobinismo che ponendo a base della nuova società l’uguaglianza e la libertà di culto, indirettamente fece cessare le azioni e discriminazioni razziali antiebraiche, e consentire, alle Sinagoghe, libere funzioni religiose, agli ebrei il libero esercizio dei commerci». Il corsivo è nostro.
[52] Ibidem.
[53] Ibidem. Questa affermazione, oltre che errata cronologicamente – l’opera fu pubblicata 1793 e non nel 1795 – è completamente destituita di fondamento in quanto il poemetto è un’esaltazione degli «eroi» della resistenza contro i francesi, tra cui viene celebrato in modo particolare Gerolamo Pitzolo. Cfr. G. M. Dettori, Il trionfo della Sardegna, Cagliari, Stamperia Reale, 1793.
[54] Ivi, p. 20
[55] Non «Musìo», come scrive il Cherchi Paba, intendendosi per esso l’avvocato Costantino Musio, futuro segretario del Generale delle Armi Gavino Paliaccio della Planargia e futuro Reggente di Toga del Supremo Consiglio di Sardegna in Torino, di orientamenti tutt’altro che giacobini!
[56] Cfr. ibidem. Tra i cosiddetti clubs giacobini del triennio, il primo a costituirsi dovrebbe essere stato quello del «Padiglione Nazionale», segnalato per la prima volta alla fine Ottocento da Felice Uda come notizia desunta dal diario del canonico cagliaritano Gaetano Porcu Fabre: Cfr. F. Uda, Critica storica. Particolare della così detta invasione de’ Francesi desunti da documenti finora inediti, in «Vita sarda», n. 24, 25 dicembre 1892, pp. 2-3. Sul tema è ritornato F. Francioni, Documenti inediti sulla Rivoluzione francese e la Sardegna, in «Quaderni bolotanesi», n. 15, 1989, pp. 175-78 e 183-84; si veda, dello stesso autore, L’oscura vicenda del «Padiglione Nazionale», in 1793, i franco-corsi sbarcano in Sardegna, cit., pp. 143-50. Riteniamo priva di fondamento l’affermazione di V. Lai, il quale parla di un altro club che si riuniva nella casa del canonico Cossu, nel quartiere di Villanova, di cui avrebbero fatto parte il fratello Giuseppe Cossu, censore generale dei Monti di Soccorso, don Giuseppe Viale, l’avvocato Cossu Madau e il tesoriere generale don Gemiliano Deidda (cfr. V. Lai, La rivoluzione sarda e il «Giornale di Sardegna»), cit., p. 41. Il censore Cossu, sicuramente di orientamenti non «giacobini», fu imprigionato insieme ai Piemontesi nella fatidica giornata del 28 aprile 1794 come filo-piemontese.
[57] F. Cherchi Paba, op cit., p. 20.
[58] Ivi, pp. 21-22.
[59] Cfr. ivi, pp. 23-32.
[60] Cfr. C. Sole, Politica, economia e società in Sardegna in età moderna, Cagliari, Fossataro, 1978; Id., La Sardegna sabauda nel Settecento, cit.; G. Sotgiu, Alcune conseguenze politiche dell’attacco francese alla Sardegna nel 1792-93, estratto dagli «Annali della Facoltà di Lettere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari», vol. XXIII, Cagliari, Fossataro, 1970, pp. 3-131; Id., La insurrezione di Cagliari del 1794, estratto da «Studi Sardi», vol. XXI (1968), Gallizzi, Sassari, 1971, ora in Id., L’insurrezione di Cagliari del 28 aprile 1794, Cagliari, AM&D edizioni, 1995; Id., Storia della Sardegna sabauda, cit.; L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana, estratto da «Studi Sardi», vol. XVII (anni 1959-1961), Sassari, Gallizzi, 1961; Id., Giacobini a massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento, cit.
[61] Cfr. V. Lai, La rivoluzione sarda e il «Giornale di Sardegna», cit.
[62] Cfr. V. Lai, Periodici e cultura nel Settecento sabaudo, Cagliari, s. d (ma 1970), pp. 20-22 e 29-40.
[63] Cfr. V. Lai, La rivoluzione sarda e il «Giornale di Sardegna», cit., pp. 94-96; di particolare interesse il confronto effettuato da questo autore tra il «Giornale di Sardegna» e il «Giornale patriottico di Corsica» di Filippo Buonarroti (cfr. ivi, pp. 97-101).
[64] Cfr. G. Madau Diaz, Storia della Sardegna dal 1720 al 1849, Cagliari, Fossataro, 1971.
[65] Ivi, pp. 184-87, passim. Le espressioni tra doppi apici del testo sono citazioni testuali desunte dall’opera del Cherchi Paba, dal quale, dunque, il testo del Madau Diaz dipende pressoché interamente. Rileviamo che è singolare che l’autore associ ai due intellettuali settecenteschi F. Carboni e M. Obino, mons. Ottorino Pietro Alberti (1927-2012), illustre storico della chiesa sarda e arcivescovo di Cagliari dal 1987 al 2003.
[66] Cfr. P. De Magistris, Cagliari nella prima guerra mondiale, Cagliari, Fossataro, 1976, Appendice I, pp. 159-60.
[67] G. Sotgiu, L’insurrezione di Cagliari del 1794, cit., in «Studi Sardi», cit., vol. XXI, 1968-70, citato da L. Del Piano, Giacobini e massoni in Sardegna, cit., p. 80, nota10.
[68] Cfr. L. Del Piano, Giacobini e massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento, cit.
[69] Ivi, p. 33.
[70] Ivi, p. 53.
[71] Ivi pp. 71-72.
[72] Cfr. I. Birocchi, La Carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno, cit.; A. Mattone, P. Sanna, Costituzionalismo e patriottismo nella «Sarda Rivoluzione», in Iidem, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 197-240.