Settanta o Vulgata? L’Antico Testamento che divide le Chiese, di Marco Rizzi
Qual è il libro sacro dei cristiani? La risposta non è affatto scontata. Se non si riscontrano divergenze per il Nuovo Testamento, scorrendo l’indice di una Bibbia cattolica, di una protestante o di una in uso presso le Chiese ortodosse si nota la diversità nel numero e nei nomi dei libri dell’Antico Testamento. Iniziata la lettura, non si deve procedere molto per cogliere nel testo differenze non da poco: nel racconto della creazione, al termine di ogni giornata siamo abituati a leggere che Dio trova «cosa buona» ciò che ha compiuto; se ascoltassimo lo stesso passo in una Chiesa greca, sentiremmo kalón, che significa invece «cosa bella».
Per spiegare le differenze occorre ripercorrere la lunga storia del testo biblico. La Bibbia è un insieme di libri composti in un arco di tempo molto esteso, a partire da circa il 1000 avanti Cristo, che ha trovato una sua prima sistemazione all’indomani del ritorno del popolo ebraico dall’esilio a Babilonia nel VI secolo a. C. Da quel momento, iniziò anche la diaspora che portò molti ebrei in varie località del mondo mediterraneo antico, dove esercitavano il commercio cercando di conservare la propria identità religiosa. Questa era strettamente legata alla Bibbia e in particolare ai primi cinque libri, la Torah o Legge, che contengono un vero e proprio codice legale, con prescrizioni relative all’alimentazione, al diritto penale e familiare, oltreché alla pratica religiosa.
Tra le località della diaspora, spiccava Alessandria, fondata nel 331 a.C. da Alessandro Magno quale capitale dell’Egitto, dove si parlava correntemente il greco, come in tutte le maggiori città del bacino mediterraneo. Qui, verso la fine del III secolo a.C., venne avviata la traduzione della Bibbia dall’ebraico in greco, all’inizio della sola Torah e in seguito di tutti gli altri libri. La versione fu completata in un paio di secoli. Ma non solo: vi vennero inseriti anche alcuni libri composti direttamente in greco, come i libri dei Maccabei e della Sapienza, che non hanno corrispettivo nella Bibbia ebraica.
Sulle origini della traduzione siamo informati da uno scritto in greco, risalente al II secolo a.C. e opera di un ebreo della comunità alessandrina, la Lettera di
Aristea a Filocrate: il celebre erudito e direttore della Biblioteca di Alessandria Demetrio Falereo, mentre era impegnato a raccogliere «tutti i libri del mondo, se possibile», avrebbe suggerito al sovrano Tolomeo II Filadelfo (283-246 a.C.) di far realizzare una versione greca della Bibbia da conservarsi nella Biblioteca. Tolomeo avrebbe scritto al sommo sacerdote Eleazaro di Gerusalemme e questi avrebbe inviato una copia del testo appositamente verificata, insieme a settantadue dotti maestri perché la traducessero. Secondo un altro racconto, riportato invece dal filosofo ebreo alessandrino Filone, contemporaneo di san Paolo, i settantadue avrebbero lavorato rinchiusi in stanze distinte, producendo per ispirazione divina una identica traduzione.
Probabilmente, la traduzione nasceva dall’esigenza di rendere accessibile la Bibbia e soprattutto la Torah a una comunità che, allontanatasi dalla Palestina molto tempo prima, ormai non leggeva più l’ebraico. La Bibbia greca dei Settanta (dal numero arrotondato dei traduttori) si diffuse rapidamente anche in tutte le comunità della diaspora. Nel processo di traduzione si introdussero aspetti del nuovo contesto in cui la Bibbia veniva let
ta. Ad esempio, la norma contenuta nel libro dell’Esodo, secondo cui chi procura un aborto a una donna durante una colluttazione è tenuto a risarcire il marito, ma se la donna muore è passibile della pena del taglione, viene modificata e riferita alla condizione del feto espulso: se è già formato, si tratta di omicidio, segno non solo di una morale più avvertita, ma anche del progresso della scienza medica, che in Alessandria contava una celebre scuola.
Altri aspetti della traduzione hanno implicazioni direttamente religiose. È il caso delle parole rivolte da Dio a Eva, dopo la cacciata dal Paradiso terrestre: nel testo ebraico è la stirpe della donna che schiaccerà il capo al serpente, mentre nei Settanta compare un pronome maschile, che non ha corrispettivo nell’originale. Oppure di quelle rivolte al profeta Zaccaria: l’ebraico riferisce a Dio il merito della vittoria sui nemici del re, mentre il greco la attribuisce a quest’ultimo. In entrambi i passi dei Settanta si può cogliere così un’allusione alla venuta del Messia, senza che si possa stabilire con certezza se si tratti di un cambiamento voluto o casuale. I primi seguaci di Gesù, che in prevalenza parlavano il greco, li interpretarono in questo senso, e ben presto la Bibbia dei Settanta divenne il testo di riferimento dei cristiani, creando non poco disagio agli ebrei rimasti fedeli alla loro tradizione, che dopo qualche tentativo di aggiornare la traduzione greca, si risolsero ad abbandonarla del tutto, limitandosi al solo testo ebraico.
Da allora, alla Bibbia dei Settanta sono rimaste fedeli tutte le Chiese orientali: oltre alla greca, anche la siriaca, la copta, la russa, che sul testo greco hanno condotto la traduzione nelle rispettive lingue. La Chiesa latina, invece, ha preso una strada diversa. Nel 383, Papa Damaso incaricò Girolamo di rivedere le traduzioni latine del Nuovo Testamento allora in uso; questi, che conosceva greco ed ebraico, allargò l’impresa all’Antico, e ben presto si accorse delle differenze esistenti tra i Settanta e il testo ebraico. Reputandole dei veri e propri errori di traduzione, decise di realizzarne una completamente nuova a partire dall’Hebraica veritas: nacque così la Vulgata, che ben presto si affermò nelle Chiese occidentali, nonostante le critiche rivolte a Girolamo da Agostino, che lo accusava di presunzione, perché di fatto si riteneva, lui da solo, superiore a settantadue sapienti — pur non credendo Agostino alla leggenda delle settantadue stanze diverse — e dimenticava che la Bibbia greca era alla base della predicazione degli apostoli e della diffusione della Chiesa.
Fino alla scoperta dei manoscritti del Mar Morto, si pensava che Girolamo avesse ragione. Invece, a Qumran si sono trovati esemplari biblici in ebraico e aramaico più affini al testo su cui deve essere stata condotta la traduzione dei Settanta, rispetto a quello ebraico ora corrente che, non va dimenticato, venne fissato in forma definitiva solo intorno al X secolo dopo Cristo. Il Concilio di Trento confermerà il valore della Vulgata, mentre Lutero andrà addirittura più a fondo di Girolamo, traducendo nuovamente l’Antico Testamento dall’ebraico, lasciando fuori dal canone protestante tutti i libri non presenti nell’ebraico, mentre il canone cattolico conserva alcuni di quelli presenti nei Settanta, e le Chiese ortodosse tutti. Per questo non è stato difficile per la Chiesa cattolica, dopo il Concilio Vaticano II, promuovere nuove traduzioni direttamente dall’ebraico, ricorrendo al greco solo per i libri in esso assenti, così che per alcuni aspetti i cattolici hanno ora una Bibbia comune più con gli ebrei che con i cristiani d’Oriente.
Dei Settanta esistono traduzioni in francese, tedesco e spagnolo. Ora una équipe diretta da Paolo Sacchi ha terminato per l’editrice Morcelliana quella italiana: quattro volumi in cinque tomi, per un totale di poco più di 5 mila pagine, incluso il testo greco a fronte. L’imponente opera, che è stata resa possibile da un contributo dell’azienda dei servizi A2A, rappresenta un piccolo successo editoriale con un migliaio di copie vendute per il primo volume, contenente la Torah.
La traduzione greca della Bibbia realizzata in epoca precristiana ad Alessandria, ora disponibile in versione italiana, rimane in uso tra gli ortodossi, Invece i cattolici adottarono quella dall’ebraico in latino, opera di San Girolamo.
LA LETTURA 11 agosto 2019