Fraternità, di Marco Ventura
La triade di uscita dalla Rivoluzione francese non sta proprio benissimo. Le religioni indicano ancora la fratellanza come una via da seguire ma quella che ci aspetta è la fratellanza che ci unisce alle macchine.
Si trovano nei Giardini Vaticani il leader palestinese Abu Mazen e l’allora presidente israeliano Shimon Peres. Con Papa Francesco. È la domenica di Pentecoste del 2014. A nome dei tre, il Pontefice rivolge un appello ai politici perché si assumano la responsabilità di interrompere la spirale dell’odio. Basterebbe «una sola parola: “fratello”»; ma, precisa Francesco, «per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre».
Per millenni, nel Mediterraneo, conflitti e riconciliazioni, paci e guerre, hanno replicato il dramma del figlio che rinnega il padre e odia il fratello. Caino e Abele sono stati alla base di una civiltà. Con la Rivoluzione francese, il problema è risolto in radice. Caino e Abele non si uccideranno più perché si sono liberati insieme del padre. Emancipatosi, l’uomo è sovrano di sé, dentro la propria coscienza. È sovrano, di conseguenza, il popolo dei cittadini, repubblica di fratelli liberi ed eguali, sopra ogni differenza di ceto, censo, religione. La fratellanza dello slogan rivoluzionario, compagna di libertà ed eguaglianza, taglia la testa al padre, rompe con secoli e millenni di una fratellanza tra diseguali.
Proprio per la sua radicalità, il progetto stenta. Per fratellanza, i rivoluzionari intendono cose diverse; Dio, dal canto suo, non si fa mettere da parte. Dopo l’esecuzione di Robespierre, scompare la fraternité: la liberté e l’égalité restano sole. Anche Napoleone ne fa a meno.
Solo nel XIX secolo la triade si ricompone e la fratellanza si afferma definitivamente: nella Francia in cui competono la fratellanza socialista e quella cristiana, e ancora più in un Occidente alla conquista del mondo con il suo progetto di colonizzazione civilizzatrice. Più significa cose diverse — come la fratellanza operaia della rivoluzione industriale e la fratellanza capitalistica della mano invisibile che sembra piuttosto che sia riferita alle macchine. E la stessa libertà, secondo molti indicatori condivisi, è in arretramento anche in Occidente. Il nuovo fronte è laguida all’incontro il venditore e il compratore — più la fratellanza conquista ambienti agli antipodi. Finché, proprio nelle colonie, la fratellanza non sprigiona la propria contraddizione: si è allora fratelli della potenza coloniale in nome di un condiviso progetto di modernizzazione secolarizzante, e al contempo a essa si fa guerra, resi fratelli dal giogo imperialista, e temprati alla fratellanza dalla lotta di liberazione.
Il 4 febbraio di quest’anno, 230 anni dopo la Rivoluzione francese, si incontrano ad Abu Dhabi il Papa e il Grande Imam di Al-Azhar, una delle massime autorità islamiche. In una terra simbolo della complicità tra tiranni locali e profittatori occidentali — dove gli americani post-schiavisti non hanno avuto scrupolo di asservire generazioni di pescatori di perle — si trovano faccia a faccia un argentino e un egiziano. Jorge Bergoglio rappresenta la nazione che più di ogni altra ha esaltato la fratellanza populista e da essa ha tratto la più sanguinosa guerra civile tra cattolici della modernità. Ahmad Al-Tayyeb rappresenta il Paese che ha fatto nascere al contempo la religiosa fratellanza musulmana e la laica e socialista fratellanza pan-araba.
Insieme, il Papa e il Grande Imam firmano un documento Sulla fratellanza umana, per «la pace mondiale e la convivenza comune». Le due parti, in nome di Dio, «con i musulmani d’Oriente e d’Occidente» e «con i cattolici d’Oriente e d’Occidente», dichiarano «di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Nel tempo della grande rilevanza geopolitica delle religioni e di crisi del progetto universalistico fondato sui diritti umani, l’unica salvezza della fratellanza appare quella indicata dai due protagonisti dell’incontro di Abu Dhabi: il dialogo tra i figli di Dio; proprio in quanto tali.
La grande Cina della fratellanza atea fa solo apparentemente eccezione, come ha compreso una Santa Sede pronta al negoziato con Pechino nonostante la persecuzione di massa nel Xinjiang contro i musulmani, e non solo. Dimostrano l’ampio consenso globale per una fratellanza dominata dai figli di Dio le raccomandazioni sullo sviluppo sostenibile alle potenze riunite in Giappone lo scorso giugno da parte del G20 Interfaith Forum di Tokyo, e l’incontro di esperti e operatori della libertà religiosa nei giorni scorsi a Washington presso il Dipartimento di Stato americano, il più grande del genere secondo l’amministrazione Trump.
L’alleanza globale dei credenti sa bene di dover temere, più dei non credenti, la fratellanza ulteriore dell’intelligenza artificiale. Fratellanza tra uomini e macchine, certo; ma soprattutto, fratellanza tra macchine, sul modello dell’internet delle cose, dove i dati collaborano tra loro e producono un mondo in cui cooperano l’ambiente e l’individuo, l’umano e il post-umano, il virtuale e il reale. I credenti sperano che la sfida della rivoluzione digitale consenta loro di riaffermare la fratellanza dei figli di Dio. Forse sta già avvenendo il contrario: le macchine stanno già imponendo una nuova fratellanza.
Nell’Occidente euro-mediterraneo, dove tramonta il sole, si ricorda ancora la fratellanza di Caino e Abele, con la sua verità sul bene e sul male, capace tanto di schiacciare quanto di elevare l’uomo. Nell’Oriente lontano, il sole sorge quando solcano il cielo i suoi figli, i gemelli Ashvin degli antichi Veda. Sono eternamente giovani, e belli, e atletici. Sono i medici degli dei. Simboleggiano una fraternità di pura luce, in equilibrio tra i due e l’uno. Si nutre di entrambe le coppie di fratelli, la nuova fratellanza: quella in cui si uniranno gli uomini e le macchine del futuro.
LA LETTURA 28 LUGLIO 2019