IL NATALE DELLA CHIESA DI CAGLIARI

IL dott. Paolo Fadda, 81 anni, è il presidente di Cresia, associazione di laici cristiani di CA. Nel Dal sito www. cresia.info , qualche giorno fa, ha proposto alla discussione dei cristiani il documento che pubblichiamo qui sotto.


BOZZA DI DOCUMENTO “APERTO”, COME BASE DI DISCUSSIONE

PER RIGENERARE E DETERMINARE LA PRESENZA DEI LAICI CREDENTI ALLA VITA ECCLESIASTICA DELLA DIOCESI

NOI DI “CRESIA” CI SIAMO POSTI TRE DOMANDE

1 – Chiesa di Dio in Cagliari, oggi chi sei?

2 – Quale ruolo del laico credente nella società del XXI secolo?

3 – Quale messaggio la Chiesa locale attende dal suo laicato?

Si è ritenuto – come incipit – di utilizzare, parafrasandole, le tre domande che ispirarono i lavori dei padri conciliari del Vaticano Secondo per questo documento che vuol indicare una serie di opzioni-proposte utili per rigenerare la vita ecclesiastica della diocesi cagliaritana in vista dell’ormai prossimo rinnovo della sua guida pastorale.

Il dover adempiere a questo compito lo si è maturato nella consapevolezza di essere parte “attiva” della Chiesa-Popolo di Dio, operando per far maturare nella nostra diocesi un nuovo, profondo “senso della Chiesa” come realtà comunionale (Lumen Gentium n.33). Perché la Chiesa altro non è che la “famiglia dei figli di Dio” che, pur destinata a compiere precipuamente una sua missione religiosa, non può esimersi da quei compiti “che possono servire a costituire ed a consolidare le comunità degli uomini secondo la legge divina” (Gaudium et Spes, n. 42).

Vi è infatti necessità la necessità che la Chiesa – cioè l’intera famiglia dei figli di Dio – si senta e si faccia parte viva e solidale della gente delle diocesi isolane, condividendone le difficoltà e le tensioni che ne turbano la serenità, ma assicurandole, insieme, un appoggio ed un conforto solidale che, tramite l’insegnamento evangelico, può riaccendere le speranze, può riattivare tensioni e creatività, può collaborare al conseguimento di una redenzione civile capace di conseguire il bene comune.

Nel nostro tempo, infatti, di fronte alle grandi sfide del momento attuale, “non ci si può limitare alle celebrazioni rituali e devozionali, ma bisogna passare ad una pastorale di missione permanente” (Concilio Plenario Sardo C.P.S., disp. n. 2) in modo da rinvigorire – in una dimensione regionale – il tessuto cristiano della società locale che appare tormentata, per diversi riscontri, da quegli insistenti nuovi “idoli” che vanno diffondendo una pericolosa secolarizzazione paganeggiante della vita.

Proprio a queste tre domande, la “bozza” qui proposta intende fare riferimento per articolare delle risposte che siano pertinenti alle attese ed alle speranze dei laici credenti che si riconoscono nell’associazione CRESIA.

 

1§  - Chiesa di Dio in Cagliari oggi chi sei?

1A – C’è in questo nostro tempo, qui a Cagliari, una Chiesa che appare inadeguata e disattenta nel cogliere i segni di quel che avviene attorno ad essa, nella società degli uomini e delle donne della diocesi. Per taluni riscontri pare vivere questo tempo avvolta in una prolungata e triste eclissi di presenza come erogatrice di spiritualità e di speranze.  Un’eclissi che è data da una sovrapposizione d’immagini fra la Chiesa del “palazzo vescovile”(monocratica nel governare, esuberante nell’apparire e talvolta ingiusta nei suoi interventi) e la Chiesa del popolo dei laici cristiani (soggiogata, ignorata nelle sue aspirazioni e ridotta a silenziosa obbedienza). Ed è stato proprio questo contrasto ad avere provocato quella condizione d’amarezza e di sconforto in alcuni, e di evidente indifferenza e di fredda neutralità in altri.  Tanto da aver vanificato la bella espressione conciliare di “Chiesa come Popolo di Dio”.

In questa Chiesa di Cagliari, si è così determinata una manifesta lontananza, se non proprio un’estraneità, della Chiesa-istituzione dalle situazioni e dai problemi che  angustiano le comunità dei fedeli nella vita quotidiana, in famiglia come nel lavoro e nel non-lavoro. Così  è venuta a mancare la presenza e la voce dei laici credenti nella vita intra-ecclesiale , ridotti ad essere solo “numero” nelle manifestazioni liturgiche d’immagine, privati dal portare la loro testimonianza d’una fedeltà praticata fra la spiritualità della fede e la concretezza dell’esistenza quotidiana.

1B – Molta di quella lamentata estraneità può essere addebitata al fatto che – nonostante le indicazioni ribadite anche dal Concilio Plenario Sardo (disp. n.47 e 53), nella nostra diocesi sono assenti – nel senso che non sono stati istituiti – quegli organi che istituzionalizzano e consentono la partecipazione comunionale alla vita ecclesiastica: il Consiglio pastorale, il Consiglio Presbiterale e il Consiglio per gli affari economici. Eppure quei padri conciliari – in sintonia con il Codice di diritto canonico – avevano indicato la necessità di istituire quelle rappresentanze, in modo che “le diverse espressioni della Chiesa locale” potessero  ricondurre ad unità “i vari carismi che lo Spirito Santo  affida a tutti i battezzati”.

1C – Si è infatti affermato sempre più – e se ne soffre – il monocratismo nel governo diocesano, con un laicato sempre più marginalizzato ed ignorato, essendosi perpetuato ed aggravato (nonostante gli orientamenti e le prescrizioni conciliari) il dualismo fra chi è presbitero e chi non lo è, e, ancora, fra chi è presbitero senza gradi e chi i gradi gerarchici li ha. Appare evidente come si sia sempre più affievolita la fraternità fra i figli di Dio, fra vescovo, presbiteri e laici, per cui la stessa diocesi è divenuta un insieme di monadi a se stanti (le parrocchie), ed i laici credenti divisi in comunità a se stanti, vivendo in maniera difforme le problematiche della vita e dell’operosità cristiane. Né si è dato ascolto, e attenzione, a quanti intendevano ed intendono mettere in campo le loro esperienze nel mondo esterno per delineare una rinnovata presenza missionaria della Chiesa  fra quanti vivono i problemi ed i drammi d’un tempo difficile.

1D – Sono stati rimossi o dimenticati i chiari insegnamenti conciliari (insiti nel principio di sensus ecclesiae), si è ritornati  nella nostra diocesi indietro nel tempo, riproponendo – come nei secoli passati preconciliari – l’obbedienza (da interpretarsi con la rigidità del furiere) come regola ferrea per la partecipazione alla vita diocesana, imponendo autoritariamente l’ossequio e l’assenso a presbiteri e laici, ed attuando forme di rigido controllo e di conseguenti pesanti punizioni ad ogni segno, seppur labile, di critica o di dissenso. Mettendo in pericolo anche lo stesso vincolo d’appartenenza ad una Chiesa siffatta. Questa forma dispotica attuata nel governo diocesano ha purtroppo impedito e mortificato ogni forma di crescita, culturale e spirituale, del laicato cagliaritano. Tanto da avere formato in diocesi una comunità di fedeli costretta ed abituata a dover assentire silenziosamente, anziché maturata e rinvigorita nel dialogo, nel confronto e nella libertà per il suo impegno nell’evangelizzazione della società locale. 

1E – Vi è poi un altro importante  “tarlo” che ha indebolito la comunità diocesana. Ed è quello della disunità (o, almeno, della separatezza nella pastorale come nell’evangelizzazione) delle Chiese isolane. Rimaste anch’esse mal unidas. Infatti, nonostante i voti e le indicazioni contenuti negli atti del Concilio Plenario Sardo, proprio a causa anche dell’ostilità (o dell’inerzia ragionata) dell’Arcidiocesi cagliaritana (che è alla guida della Conferenza Episcopale Sarda), si è vanificato e perduto l’impegno di dare unità di propositi e di azioni  alla Chiesa isolana , rimasta divisa in quelle dieci diocesi quasi fossero dei feudi ciascuna con il proprio castello, il proprio feudatario e le proprie leggi e iniziative. Anche per questo, non si è infatti proceduto alla istituzione dell’auspicato “Centro Regionale di Pastorale”  quale “punto di riferimento, di sintesi e di coordinamento globale di tutti gli altri organismi dei differenti ambiti pastorali diocesani” (C.P.S. disp. 46 §2). Era stato infatti preciso intento di quei padri conciliari riuscire a realizzare un’efficace opera di coordinamento regionale unitario, per la pastorale  e per l’evangelizzazione delle diverse Chiese, in modo da “realizzare lo spirito di comunione tra le dieci Chiese della Sardegna”.

2§ – Quale ruolo del laico credente nella società del XXI secolo?

2A – Partendo dall’esperienza dell’oggi (di un vescovo più severo prefetto del Vaticano che amorevole pastore e guida di anime), una prima riflessione non può che riguardare l’identikit della figura vescovile. E questo per poter configurare il rapporto di cooperazione fra il laicato e l’ordinario della diocesi. Ci si prefigura e ci si augura – da laici – un vescovo che ci sia compagno di viaggio, che ci accompagni sulla stessa strada, che non è né deve apparire come la sua, ma che sia quella che Gesù ha indicato, nel Vangelo, a tutti noi, vescovo, preti, consacrati e fedeli. E dunque vescovo che sia compagno di viaggio e fratello maggiore per i suoi laici ed i suoi chierici, che  consenta una vera libertà di dire e di raccontarsi insieme; che non si presenti come un monarca assoluto, con la pretesa di occupare spazi, di imporre obbedienze assolute, con l’aria di chi sente padrone della verità, della morale, del popolo di Dio, delle ultime parole sulla vita e sulla morte. S’attende quindi un vescovo che sia prima che padre fratello, che non pontifichi dall’alto, dalle cui parole traspaiano carità ed amore e non ordini e dispotismi.    

2BVi è dunque l’attesa per un nuovo vescovo che, secondo l’insegnamento tracciato dal Vaticano Secondo e dal Concilio Plenario Sardo, si proponga di interpretare la sua Chiesa come una comunità di fratelli, che li senta eguali e non sudditi o sottoposti; che li guidi e li assista amorevolmente, secondo il principio evangelico dell’autorità come servizio. Laici e vescovo sono infatti entrambi figli di Dio, che debbono sentirsi impegnati a vivere insieme “nel mondo” e ad operare insieme “per il mondo”, perché si diffonda ovunque il bene comune. Vivere nel mondo dovrà significare la sua accettazione come opera di Dio, contribuendo a migliorarlo con il progresso e nella libertà dal bisogno, tutelandolo innanzitutto dalle ingiustizie e dalle oppressioni. Operare per il mondo dovrà significare porre grande volontà ed altrettanto impegno a favore dell’uomo, soprattutto del diverso, dello svantaggiato e del più debole, perché anche a lui spetti la sua giusta parte di bene.

Dovrà essere compito del laico credente far sì che la sua Chiesa operi, attorno al vescovo ed ai suoi presbiteri, “per e nel” mondo, e non per sé, per la sua immagine d’istituzione ricca e potente: l’obiettivo e l’impegno dovranno essere quelli di riportarla alla sua immagine evangelica di comunità di fratelli, come voluta da Cristo.

 

2C – Il laico credente, quindi, dovrà divenire soggettoattivo” all’interno della Chiesa locale. Dovrà quindi esserne partecipe della missione operativa, contribuendo “alla santificazione del proprio mondo sotto la guida dello spirito evangelico” (Lumen Gentium n. 31 – C.P.S. disp. n.26). A lui spetterà immettere il lievito del regno di Dio, al servizio dei fratelli perché s’imponga e s’affermi la grazia dell’amore cristiano. Dovrà ancora farsi attore e partecipe della pastorale diocesana, contribuendo con la sua presenza e la sua esperienza all’operosità del presbiterio locale nell’evangelizzare le nostre comunità. Si auspica che nella nostra diocesi ci sia una riscoperta dei valori comunitari, che la presenza dei laici alla formulazione delle decisioni diocesane sia vista come un arricchimento positivo  e non come un’indebita ingerenza. Questo per favorire il maturare e l’affermarsi di una “concezione orizzontale” della Chiesa, che era apparsa la grande e felice novità della stagione conciliare.

2D – Per i laici credenti d’oggi dovrà quindi affermarsi il tempo di passare dalla “collaborazione” alla “corresponsabilità” nella vita e nella missione della propria Chiesa (cfr. Benedetto XVI ai laici della diocesi romana, 2010). Vi deve essere, alla luce del Vangelo, il diritto-dovere di ogni battezzato di dover partecipare responsabilmente ed attivamente all’attività d’evangelizzazione della società. A contatto diretto con le difficili realtà del mondo d’oggi, interessato da tante spinte secolarizzatrici e scristianizzanti, è chiamato a dover portare, nei campi della sua esperienza quotidiana, le indicazioni evangeliche, partecipando così in maniera diretta alla pastorale della sua diocesi e della sua parrocchia. Proprio in questa prospettiva teologica si può meglio comprendere la vocazione di ogni buon cristiano di dover operare, con pari responsabilità con chierici e vescovi, per il bene, spirituale e materiale, della sua comunità, esaltando così “l’indole comunitaria” dell’operare nella e per la Chiesa (Gaudium et Spes,  n.24).

2E – Luoghi ed occasioni necessari ed indispensabili per l’esercizio della “corresponsabilità” del laicato dovrebbero essere:

-          Il Consiglio pastorale diocesano,

-          Il Consiglio per gli affari economici,

-          La Consulta delle associazioni e delle comunità ecclesiali.

La loro costituzione – in linea con quanto indicato dal C.P.S. (disp. n. 26 §8) diventa quindi un’esigenza prioritaria per far sì che al laico credente venga data voce e responsabilità nell’evangelizzazione della comunità diocesana.

Appare anche importante proporre iniziative e motivi per favorire la formazione culturale, spirituale e teologica del laico credente: questo tipo di formazione – ha chiarito il C.P.S., raccomandandolo ai vescovi – dovrà dare “un’attenzione esplicita alla vocazione peculiare dei laici per l’impegno nel sociale e nel politico, evidenziando il legame esplicito fra fede e giustizia” (C.P.S. disp. n. 27 §2).

 

2F – Questa presenza “responsabile e corresponsalizzata” del laico credente alla vita diocesana dovrà essere indirizzata a prestare il massimo impegno perché si possa conseguire quella missione salvifica nel nome di Gesù a cui si è chiamati con il battesimo. Dando soprattutto dei contenuti e dei valori all’essere buoni cristiani nella società d’oggi. Ed in particolare, il laicato diocesano dovrebbe stimolare la sua Chiesa locale, ed il suo vescovo, per una presenza sempre più puntuale all’interno delle comunità, dando disponibilità ad una propria corresponsabilità nell’agire:

-          per rafforzare la vita affettiva e la santità della famiglia, aiutandola nell’educazione civile e cristiana dei figli,

-          per diffondere una più frequente e decisa presenza del messaggio cristiano nella cultura, nell’impegno  sociale e nelle diverse forme di comunicazione di massa presenti nel territorio,

-          per affrontare le difficili problematiche del lavoro e del non-lavoro, offrendo forme d’accompagnamento e di compartecipazione allo sviluppo ed alla contrazione delle occasioni e delle emergenze occupative,

-          per offrire solidarietà ed assistenza verso le parti più fragili ed indifese della società,

-          per promuovere la cultura dell’accoglienza e della difesa verso quanti vengano colpiti dall’emarginazione e dal disagio sociale,

-          per diffondere, imporre e difendere regole etiche e di buon governo nella “cosa pubblica”,

-          per estirpare pregiudizi e ostilità verso tutti “i diversi”, mettendo in campo iniziative volte a diffondere testimonianze di fraternità e di carità,

-          per diffondere la sobrietà nell’uso della ricchezza (contro ogni eccesso di edonismo mondano in chierici e vescovi),

-          per ridare e per rafforzare il primato alla liturgia, ed all’ascolto comunitario e consapevole della Parola di Dio.

2F – Per la partecipazione dei laici alla vita “attiva” nella Chiesa dovrà  tenersi conto di quelle nuove forme aggregative che, spontaneamente o per iniziativa di parroci, vanno sorgendo un po’ dovunque anche nella nostra diocesi e in tutta l’isola. “Si tratta – ha indicato il C.P.S. – di associazioni, movimenti, gruppi e comunità che, assai diversi fra loro in molti aspetti, convergono nello scopo di partecipare responsabilmente alla missione della Chiesa, di portare il vangelo di Cristo come fonte di speranza per l’uomo e di rinnovamento della società, secondo lo spirito di un nuovo umanesimo plenario”. In questo senso e con queste finalità si è mossa, ed intende ancor più muoversi in futuro, l’associazione “Cresia”, come movimento di mobilitazione dei laici credenti per evitare l’eclissi della diocesi e per aprire una nuova stagione di fioritura spirituale ed ecclesiastica per il Popolo di Dio che è in Cagliari e in Sardegna.

 

2G – Il laicato cagliaritano chiede, quindi, d’avere riconosciuto un ruolo “attivo” nella missione apostolica della sua Chiesa, e per questo si propone:

-          per assumere la corresponsabilità e per partecipare con intenti propositivi e collaborativi al dialogo intra-ecclesiale per una pastorale diocesana in sintonia con tutte le realtà locali. Come laici, infatti, sentiamo il bisogno di prendere la parola nella comunità, e desideriamo farlo non in luoghi appartati o più o meno informali, ma in luoghi ecclesiali, nell’ufficialità dell’impegno, portando così la nostra esperienza nel mondo esterno per meglio partecipare all’evangelizzazione della comunità diocesana;

-          per dare vita a percorsi formativi radicati nella forza della parola di Dio, in modo da costruire una cultura della pastorale che affronti e porti a sintesi i temi del Vangelo e la realtà del tempo in cui viviamo. Una formazione che – grazie all’apporto dell’intero popolo di Dio – debba divenire momento unificante fra l’impegno missionario ed la crescita culturale dei nostri fratelli in Cristo.

Con questi proponimenti e queste disponibilità, il laicato cagliaritano intende andare oltre le sofferenze e le mortificazioni dell’oggi per operare una ri-generazione della Chiesa perché si realizzi e si fortifichi, in modi sempre più fecondi,  la relazione della Chiesa Popolo di Dio con il mondo di oggi.

3§ – Quale messaggio la Chiesa locale attende dal suo laicato?

3ASulla base delle esperienze vissute ed in conformità di un sentimento sempre più diffuso e condiviso, il laicato cagliaritano intende proporre alla sua Chiesa di trovare legami di comunione evangelizzatrice e di coordinamento pastorale con le altre diocesi isolane, perché si dia vera unità alla presenza ed all’azione ecclesiastiche nella società sarda. E questo nel senso della “lettera pastorale” che i dieci vescovi sardi indirizzarono unitariamente ai fedeli l’8 settembre del 1993, in occasione del C.P.S.

 

3B – L’unicità della Chiesa sarda – come unico ed unito Popolo di Dio in Sardegna – dovrà quindi essere l’obiettivo prioritario per realizzare un’identità cristiana fra gli uomini e le donne di tutta l’isola. Se la presenza di dieci vescovi è una ricchezza per la nostra regione, il coordinare e l’omologare il loro agire nella pastorale dovrà essere una nuova e maggiore ricchezza. In questo senso anche la CES – la Conferenza Episcopale Sarda – dovrà chiamare e sentire attorno a sé l’apporto deciso e corresponsabile del presbiterio e del laicato dell’intera isola. Infatti, “la particolare unità territoriale dell’isola costituisce un segno di chiamata di Dio ai vescovi delle diverse chiese diocesane sarde perché la loro reciproca collaborazione si esprima con speciale intensità ed efficacia e diventi modello di comunione tra le singole Chiese” (C.P.S. disp. n. 10 §4).  Se per 10 e più anni quest’indirizzo è rimasto lettera morta, da Cagliari dovrà partire l’invito a far sì che proprio la C.E.S.  tracci dei piani pastorali per l’evangelizzazione delle comunità dell’intera isola, avendo al proprio fianco quel “Centro Regionale della Pastorale” voluto dal C.P.S., auspicando che ad esso venga dato il compito d’essere punto di riferimento, di sintesi e di coordinamento globale di tutti gli altri organismi regionali dei differenti ambiti pastorali e che ad esso sia data una sede e gli strumenti adeguati.

 

 

3C“La gente della nostra terra, pur così diversificata nelle varie zone, mantiene ancora oggi una marcata identità unitaria. Si può quindi parlare con verità di popolo sardo, con una sua caratteristica culturale originale e una sua propria lingua. Questo spiega il forte senso di appartenenza della popolazione alla propria terra e ad una sardità profondamente segnata dalla secolare cultura cristiana, riconosciuta come ricchezza umana da custodire e da coltivare” (C.P.S. disp. n. 4 §4). Quest’affermazione dei padri conciliari  chiarisce e ribadisce l’esigenza di realizzare una Chiesa sarda che abbia, nel parlare con i suoi fedeli un’unica lingua. Ed è quindi compito dell’intero Popolo di Dio che è in Sardegna l’impegnarsi perché si trovi un’unicità di pastorale e di evangelizzazione, pur declinata nel rispetto attento delle esigenze locali.

3DNel rispetto e in sintonia con quest’intendimento, occorre ancora fare voti e pressioni perché la formazione dei nuovi sacerdoti della Chiesa sarda avvenga nel Seminario Regionale, in modo che essi si sentano parte integrante della società isolana, ne conoscano e ne sappiano interpretare, alla luce degli insegnamenti evangelici, i bisogni spirituali e le aspettative sociali (C.P.S. disp. 42). Un sempre più stretto raccordo con la Facoltà Teologica non potrà che potenziare quest’immersione con le tradizioni ed i valori della cultura religiosa sarda, in modo che quei seminaristi, dopo l’ordinazione, sappiano essere interpreti di un’unica missione evangelizzatrice e pastorale per la Chiesa sarda. Il giovane sacerdote di questa Chiesa sarda dovrà infatti farsi interprete delle attese e dei bisogni delle comunità locali, conoscendone ed approfondendone, con spirito di servizio, le diverse problematiche. Perché, come ben ha rilevato il C.P.S., e come consta da esperienza diretta, la Chiesa sarda “ha più che mai bisogno” di presbiteri ben preparati e ben formati, seguendoli ancora, nell’esercizio del loro ministero, con azioni di formazione permanente che lo avvicinino sempre più alle esigenze ed alle richieste della realtà sociale dell’isola. I consigli pastorali diocesani ed il centro regionale per la pastorale dovranno essere corresponsabilizzati alla riuscita di quest’indispensabile opera formativa di aggiornamento e di crescita culturale.

 

3E – Il laicato cagliaritano dovrà quindi collaborare, corresponsalizzandosi, nel ridare “unicità nella sardità” alla missione evangelica delle diocesi sarde. Perché anche quelle dieci chiese non siano isole nell’isola, ma diventino, insieme “Chiesa di Dio in Sardegna”, come recita il titolo degli atti conciliari. Perché anche la Chiesa-istituzione condivide la stessa terra della gente sarda, ne divide le preoccupazioni e le aspirazioni, i dolori e le gioie. Che non sono diversi da Tempio o da Iglesias, da Cagliari o da Lanusei, da Ales o da Sassari, da Alghero o da Ozieri, da Nuoro o da Ozieri.  Ed i laici credenti di queste dieci diocesi debbono anch’essi trovare unità di propositi e di intendimenti per dare forza a quell’impegno di corresponsabilità a cui non possono sottrarsi.  Ci sono infatti delle parole di Papa Montini (che piace qui ricordare) che indicano il cammino da intraprendere: “Voi sapete che la dottrina riconosce ed attribuisce al laico cristiano una sua partecipazione al Sacerdozio di Cristo e perciò una sua capacità, anzi una sua responsabilità all’esercizio dell’apostolato, che è venuto determinandosi in concetti diversi e forme adeguate alle possibilità e all’indole, della vita del laico immerso nelle realtà temporali, ma altresì imponendosi come una missione propria, dell’ora presente”.  C’è dunque da dare vita e sostanza ad un impegno missionario, d’apostolato e d’evangelizzazione, tra vescovi, presbiteri, religiosi e laici della Sardegna intera, perché la parola e la cultura evangelica si affermino nelle comunità isolane, perché occorre affrontare insieme le grandi sfide che il tempo attuale ci propone. Sono i laici a voler dare ai loro vescovi questa disponibilità e quest’incoraggiamento: perché anche in Sardegna si affermino impegni volti a confrontarsi con i gravi problemi che ci assillano. Dal ridare dignità e decoro civile alla famiglia, all’attenzione verso il disagio e lo smarrimento che avvertiamo in tanti nostri fratelli e sorelle; dall’opporsi all’allentamento dei vincoli di solidarietà nelle comunità del lavoro e dei territori, all’impegno nell’accogliere e salvaguardare, nella vita quotidiana, i diversi e gli infelici; dal dover ridare spazio ad una presenza culturale cristiana nell’informazione alla costituzione di sedi formative per acculturare le nostre comunità; dall’affrontare i drammi delle nuove povertà al richiamo verso le nostre Chiese perché ritornino a modelli  e stili evangelicamente trasparenti ed essenziali.

 

 

 

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