A proposito di eguaglianza. Uno non vale uno, di Giuseppe Remuzzi

 

Le società democratiche hanno un guaio. È un guaio relativo, eppure ce l’hanno. In democrazia conta il parere dei più, ma se ti interessa sapere quanto è lontano Saturno, il «parere» di un astronomo vale più di mille che provano a dire la loro. Ecco come

Quello che mi ha colpito di più del libro di Tom Nichols La conoscenza e i suoi nemici (Luiss University Press) — che nella versione originale ha un titolo bellissimo, The Death of Expertise (sarebbe «La morte delle competenze») — è la storia dell’Ucraina. Capita che nel 2014, «The Washington Post» abbia chiesto agli americani se consideravano giusto intervenire militarmente in Ucraina in seguito all’aggressione russa. I più erano favorevoli, ma la cosa curiosa è che lo erano soprattutto coloro che non avevano idea, nemmeno lontanamente, di dove fosse l’Ucraina (poteva essere in America Latina o in Australia, chissà…).

Niente di nuovo, si capisce. Informazioni approssimative o francamente sbagliate hanno cominciato a circolare da quando l’uomo ha imparato a socializzare, poi nel corso dei millenni il gap fra chi sapeva e chi non sapeva — ma non aveva tempo né voglia di confrontarsi — cresceva in rapporto all’espandersi delle conoscenze e all’evolversi della tecnologia (e oggi è praticamente incolmabile). Le notizie false del passato non si contano: dall’imperatore Costantino guarito dalla lebbra da Papa Silvestro e che in segno di gratitudine, dopo essersi convertito al cristianesimo, aveva donato la giurisdizione sulla parte occidentale del suo impero alla Chiesa, al piano segreto degli ebrei per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo (con tanto di incontri clandestini a Basilea che sarebbero avvenuti nel 1897, ma non era vero).

Più vicina a noi è la vicenda della fusione fredda, riassunta poche settimane fa proprio su queste pagine. Un esperimento inverosimile, annunciato però come se fosse vero, presentato a convegni importanti fra l’ammirazione di molti e che ha procurato ingenti finanziamenti prima che la furbata di Stanley Pons e Martin Fleischmann venisse smascherata dai colleghi che non sono riusciti a riprodurre l’esperimento.

A tutto questo si aggiunge il «guaio» delle società democratiche. Guaio relativo, se volete, senza sarebbe peggio, ma è pur sempre un guaio (in democrazia conta il parere dei più, ma se ti interessa sapere quanto è lontano Saturno dal nostro pianeta, il «parere» di chi se ne intende vale più di quello di mille che provano a dire la loro). E qui — è il caso di dirlo — casca l’asino: molti che sono stati eletti democraticamente finiscono per confondere, forse anche in perfetta buona fede, il consenso con la verità, e questo spinge la gente a pensare che avere uguali diritti significhi anche che il parere di ciascuno valga quello di ciascun altro. Ma da cosa nasce di preciso la disinformazione, come si diffonde e ancora, cambierà o potrebbe cambiare la nostra vita? E perfino quella di chi verrà dopo di noi?

Gli scienziati se lo stanno chiedendo, e di questi tempi il fenomeno delle fake news è oggetto di studio come mai prima d’ora, ma questo grande sforzo ha portato a qualcosa di paradossale: il campo delle ricerche sulla disinformazione pare soffrire dello stesso male che vorrebbe curare. Diversi studi arrivano a conclusioni diverse e non sembra nemmeno tanto chiaro che cosa ci sia di vero in quello che pensiamo di sapere sulle notizie false.

Il primo problema da mettere a fuoco è che a creare notizie false contribuiscono in tanti, per esempio chi fabbrica una certa notizia (l’autore) e poi chi la pubblica e chi se ne appropria. Due studi pubblicati su «Science» lo scorso gennaio dimostrano che la cattiva informazione di solito parte da un piccolo gruppo di persone che lavorano sistematicamente con giornali poco rigorosi o addirittura di dubbia reputazione. Chi scrive su questi giornali ha gli stessi difetti di chi li pubblica in quanto ad affidabilità, e questo aumenta le probabilità di arrivare a una storia che non passa attraverso nessun vaglio critico, gli stessi che ne scrivono non hanno gli strumenti per poterlo fare, ma la riportano così come l’hanno sentita. Una volta generate, le notizie false si diffondono più rapidamente di quelle vere — che di solito hanno un maggior grado di complessità — e anche se erano partite da pochissimi, raggiungono molta gente.

E poi ci sono i «sentito dire». Com’è possibile che una persona svelta come Steve Jobs — amico di medici e scienziati di prim’ordine — che aveva fondato il suo impero sull’innovazione, il rigore, la cura ossessiva dei particolari, quando s’è trattato della sua salute abbia deciso di curarsi con dieta vegana, erbe, agopuntura e altri «rimedi naturali» di cui si sentiva dire un gran bene? («Se non avessi fatto la Tac non si sarebbe mai saputo di questo tumore e probabilmente avrei continuato a vivere come prima senza nessun problema», ma intanto il tumore cresceva).

I nsomma, la trappola dei rumor (sentito dire, appunto) pare proprio non risparmiare nessuno: colpa della rete? Mah… Un articolo pubblicato su «Harper ’s Magazine» del 1925 ( Fake news and the public) stigmatizzava la crescente difficoltà di distinguere le notizie vere dai rumor. La causa? La «moderna» tecnologia, già allora! Certo però che ai primi del Novecento non succedeva che notizie palesemente infondate potessero raggiungere milioni di persone nel giro di poche ore. Gli autori del lavoro pubblicato su «Science» si sono presi la briga di analizzare condivisioni, reazioni e commenti su Facebook negli ultimi tre mesi della campagna elettorale delle presidenziali americane del 2016. Emerge che se si chiede a un cittadino americano che cosa ricorda di quella campagna elettorale quasi tutti fanno riferimento ad almeno una notizia che oggi sappiamo essere falsa e qualcuno ne ricorda addirittura più di una (di quelle false). Quanto ai siti, il 27 per cento degli americani nelle settimane prima delle elezioni ha visitato siti di notizie poco attendibili, mentre quelli che si sono rivolti a siti affidabili erano meno del 3 per cento.

A questo punto vi chiederete chi lo stabilisce che questo è un sito di fake news e quest’altro uno affidabile? Ecco: siti di fake news si definiscono, secondo David Lazer che ha studiato questo problema molto a fondo, «quelli che non hanno norme editoriali rigorose né processi che garantiscano accuratezza e credibilità dell’informazione». Se ci atteniamo a questa definizione «fake» diventa più la fonte di informazione che la notizia, fino a un certo punto però. Anche i grandi giornali hanno la loro bella responsabilità nel diffondere notizie false e c’è persino il caso che lo facciano non dico a bella posta ma quasi.

Qualcuno di voi si ricorda — scusate il gioco di parole — della memoria dell’acqua? Sir John Maddox, che è stato direttore di «Nature» per 22 anni, di scienza ne capiva e sapeva divulgare le cose della scienza come nessun altro. Capita — era il 1988 — che «Nature» pubblichi un lavoro di scienziati francesi sulla memoria dell’acqua. I revisori ne sono affascinati, Maddox no. «La memoria dell’acqua, troppo bello per essere vero», pensa sir John. Ma non vuole perdere l’occasione di essere al centro del dibattito che quegli esperimenti avrebbero generato. Sullo stesso numero di «Nature» esce un editoriale non firmato: «L’articolo di questa settimana dimostra che è possibile diluire

una soluzione acquosa che contiene un anticorpo indefinitamente, senza che la soluzione perda le proprietà biologiche di quell’anticorpo. Tengano presente i lettori che questa osservazione non ha nessun riscontro nelle leggi della fisica. Certamente nessuno dovrà usare i dati di questo lavoro per malign purposes, a scopi maligni. Quelli che credono nell’omeopatia potrebbero essere portati a usare questi dati a supporto delle loro tesi. Non sarebbe giustificato e sarebbe probabilmente uno sbaglio». Insomma una notizia trova spazio su «Nature» e il direttore se la cava con un invito a prenderla con le pinze.

C’è un altro meccanismo che è importante conoscere: gli attivisti della disinformazione (o chi ne è vittima) si mettono insieme rapidamente, creano legami e alleanze fra loro, elaborano su una certa idea e finiscono per non avere nessun interesse a lasciare le vecchie convinzioni, gli amici e i movimenti che si sono costruiti col tempo intorno a quelle — e per quanto si possano rivelare sbagliate non se ne vogliono liberare: trovare nuovi amici che la pensano in un altro modo e cambiare i loro comportamenti è troppo faticoso.

Il rapporto tanto discusso fra vaccini e autismo è emblematico. Nel 1998 Andrew Wakefield, gastroenterologo britannico, pubblicò su «Lancet» un articolo in cui analizzava la correlazione tra vaccino trivalente (morbillo, parotite e rosolia), malattia infiammatoria intestinale e autismo sulla base di uno studio condotto su 12 bambini ricoverati al Royal Free Hospital di Londra. Si è scoperto che era una truffa e nel 2010 il lavoro venne ritirato, intanto però nel Regno Unito le vaccinazioni erano crollate e i casi di morbillo aumentavano. Ma quanti si sono presi la briga di sapere come sono andate davvero le cose? Quanti sanno, per esempio, che Wakefield era stato ingaggiato da un avvocato senza scrupoli, Richard Barr, che intentava azioni legali nei confronti delle aziende produttrici, per presunti danni da vaccini? E c’è qualcuno, fra chi sostiene ancora oggi che ci sia un rapporto fra vaccini e autismo, che sa che Wakefield aveva ricevuto da Barr oltre 436 mila sterline di emolumenti? E che si era guardato bene dal rendere pubblica questa circostanza al momento della pubblicazione dell’articolo di «Lancet»?

Da non credere, ma per chi non ha interesse a sapere la verità o non vuole mettere in discussione quanto ha sostenuto fino a quel momento, tutto questo non ha alcun valore. Secondo Jayshree Seth — science advocate che si occupa di innovazione e ricerca — che ha studiato a fondo i rapporti fra scienza e società, il 40 per cento delle persone nel mondo pensa che se non ci fosse la scienza, la nostra vita non sarebbe poi tanto diversa. E il 45 per cento degli intervistati crede negli scienziati solo quando dicono cose che sono in linea con il loro modo di pensare.

Allora non resta che partire dalla scuola, aiutare la gente a capire come funzionano la scienza e le sue regole e non stancarsi di organizzare eventi che espongano la gente, ma anche e soprattutto i politici, alle verità della scienza. Nessun politico e in generale nessuno che abbia posizioni di responsabilità dovrebbe poter decidere senza sapere tutto quello che si può sapere su un certo problema, senza sentire gli scienziati insomma, che certe volte s bagliano, intendiamoci, ma chi è competente in un certo campo ha certamente meno possibilità di sbagliare degli altri.

LA LETTURA 11 AGOSTO 2019

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