La Sardegna dell’Ottocento di Lorenzo Del Piano, presentata da LUCIANO CARTA (terza parte, fino al 1899)

Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de deghe.

Il ministro  FRANCESCO COCCO ORTU

5. Nel lungo capitolo IX dell’opera L. Del Piano disegna un ampio quadro della situazione della Sardegna nel periodo compreso tra il 1861 e il 1899. Nell’ambito della lotta politica l’autore sottolinea come la classe politica sarda non sia mai riuscita a costituire in Parlamento un gruppo compatto di carattere regionale per la difesa degli interessi della Sardegna. Coloro che furono investiti del mandato parlamentare preferirono l’adesione ideologica ai partiti nazionali. Sottolinea, inoltre, la presenza organizzata dell’area cattolico-clericale e l’influenza che cominciò ad avere la massoneria nella vita politica isolana a partire dall’Unità d’Italia. Ancora oggi il suo saggio sulla massoneria[1] resta l’opera più attendibile sotto il profilo scientifico, a dimostrazione che lo storico Del Piano non ebbe remora alcuna ad occuparsi di argomenti allora considerati quasi estranei alla ricerca storica. Ad ulteriore testimonianza di questa professata libertà di ricerca, va sottolineato il fatto che Del Piano fu il primo ad impostare, con approccio marcatamente laico, la ricerca sul movimento cattolico non solo con lavori specifici, ma anche incoraggiando le ricerche dei suoi allievi in quel campo ancora poco esplorato dalla storiografia laica[2].

Durante il quindicennio di governo dello Stato unitario, sottolinea Del Piano, la parte più cospicua dei parlamentari sardi si schierò con la Destra Storica[3]; dopo la sua caduta, nel marzo 1876, la classe politica sarda e le popolazioni accolsero con sollievo l’avvento della Sinistra al potere e parteggiarono in prevalenza per essa.

Con particolare attenzione l’autore affronta il problema della costruzione delle ferrovie, cui aveva dedicato saggi specifici, che restano a tutt’oggi gli unici sull’argomento nel panorama storico isolano con particolare attenzione l’autore affronta il problema della costruzione delle ferrovie, cui aveva dedicato saggi specifici[4]. Il dibattito attorno al problema delle infrastrutture viarie in Sardegna fu lungo e complesso e le forze politiche, come le popolazioni cittadine e rurali, vi parteciparono attivamente con la costituzione di comitati a favore. Vi era chi, come Alberto della Marmora, che conosceva a fondo l’isola, avrebbe preferito che alle ferrovie venisse anteposta la costruzione di un tessuto di strade intercomunali, considerata la pressoché totale inesistenza di collegamento, e che la ferrovia non sarebbe stata in grado di garantire il collegamento tra i diversi centri, soprattutto dell’interno, in quanto sarebbe passata lontano da molti centri abitati. La priorità accordata alla ferrovia fu dettata soprattutto dal fatto che essa veniva considerata il mezzo più veloce per il trasporto delle merci ai due principali porti di Cagliari e Porto Torres; in secondo luogo tale scelta fu dettata dalla circostanza contingente che essa, nei primi anni sessanta, consentiva di sbloccare, seppure temporaneamente, lo stallo in cui si era impantanato il dibattito sulla destinazione dei terreni ex ademprivili. Nell’arco di circa un ventennio, a partire dal 1863, fu costruita la linea ferroviaria che collegava Cagliari con Sassari, che fu inaugurata dal ministro Baccarini nel luglio 1880 e fu realizzata grazie alla perizia e all’intraprendenza dell’ingegnere inglese Benjamin Piercy. Restavano fuori dal beneficio della strada ferrata le zone interne e quelle delle coste orientali e occidentali. A ciò si provvide con legge 22 marzo 1885, istitutiva della costruzione delle cosiddette linee complementari a scartamento ridotto, la cui realizzazione veniva portata a termine entro la fine del secolo.

Analogamente a quanto era avvenuto per gli ademprivi, un argomento su cui il dibattito si trascinò per decenni fu quello dei Monti frumentari, benefica istituzione che fin dal Settecento offriva alla classe agricola notevoli vantaggi nell’ambito del piccolo credito agrario. Nel 1851, quando nell’isola esistevano ancora trecento di questi istituti, fu approvata una legge di riforma che «sopprimeva il censorato generale e le giunte diocesane e locali, ed affidava la gestione dei Monti a commissioni di 4 o 6 membri, secondo il numero degli abitanti del Comune, scelti dal prefetto tra i 12 o 18 candidati indicati dall’amministrazione comunale»[5]. Fu una legge che favorì, come ebbe a scrivere G. B. Tuveri, che ne fu, suo malgrado, relatore in Parlamento, le «camarille locali». I Monti andarono mano a mano scomparendo sia perché i fondi di essi venivano utilizzati per finalità diverse da quelle cui erano destinati sia perché era opinione diffusa che gli stessi dovessero essere trasformati «in banche di credito agrario o in un’unica banca regionale»[6]. Tra il 1851 e il 1861 ne scomparvero 78 e tra il 1863 e il 1875 altri 84. L’utilità dei Monti era però rivendicata dalle popolazioni rurali, per cui l’istituzione fu ripristinata e riorganizzata con la legislazione speciale del 1897. Al loro finanziamento furono interessate le Casse ademprivili e i Comuni dovevano mettere a disposizione terre da coltivare dove i contadini avrebbero contribuito con prestazioni d’opera gratuite (le cosiddette roadie) alla dotazione del Monte di ciascun villaggio. In questo modo i Monti di soccorso, con il supporto delle Cattedre ambulanti di agricoltura, di cui fu pioniere Sante Cettolini, poterono di nuovo assolvere alla loro utile funzione fino a quando, nel 1927, sarebbero stati trasformati in Casse comunali di credito agrario.

Com’era avvenuto nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento, la colonizzazione della Sardegna fu un altro tema a lungo dibattuto senza che si ottenessero ottenere risultati concreti. All’origine del problema stava l’enorme quantità di terre incolte e la difficoltà di trovare manodopera per creare nuovi centri di popolamento, soprattutto per la presenza della malaria. Anche dietro l’impulso proveniente dalla tre Commissioni d’inchiesta della seconda metà dell’Ottocento, cui si accennerà in seguito furono diversi i tentativi di avviare ampie opere di colonizzazione tramite vantaggiose convenzioni con lo Stato, che oltre i terreni, offriva particolari vantaggi fiscali per la costituzione di borgate agricole nelle terre incolte. Tra tali tentativi ricordiamo: il “progetto Sulliotti” per la colonizzazione della valle del Coghinas; alcuni tentativi di coltivazione del tabacco e della canna da zucchero su vasta scala; il “progetto Garibaldi” del luglio 1870, che con il sostegno finanziario di una banca inglese prevedeva «la creazione di una ventina di aziende di 5.000 ettari ciascuna, da destinarsi metà a pascolo, metà alla coltivazione, previa suddivisione in dieci fattorie, ciascuna delle quali comprendente dieci poderi di 25 ettari»[7]. Questi e gli analoghi progetti di colonizzazione su vasta scala fallirono per mancanza di capitali e per mancanza di manodopera e inoltre perché essi, assai fantasiosi, non tenevano conto delle specifiche condizioni. Una certa fortuna ebbe, invece, qualche intrapresa di privati.

«Conviene aggiungere – precisa Del Piano – che se il discorso sulla colonizzazione costituì per gran parte del secolo una mera esercitazione accademico-demagogica, ed avrebbe conquistato una certa concretezza solo con la legislazione speciale per l’isola e fino al secondo dopoguerra, alcune iniziative private dimostrarono come l’agricoltura sarda potesse corrispondere almeno in qualche zona alle attese di chi fosse dotato di capitali adeguati e, ciò che forse è più importante, delle necessarie capacità ed attitudini imprenditoriali. Nacquero così e prosperarono più o meno a lungo le aziende descritte da molti viaggiatori, per esempio da Francesco Aventi, ed elencate dal Cherchi Paba. Aziende tra le quali, assieme ad alcune riuscite bonifiche, ci sembra di dover ricordare quelle impiantate a Geremeas, oltre che a Sinnai, da Benvenuto Dol, che si avvalse dell’opera di una quarantina di forzati, a Sanluri, da Raffaele Cuboni, a Piscina Matzeu, presso Cagliari, dal visconte Asquer, a San Leone, presso Capoterra, da Léon Goüin, a Surigheddu presso Alghero, dalla Cooperativa agricola di Milano, e così via, oltre a quelle impiantate da Benjamin Piercy, mentre a sé deve essere ricordata la trasformazione agraria operata a Caprera da Garibaldi con fini tutt’altro che speculativi» [8].

Nonostante il sostanziale fallimento della grande colonizzazione e le difficoltà provenienti dalla mancanza di capitali e dal fenomeno dell’eccessivo frazionamento della proprietà terriera, nel ventennio compreso tra l’Unità e la metà degli anni Ottanta, i prodotti agricoli e zootecnici della Sardegna poterono beneficiare di un discreto volume di scambi con la Francia, in particolare nell’esportazione delle carni, del vino, dell’olio e dei prodotti latteo-caseari. Il crollo si ebbe nel 1887-88 a seguito della cosiddetta «guerra delle tariffe», che bloccò gli scambi, arrecando un danno gravissimo alla fragile economia isolana. A ciò si aggiunse, nel settore viti-vinicolo, il graduale estendersi della fillossera che, sul finire del secolo, avrebbe distrutto i vigneti. La crisi del settore agro-pastorale ebbe come conseguenza un flusso migratorio oltreoceano mai registrato prima in Sardegna, in particolare verso il Brasile negli anni 1896-98, poi bloccatasi nel decennio successivo e riprese su larga scala nel 1906.

Un notevole sviluppo ebbe lo sfruttamento delle miniere nell’Iglesiente e nel Guspinese, in particolare le miniere di Monteponi e di Montevecchio, grazie soprattutto all’intraprendenza di due importanti capitani d’industria, il piemontese Carlo Baudi di Vesme e il sassarese Giovanni Antonio Sanna. La sfruttamento delle miniere ebbe un’importante conseguenza sul piano sociale con la nascita del movimento operaio.

La complessa situazione di disagio sociale nelle campagne incrementò in modo considerevole, negli anni Novanta, il fenomeno del banditismo, argomento che Del Piano affronta in termini severi soprattutto in relazione al chiché letterario del “brigante buono” e alla presunta origine del fenomeno, ascritta dalla mentalità positivista dell’epoca prevalentemente a fattori di tipo antropologico. Secondo Del Piano, considerata l’efferatezza del fenomeno, amplificato in sede letteraria e giornalistica, «pochissimo spazio sembrerebbe rimanere per le esercitazioni letterarie ed estetizzanti come quelle, ad esempio, di Sebastiano Satta, che avrebbe scritto di banditi “belli, feroci e prodi”: feroci senz’altro, belli non si direbbe, stando alla documentazione iconografica, prodi solo se derogavano alla consuetudine di sorprendere disarmati gli avversari che volevano eliminare o di colpirli alle spalle, quando non si trattasse di donne e di ragazzi. Vero è del resto che, subito dopo, il Satta suggeriva di chiudere “senza rimpianti” in una bara di quercia e di sprofondare in mare “la patria che nudrì l’anima amara di crucci”, la Sardegna di maniera che lui stesso aveva contribuito a creare»[9]. Di fatto il banditismo diede luogo a sedicenti teorie sociologiche aberranti, come quelle sostenuta da Alfredo Niceforo e dalla scuola lombrosiana sulla «razza maledetta» e sulla «zona delinquente». Secondo L. Del Piano, «i fattori sociali ed economici bastavano da soli a dare del fenomeno della delinquenza una spiegazione che era illusorio e fuorviante cercare in una componente antropologica»[10].

 

6. Come è stato di recente autorevolmente ribadito, «la riflessione sulla questione sarda caratterizza l’intero itinerario culturale di Lorenzo Del Piano, sia in riferimento al suo impegno come studioso di storia, sia nella sua quasi quarantennale attività di docente universitario». Alla “questione sarda” è dedicato il X e ultimo capitolo della Sardegna nell’Ottocento, quasi un’esigenza di ricapitolare al lettore il nodo centrale dei problemi della nostra isola[11].

Due sono state, esordisce Del Piano, le linee emerse nel dibattito sviluppatosi, soprattutto dopo la «fusione perfetta», sulla “questione sarda”, termine coniato nel 1867 da Giovanni Battista Tuveri e che sta ad indicare i modi attraverso cui la Sardegna avrebbe dovuto ottenere «l’effettiva parità con gli Stati di Terraferma e con gli altri Stati italiani»[12]: linee che si potrebbero definire l’una riformista e l’altra rivoluzionaria. Con linea riformista s’intende indicare quell’atteggiamento di chi «partiva dal presupposto che il Parlamento ed il governo, quando si fossero resi conto della particolare situazione della Sardegna, non avrebbero mancato di approvare per essa leggi speciali, capaci di sanare vecchie e nuove ingiustizie e di favorirne il progresso economico e civile»[13]. Con la linea, che, chiarisce del Piano, «solo con qualche riserva può essere definita rivoluzionaria»[14], si intendono indicare quanti guardavano con scetticismo alla capacità e volontà dello Stato accentrato «di porre fine ad una situazione di disparità che malamente nascondeva lo sfruttamento di tipo coloniale al quale l’isola era sottoposta da parte delle regioni economicamente  e politicamente più forti: di qui la necessità di modificare l’ordinamento interno dello Stato quale si era venuto delineando dopo gli avvenimenti del 1848-49 e soprattutto dopo il 1859-61, e sostituire al sistema accentrato un sistema nuovo, caratterizzato da ampie autonomie regionali non sempre esattamente definite nei loro aspetti giuridici e istituzionali: linea non priva di ormai inattuali echi federalisti, e, nei momenti di maggior tensione, di contenute velleità separatistiche»[15]. In entrambe le prospettive, tuttavia, la problematica andava a confluire nel più generale problema, proprio dell’Italia meridionale come di altre analoghe situazioni presenti nel Continente europeo (si pensi alla Corsica rispetto alla Francia e all’Irlanda rispetto all’Inghilterra), del rapporto tra le “periferie” e lo Stato accentrato, oppure, più in generale, del rapporto delle regioni con il potere centrale degli Stati.

Il primo passo per una seria considerazione del problema è stato, per il regno sardo-piemontese prima e per l’Italia unita poi, quello di acquisire un bagaglio adeguato di conoscenza dei disagi della Sardegna e del Meridione. Già nel 1852, dopo l’imposizione dello stato d’assedio a Sassari, il deputato della Sinistra costituzionale Lorenzo Valerio si fece promotore di una proposta d’inchiesta parlamentare; esigenza ripresa dieci anni dopo da Aurelio Saffi. Solo il 28 giugno 1868, a seguito delle interpellanze di Giorgio Asproni nel luglio 1867 e di Francesco Maria Serra nel maggio 1868, entrambe vertenti sulla gravissima situazione economica e sociale delle popolazioni sarde, fu eletta la prima delle tre Commissioni parlamentari d’inchiesta della seconda metà dell’Ottocento, presieduta dal leader della Sinistra Agostino Depretis. La Commissione stette in Sardegna un mese, dal 24 febbraio al 25 marzo 1869, per raccogliere tutte le informazioni utili e per procedere all’audizione dei membri degli enti locali e dei vari comitati popolari, ma la relazione finale non fu mai pubblicata. Solo Quintino Sella, membro della Commissione incaricato di occuparsi delle miniere, pubblicò un volume di fondamentale importanza sull’argomento[16], mentre l’antropologo Paolo Mantegazza, anch’egli membro della Commissione, un agile volumetto di impressioni di viaggio[17]. Ovviamente all’inchiesta non fece seguito alcun concreto provvedimento.

Aggravatasi la situazione del mondo delle campagne in tutte le regioni d’Italia, soprattutto a seguito della “tassa sul macinato”, in vigore dal febbraio 1869, tre anni dopo, con un appassionato discorso alla Camera dei deputati, il medico Agostino Bertani proponeva una Commissione d’inchiesta sulle condizioni dei contadini. La richiesta fu accolta solo cinque anni dopo dal governo di Sinistra guidato da A. Depretis. Nel 1878 fu così insediata, sotto la presidenza dell’illustre meridionalista Stefano Jacini, la Commissione parlamentare d’inchiesta «sulle condizioni attuali della classe agricola e principalmente dei lavoratori della terra in Italia». Per la Sardegna l’inchiesta fu affidata al deputato Francesco Salaris, che compilò la sua relazione, pubblicata nel 1885. La Relazione Salaris, di grande utilità per la conoscenza delle condizioni dell’isola, poneva in evidenza le incongruenze della proprietà fondiaria, caratterizzata dalle due contrapposte situazioni di frantumazione della piccola proprietà e della gestione parassitaria del latifondo, nonché il grandissimo malessere del proletariato agricolo, ridotto alla fame. Proponeva pertanto interventi urgenti per riformare il catasto, incrementare la piccola e media proprietà contadina, promuovere il rimboschimento, attivare il credito e l’istruzione agraria. Anche in questo caso alla “conoscenza” delle condizioni dell’isola non seguirono adeguati provvedimenti.  Nel decennio successivo maturava, nel dibattito tra le forze politiche sarde e nazionali, quella che Del Piano definisce «l’ideologia delle leggi speciali»[18]: la “questione sarda”, cioè, per essere avviata a soluzione imponeva grandi opere capaci di disciplinare i corsi d’acqua, la bonifica integrale delle zone paludose e la realizzazione di impianti d’irrigazione. Erano sostanzialmente queste le indicazioni che emergevano dalla terza inchiesta parlamentare, affidata nel 1894 al deputato Francesco Pais Serra, che pubblicò la sua relazione nel 1896. Le conclusioni dell’inchiesta Pais Serra vennero recepite dal governo nell’anno successivo con la promulgazione della legge 2 agosto-11 settembre 1897 «sui provvedimenti per la Sardegna, coordinata alle disposizioni della legge sul Commissariato civile per la Sicilia»[19]. Non sfuggirà questa specificazione nell’intitolazione della legge, a significare che i provvedimenti speciali per la Sardegna andavano di pari passo con gli interventi nel Mezzogiorno d’Italia. La legge del 1897, cioè, sanciva ufficialmente per la prima volta la saldatura della “questione sarda” con la “questione meridionale”.

Con la legge speciale del 1897, asserisce Del Piano, si ebbe il vero inizio della trasformazione strutturale della situazione economica e sociale della Sardegna: essa «stabilì le basi di profonde trasformazioni attuate nell’isola nei decenni successivi[20]. Fautore di questo orientamento politico fu soprattutto il politico sardo più importante di questo e del successivo periodo giolittiano, il cagliaritano Francesco Cocco Ortu, che dieci anni dopo, come ministro dell’agricoltura, avrebbe riunito nel Testo Unico del 1907 tutta la legislazione speciale sulla Sardegna. La nuova legislazione, scrive Del Piano, apriva «un nuovo periodo della storia della questione sarda»[21], secondo le convinzioni e l’orientamento di quella componente dell’indirizzo che abbiamo definito riformista. La legislazione speciale, così come venne attuata alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento e come fu continuata anche sotto il fascismo con la cosiddetta «legge del miliardo», costituì l’antecedente più importante nella storia dell’isola della legge n. 588 dell’11 giugno 1962, meglio nota come Piano di Rinascita della Sardegna.

L’altro filone interpretativo della “questione sarda”, di orientamento più decisamente politico, è quello che «vede nell’autonomia, definita in vario modo o miticamente definita, l’unica soluzione dei molti problemi che il governo centrale non avrebbe mai potuto affrontare»[22]. Di questo orientamento politico-protestatario contro lo Stato accentrato Del Piano ricostruisce puntualmente le diverse fasi ottocentesche a partire dalla «fusione perfetta». Esamina le posizioni dei corifei di questo modo di affrontare il problema, esaminando le idee espresse dal “pentito” Giovanni Siotto Pintor e dal convinto e radicale autonomista Giorgio Asproni; dal federalista Giovanni Battista Tuveri e, tra i nomi meno noti, dal repubblicano federalista Pietro Paolo Siotto Elias. Gli eredi novecenteschi di questa visione squisitamente politico-istituzionale della “questione sarda” sono tutti i più importanti pensatori sardi del Novecento, a partire, per fare i nomi più noti, da Attilio Deffenu, promotore del Congresso romano del Popolo Sardo nel 1914, per arrivare Giovanni Maria Lei Spano, agli esponenti della tradizione sardista come Camillo Bellieni ed Emilio Lussu, alla riflessione di Antonio Gramsci e dei più importanti politici autonomisti del secondo dopoguerra. Dalla riflessione sviluppatasi nel secondo dopoguerra era nata, nel giovane Del Piano, quella «ricerca come passione», per riprendere il titolo del sopra citato recente libro a lui dedicato da allievi ed estimatori, passione tutta riversata nelle linee essenziali della Sardegna nell’Ottocento, che costituisce ancora oggi un punto di riferimento essenziale per chi abbia a cuore la comprensione critica dei problemi della nostra isola.

Luciano Carta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Cfr. L. Del Piano, Giacobini e massoni e giacobini in Sardegna, Sassari, Chiarella, 1981, in particolare il capitolo III, Massoni e cattolici nel periodo unitario, pp. 147-255; Idem, Politici, prefetti e giornalisti tra Ottocento e novecento in Sardegna, Cagliari, Della Torre, 1975, in particolare il capitolo V, Il giornale Il lavoratore e ilo movimento democratico-cristiani a Cagliari (1904-1905), pp. 151-230.

[2] Si vedano numerosi lavori del suo allievo Francesco Atzeni, che iniziò sotto la guida di L. De Piano la sua ricca produzione storiografica, che prese l’avvio proprio dallo studio del movimento cattolico; ci limitiamo a citare i questa sede: F. Atzeni, La prima stampa cattolica a Cagliari (1856-1875), in «Studi Sardi», vol. XXIII, Sassari, Gallizzi, 1975, pp. 1-42 dell’estratto; Idem, Il movimento cattolico in Sardegna agli inizi del ‘900 e il circolo democratico cristiano Leone XIII, ivi, vol., XXIV, 1978, pp. 509-573; Idem Aspetti del movimento cattolico in Sardegna dallo scioglimento dell’Opera dei Congressi alla fondazione del Partito popolare. Appunti e documenti, in «Archivio Storico Sardo», vol. XXXI, Cagliari, 1980, pp. 311-371. Si veda anche L. Del Piano, Nota introduttiva a L. Carta, Bacchisio Raimondo Motzo e il modernismo, Cagliari, Della Torre, 1978, pp. 11-15.

[3] Al periodo della Destra Storica in Sardegna Del Piano ha dedicato particolare attenzione: ricordiamo il citato Politici prefetti e giornalisti e il volume della prestigiosa collana «Testi e Documenti sulla questione sarda», I problemi della Sardegna da Cavour a Depretis (1849-1876), Cagliari, Fossataro, 1977.

[4] Cfr. L. Del Piano, La Compagnia Reale delle ferrovie sarde e i moti operai del 1864-65, in «Studi Sardi», vol. XXI, 1968-70, pp. 483-544; Idem, Storia dei trasporti, in M. Brigaglia (a cura di), La Sardegna. Enciclopedia, vol. 2, Cagliari, Della Torre, 1982, pp. Pp. 23-31.

[5] L. Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento, cit., p. 296.

[6] Ivi, p. 297.

[7] Ivi, p. 309.

[8] Ivi, pp. 316-17.

[9] Ivi, p. 334.

[10] Ivi, p. 342.

[11] F. Atzeni, La questione sarda e la questione meridionale. La riflessione storiografica di Lorenzo Del Piano, in La ricerca come passione, cit., p. 9.storiografia

[12] L. Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento, cit., p. 343.

[13] Ivi, p. 346.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, pp. 346-47:

[16] Cfr. Q. Sella, Condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna. Relazione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’industria mineraria dell’isola di Sardegna, Firenze, Bocca, 1871.

[17] Cfr. P. Mantegazza, Profili e paesaggi della Sardegna, Milano, Brigola, 1869.

[18] L. Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento, cit., p. 360.

[19] Ivi, p. 366.

[20] Ivi, p. 375.

[21] Ivi, p. 370.

[22] Ivi, p. 377.

 

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