La Sardegna dell’Ottocento di Lorenzo Del Piano, presentata da LUCIANO CARTA (seconda parte, fino al 1861)
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de noe.
Il professor LORENZO DEL PIANO
(Cagliari 1923-2009)
3. Con la morte di Carlo Felice nell’aprile 1831 si estingueva il ramo principale della Casa Savoia e succedeva sul trono Carlo Alberto, del ramo collaterale dei Savoia-Carignano. Il timido processo di ammodernamento della Sardegna, avviato soprattutto da Carlo Felice, fu decisamente continuato durante i diciotto anni del regno di Carlo Alberto, non solo nell’ambito dell’assetto fondiario e del sistema feudale, ma anche in numerosi altri campi della vita civile, coadiuvato da un eccellente ministro nativo dell’isola qual era Emanuele Pes di Villamarina. La più decisa azione di riforma di questo sovrano si fondava su una conoscenza adeguata dei bisogni dell’isola, che egli visitò per tre volte, nel 1829 come principe ereditario, nel 1841 e nel 1843 in compagnia del figlio e futuro re Vittorio Emanuele II. Venne modificato in primo luogo il rapporto dell’isola con il governo centrale attraverso l’istituzione a Torino nel 1833 di un apposito ministero, la Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna, affidata al suddetto E. Pes di Villamarina. Si procedette alla riorganizzazione delle amministrazioni civiche, con l’istituzione nei Comuni di un Consiglio generale e di un Consiglio particolare ristretto, corrispondente all’attuale Giunta comunale; nel maggio 1836 furono soppresse le Curie feudali, sottraendo così l’amministrazione della giustizia alla corrotta burocrazia feudale per affidarla a magistrati preparati, e furono istituiti in tutta l’isola sette Tribunali in altrettante località sede di Prefettura, ciascuno suddiviso in un congruo numero di Mandamenti con competenza su un limitato numero di paesi. Fu inoltre dedicata particolare attenzione all’ordine pubblico e alla lotta contro i malviventi con l’invio nell’isola di corpi militari e con la costruzione di caserme per le truppe, tra cui quella ancora oggi denominata “Carlo Alberto” a Cagliari; venne promosso il disarmo della popolazione per superare la perniciosa piaga delle faide, anche se è opinione di Del Piano che questa misura, attuata in un contesto sociale in cui era accentuata la presenza di “quadriglie” armate di banditi nelle campagne, «tornò a danno degli onesti»[1]. Importanti furono, inoltre, le riforme igienico-sanitarie in un paese in cui erano frequenti le epidemie di colera. Le più significative innovazioni in questo campo consistettero nell’istituzione di condotte medico-chirurgiche nei maggiori centri; nel divieto di seppellire i cadaveri nelle chiese e nella promozione della costruzione di cimiteri fuori dagli abitati; nell’edificazione di nuovi ospedali pubblici, tra cui quelli di Cagliari e di Sassari. Notevoli furono i progressi nel settore dei trasporti marittimi con l’entrata in servizio nel 1835 del piroscafo Gulnara per il collegamento dell’isola con la Terraferma e il varo per lo stesso fine nel 1846 di altri tre piroscafi. Nel settore del trasporto interno, a partire dal 1837 fu istituito anche un servizio pubblico di diligenze tra Cagliari e Sassari affidato in concessione a privati; fu istituito anche il servizio postale in 103 Comuni. Di non minore peso furono gli interventi nel campo dell’agricoltura e dell’industria: vennero introdotte nuove colture come quelle del cotone e del tabacco; si iniziò la bonifica di grandi estensioni di terreni agricoli; si realizzarono moderni opifici, come concerie ed oleifici per la valorizzazione dei prodotti locali; diversi imprenditori diedero vita a iniziative industriali, come il commerciante francese Luigi Rogier che realizzò un cotonificio, il barone Salvatore Rossi che aprì una fabbrica di berrete e panni, il mobiliere Antonio Timon che installò a Cagliari una tipografia. L’incremento demografico costituisce una significativa cartina di tornasole di questo lento ma graduale processo di trasformazione della vita e della società dell’isola: la popolazione, infatti, era aumentata da 462.000 unità nel 1822 a 524.633 nel 1838 ed a 543.207 nel 1846. In concomitanza con tale incremento demografico, la produzione agricola, nonostante la discontinuità delle annate, registrò un andamento complessivamente positivo. In questo contesto, che appariva decisamente incamminato verso la modernità, nel 1844 fu introdotto il sistema metrico decimale dei pesi e delle misure, con la razionalizzazione monetaria. L’ innovazione stentò a farsi strada in una popolazione con un altissimo tasso di analfabetismo. Non si può tacere, infine, il significativo progresso che nel ventennio albertino si registrò nel campo della cultura, sebbene esso risultasse fortemente frenato dall’occhiuta censura di un governo pur sempre assoluto. Si manifestò un forte interesse per la storia, in particolare con la pubblicazione delle opere, ancora oggi indispensabili, di Giuseppe Manno[2], di Pasquale Tola[3], di Vittorio Angius[4] e di Pietro Martini[5]; uscirono i primi giornali e le prime riviste, tra cui alcune con manifesti propositi innovatori, come la rivista sassarese Il Promotore e quella cagliaritana La Meteora. Questa significativa vivacità culturale degli intellettuali sardi, forse troppo entusiasticamente denominata «rinascenza sarda», costituì il prodromo dell’esplosione della libertà di stampa del 1848. Anche se, avverte Del Piano, «è forse eccessivo sostenere che quando Carlo Alberto salì al trono la Sardegna era in condizioni storiche e sociali che l’Italia e l’Europa avevano superato»[6].
La riforma più incisiva, che disancorò definitivamente la Sardegna dai residui del medioevo in cui in parte era avvilluppata, fu però senza dubbio l’abolizione del sistema feudale e il rafforzamento della legislazione mirata a dare all’isola un assetto nuovo relativamente al problema della terra. Già in occasione del primo viaggio in Sardegna nel 1829, anche grazie alle precise indicazioni che gli pervenivano dall’amico Emanuele Pes di Villamarina, Carlo Alberto si era convinto della improcrastinabile necessità di abolire il feudalesimo. Nei primi anni del regno la sua volontà fu bloccata dalla netta opposizione dell’Austria, che temeva contraccolpi internazionali con la Spagna, Stato cui appartenevano ancora i maggiori feudatari dell’isola. Mutata la situazione internazionale con l’ascesa a trono di Isabella II, a partire dal 1834, anche a seguito della irrequietezza dei vassalli che in molti centri si rifiutavano di pagare i tributi feudali, ebbe inizio il moto riformatore. Venne anzitutto instituita una Delegazione «incaricata di accertare i redditi dei singoli feudi, sentiti i Comuni interessati»[7] e nel 1836, come si è detto, veniva abolita la giurisdizione feudale. Per l’abolizione definitiva del sistema apparivano percorribili tre vie: l’allodiazione, ossia l’assegnazione in piena proprietà ai feudatari di una parte del feudo, avocando allo Stato la parte restante; l’affrancamento, ossia il riscatto diretto del rispettivo territorio da parte dei Comuni, pagando i vassalli il compenso del valore del feudo; il riscatto da parte dello Stato, «che avrebbe quindi ripartito fra i Comuni da un lato le somme corrisposte ai feudatari, dall’altro i terreni già costituenti il demanio feudale»[8]. Fu quest’ultima la soluzione adottata con il regio editto 30 giugno 1837 e definitamente sancita con la carta reale del 12 maggio 1838. Il primo feudatario ad accettare il contratto di riscatto del feudo, nel 1838, fu il marchese d’Arcais, titolare di tre feudi nel Campidano d’Oristano. Negli anni successivi, grazie all’impegno del viceré Montiglio e del segretario di Stato Giuseppe Musio, furono stabiliti dalla Delegazione di Cagliari i compensi dovuti agli altri feudi, la cui stima tuttavia non fu accolta dal governo centrale, il quale operò ingiustamente una sopravvalutazione degli stessi; tale sopravvalutazione, favorendo in modo vistoso i feudatari, gravò in modo pesantissimo i vassalli, che nei decenni successivi, a partire dal 1840, avrebbero dovuto restituire allo Stato le somme anticipate per il riscatto. Nel 1843 le procedure di riscatto erano concluse. Le terre furono divise in tre categorie: private, comunali e demaniali. Le terre comunali dovevano essere distribuite in lotti a tutti gli abitanti dei singoli Comuni che ne avessero fatto richiesta; le terre demaniali dovevano essere assegnate anzitutto alle comunità; qualora in esse non vi fossero stati acquirenti, potevano essere vendute a licitazione privata. Restava per il momento insoluto il problema dei terreni ex feudali, in parte divenuti demaniali, su cui gli abitanti esercitavano il diritto d’uso. Con un provvedimento da molti giudicato arbitrario e ingiusto, essi furono divisi in parti eguali tra demanio dello Stato e Comuni, ma il problema si sarebbe trascinato, come vedremo, per decenni, senza che si raggiungesse una soluzione pienamente soddisfacente per le popolazioni. Liberati i terreni dai vincoli feudali, era necessario provvedere alla loro delimitazione. Nel gennaio 1841 fu incaricato il colonnello Carlo De Candia di predisporre un catasto provvisorio e sulla base di esso, che risultò essere impreciso e zeppo di errori non solo nelle misurazioni ma anche nell’indicazione della qualità e delle potenzialità produttive dei terreni. Con la legge 15 aprile 1851 il governo avrebbe stabilito la tassa prediale unica, che surrogava tutte le vecchie contribuzioni feudali. L’operazione di abolizione del feudalesimo, che sicuramente contribuì a svecchiare la struttura economica dell’isola, fu variamente giudicata dagli studiosi, soprattutto per l’effetto negativo che ebbe nell’immediato per i ceti meno abbienti. Occorre tuttavia, avverte Del Piano, nella valutazione complessiva del problema all’interno della «questione sarda», essere molto prudenti nelle conclusioni, distribuendo equamente i vantaggi e gli svantaggi prodotti dall’operazione. «Diversi autori – egli scrive – sono concordi nel rilevare che la situazione degli ex vassalli non migliorò con l’abolizione del feudalesimo, né sarebbe migliorata quando i tributi surrogati alle prestazioni feudali sarebbero stati sostituiti dall’imposta fondiaria: come che sia, non deve essere perso di vista il significato progressivo della scomparsa del feudalesimo, e se non bastò questo provvedimento a far rinascere la Sardegna, così come non era bastata la legge delle chiudende, il motivo deve essere ricercato nella complessità della questione sarda, e nella inadeguata conoscenza che ancora per molto tempo si sarebbe avuta dei suoi termini»[9]
Con l’abolizione del sistema feudale la Sardegna si era, per così dire, messa al passo con l’Europa ottocentesca. Soprattutto sul piano culturale i sardi si sentirono, o vollero sentirsi, immessi nel generale clima di progresso e di ventata riformista che pervadeva l’Europa intera. Soprattutto l’intellettualità isolana fu convintamente partecipe delle idealità di riforma improntate in particolare alle teorie di Vincenzo Gioberti, che ebbe in Sardegna molti proseliti anche tra il clero. Fu naturale, pertanto, che a partire dal 1846, ossia dalla elezione di Pio IX al soglio pontificio, il mondo culturale sardo partecipasse attivamente a quel generale clima di attesa delle riforme. Ciò spiega perché fu naturale l’entusiasmo con il quale, nell’autunno 1847, le maggiori città sarde chiesero al sovrano l’estensione alla Sardegna delle riforme già concesse e la «fusione perfetta» con gli Stati di Terraferma. La svolta decisiva fu sancita con il regio biglietto 20 dicembre 1847, che sanciva la «fusione perfetta»: la Sardegna, cioè, cessava di essere un Regnum autonomo, fornito di sue istituzioni specifiche, quali il Parlamento cetuale di Antico Regime, per diventare semplice provincia dello Stato sabaudo, cui conseguiva l’integrale recepimento della legislazione piemontese. Questo processo avrebbe trovato il suo coronamento il 4 marzo 1848 con la concessione dello Statuto Albertino. In virtù di esso la Sardegna godeva ora delle libertà civili e politiche ed entrava a far parte di uno Stato costituzionale con un Parlamento elettivo. Con le prime elezioni politiche, che si svolsero nell’isola il 17-18 aprile 1848, la Sardegna mandava i suoi primi rappresentanti al Parlamento subalpino, anticipando di un decennio, rispetto alle altre regioni d’Italia, il suo ingresso nel futuro Stato unitario; soprattutto essa sanzionava il suo definitivo ingresso nella patria più grande, la “nazione” italiana.
L. Del Piano dedica tutto il VI capitolo della sua opera alla «fusione perfetta» e compie un’indagine a tutto campo di questo fondamentale momento della nostra storia esaminando le ragioni dei “fusionisti” convinti della prima ora; dei “fusionisti pentiti”, come Giovanni Siotto Pintor, che trent’anni dopo, a seguito delle disillusioni prodotte dall’accentramento statale, considerò «un moto di pazzia collettiva» quell’entusiastica rinuncia senza condizioni alle prerogative autonomistiche del Regnum; dei “fusionisti critici” e degli “antifusionisti”. Il lettore ha così l’opportunità di confrontarsi con una vasta gamma di posizioni, che poi entreranno a far parte del patrimonio ideale del dibattito sulla “questione sarda” e sulle differenti soluzioni prospettate nel rapporto della Sardegna con lo Stato: le posizioni federaliste di G. B. Tuveri e quelle dei fusionisti “critici” Giuseppe Musio, Giorgio Piga e Giorgi Fenu, questi ultimi tutti propensi alla conservazione di ampi margini di autonomia della Sardegna all’interno dello Stato unitario. Se, come storico, con la consueta onestà intellettuale, Lorenzo Del Piano illustra tutte le posizioni in campo, la sua posizione egli preferisce esprimerla con la riflessione di Paola Maria Arcari.
«Secondo l’Arcari –scrive Del Piano – la fusione trovava un precedente nel 1789, quando ad opera del popolo francese era stata rifatta dal basso l’unità della Francia, con la decisione di abolire ogni distinzione tra le diverse province: il Siotto Pintor, non vedendo nell’unione altro che “la rinuncia dei sardi ai loro privilegi, si sorprende che così abbiano scelto per abbracciarsi proprio il giorno del loro suicidio collettivo, ma così si snatura il senso delle abbracciate. Esse furono in Sardegna, tal quale in Francia, in scala ascensionale, andarono dallo scambio del giuramento di fraternità fra i singoli a quello fra città e città per giungere a quello fra regione e regione. L’abbracciata fu insomma il pactum unionis, la fondazione dello Stato democraticamente inteso. Il contadino sardo, che nel ’47 disegnava in terra la croce e giurava di deporre le sue private inimicizie in nome della fraternità, è un vero e proprio contraente di una sorta di contratto sociale. La Sardegna, giunta ultima fra le regioni italiane a fare la sua rivoluzione francese, conserva di quella rivoluzione il senso migliore ed è così la prima ad iniziare le grandi abbracciate da cui doveva uscire l’unità d’Italia. Ed è sotto questo aspetto che la richiesta di unione può ascendere da programma provinciale, ossia da pura e semplice richiesta di parità, a programma nazionale, ossia ad anticipazione unitaria”»[10]
4. La prima fase del nuovo corso storico della Sardegna, provincia dello Stato sardo-piemontese, nel decennio che precedette l’Unità, fu problematico e assai sofferto soprattutto per il disagio sociale ed economico delle popolazioni. Il disagio sociale, dovuto alla miseria delle campagne e delle plebi cittadine, oltre a dare luogo al fenomeno endemico del banditismo, produsse frequenti rivolte che sfociarono, come accadde a Sassari, al paese di Oschiri e alla Gallura, nella proclamazione dello stato d’assedio. Tra gli elementi che favorivano il disagio sociale assumevano un’importanza particolare l’istituzione dell’imposta fondiaria e la corresponsione al clero delle decime ecclesiastiche, ultimo residuo feudale nel processo di modernizzazione della società. Quanto all’imposta fondiaria, fu istituita con legge 15 aprile 1851 n. 1192 e sanciva che a partire dal 1° gennaio 1853 essa doveva essere corrisposta in base alla proprietà fondiaria dei contribuenti, anche se si trattava di terreni “aperti” situati nelle vidazzoni. Poiché la nuova tassa, che surrogava tutte le antiche contribuzioni feudali, colpiva tutti gli immobili, ed essendo stati questi misurati o valutati in modo empirico, con il solo obbiettivo da parte dello Stato che l’imposta assicurasse un «contingente», ossia un gettito complessivo minimo, gli abusi e le ingiustizie furono innumerevoli e le contestazioni si trascinarono per decenni, costringendo spesso i proprietari di piccoli appezzamenti a vedersi sequestrare i beni per inadempienza fiscale. All’imposta fondiaria si aggiunse, a seguito della legge 23 marzo 1853 n. 1485 che aboliva le decime ecclesiastiche, la tassa che andava a sostituire queste e che doveva essere corrisposta allo Stato per la retribuzione del clero. Tutto ciò creò un fiscalismo insostenibile, denunciato costantemente in Parlamento, in particolare da Giorgio Asproni, e sulla stampa soprattutto da Giovanni Battista Tuveri. Altro elemento di dissidio fu la piega assunta dai rapporti fra Stato e Chiesa, a seguito della determinazione dello Stato, tramite le leggi Siccardi, di superare gli anacronistici privilegi del clero, con la sussistenza in sede giudiziaria di due fori. Le autorità ecclesiastiche ai provvedimenti statali risposero talvolta con la scomunica, provvedimento che la Chiesa pretendeva avesse valore anche nella sfera civile. Così avvenne, per fare un solo esempio, nell’agosto-settembre 1850, all’arcivescovo di Cagliari mons. Emanuele Marongiu Nurra, che avendo comminato la scomunica ai membri della commissione mista di laici ed ecclesiastici incaricata di verificare i redditi effettivi dell’amministrazione ecclesiastica, fu espulso dai regi Stati e poté rientrare in sede solo quindici anni dopo, nel marzo 1866. Nel 1855 venne avviato a soluzione il problema dei cosiddetti ordini religiosi contemplativi, giudicati troppo numerosi e perciò stesso inutili e dannosi per la società e per lo Stato: in tutta l’isola si procedette alla chiusura di 87 case religiose di diversi ordini per un totale di circa 800 religiosi. Questa situazione ebbe come conseguenza, già nel decennio pre-unitario, l’inasprirsi dei rapporti tra Stato e Chiesa e il formarsi di una consistente fascia sociale di cattolici “intransigenti” che favorirono la nascita di una stampa cattolica di opposizione, come il giornale cagliaritano Ichnusa, uscito nel gennaio 1856. Tale movimento anticipava su scala regionale la contrapposizione tra cattolici e Stato laico, che dopo il 1870 avrebbe comportato nell’Italia unita il disimpegno politico con la formula «né eletti né elettori» e l’adozione da parte della Santa Sede del principio del «non expedit», ossia della inopportunità di partecipare alle elezioni onde evitare che il mondo cattolico sostenesse uno Stato che, dopo la Breccia di Porta Pia, aveva spodestato il Papa-re.
A rendere ancora più sofferto il difficile inserimento della Sardegna nel nuovo Stato si aggiunsero, dal giugno 1860, le voci della presunta volontà di Cavour di cedere l’isola alla Francia, come compenso dell’aiuto prestato dal Secondo Impero al Regno sardo per la liberazione della Lombardia. Nonostante le smentite ufficiali da parte del governo, la polemica si trascinò a lungo e in essa intervenne con vigore, nel giugno 1861, anche Giuseppe Mazzini con tre articoli pubblicati su L’Unità italiana. In essi l’esule genovese, interpretando la volontà dei sardi, non solo denunciò le inadempienze dello Stato, ma ribadì con forza l’italianità della Sardegna, giungendo ad affermare che essa era disposta, ove necessario, a difendere tale appartenenza con le armi.
Si è accennato sopra che, nel quadro del riassetto fondiario dopo l’abolizione del feudalesimo e il riordino del sistema tributario, rimaneva insoluto il problema degli ademprivi, i terreni nei quali le popolazioni esercitavano ab antiquo la “facoltà d’uso”. Si trattava di un patrimonio ingente di 472.881 ettari, che attendeva una legislazione che ne sancisse in via definitiva la destinazione. È chiaro che dietro il problema dei diritti d’uso dei terreni stava il difficile rapporto degli agricoltori e dei pastori, praticando questi ultimi esclusivamente la pastorizia brada, per cui necessitavano di “terreni aperti”; gli agricoltori, invece, privi in genere di proprietà terriera, abbisognavano annualmente di un appezzamento per la coltivazione del frumento, elemento base dell’alimentazione. In ogni caso, anche a prescindere da questo aspetto peculiare dell’organizzazione sociale e produttiva delle campagne sarde, la facoltà dell’uso comunitario della terra rappresentava un elemento imprescindibile per le esigenze elementari dell’azienda domestica, fosse essa costituita da pastori o da agricoltori, oppure, nella gran partedei casi, da “massai” che svolgevano un’attività mista.
La complessità del problema ninfluenzò enormemente la vita sociale e politica dell’isola. Sul piano normativo furono numerosi gli interventi legislativi, peraltro molto disattesi dalle popolazioni rurali. La legge 15 aprile 1851 esonerava dalla servitù di pascolo i terreni situati nelle vidazzoni e nei paberili, rendendo ancora più teso il rapporto tra agricoltori e pastori. Con legge 10 aprile 1854 l’ademprivio venne vietato nei boschi e nelle selve demaniali. Tra il 1857 e il 1859 furono presentati in Parlamento tre disegni di legge, ma nessuno arrivò all’approvazione. Le tesi contrapposte sull’utilizzo dei terreni ex ademprivili, espresse in sede parlamentare e sulla stampa, erano sostanzialmente due: da una parte stavano i sostenitori della politica del governo, secondo i quali i terreni dovevano essere equamente distribuiti tra Demanio e Comuni, come peraltro si era statuito in occasione dell’abolizione dei feudi; dall’altra stavano i sostenitori della tesi per cui, essendo stati i terreni ex feudali riscattati dai Comuni, le popolazioni erano naturali e legittimi destinatari di tali beni. In questo dibattito s’inserì il parere autorevole di Carlo Cattaneo, che in due articoli del marzo 1860 e dell’aprile 1862 auspicava per i terreni ex ademprivili «un’immediata destinazione di generale utilità per tutta l’isola»[11].
A sbloccare la lunga controversia intervenne, nel 1863, l’iniziativa, fortemente sostenuta dalla pubblica opinione, della costruzione delle ferrovie. Tra il 1863 e il 1865 furono così emanate una serie di leggi che davano un assetto normativo definitivo al problema. La legge 4 gennaio 1863 n. 1105 stabiliva la concessione di 200.000 ettari di terreni ex ademprivili, circa le metà della disponibilità complessiva, alla Società Reale per la costruzione delle ferrovie, come parziale compenso per la realizzazione delle strade ferrate nell’isola. L’opposizione delle comunità locali non consentì alla Società Reale di acquisire i terreni; tale Società nel 1870 fu costretta a restituire allo Stato i soli 18.000 ettari acquisiti e a firmare una nuova convenzione con altre clausole contrattuali per l’esecuzione dell’opera, i cui lavori erano stati interrotti negli anni precedenti.
Limitata fu anche, sempre per la forte resistenza delle popolazioni, la vendita dei terreni. L’episodio più significativo tramandato dalla memoria storica fu quello de “Su connottu”, accaduto a Nuoro nella primavera 1868. Per ovviare a questi inconvenienti, con legge 12 agosto 1873 lo Stato autorizzò le Deputazioni provinciali a vendere i terreni che i Comuni non sarebbero riusciti a vendere. Neppure questo intervento dall’alto fu risolutivo: nel 1880, sui 278.000 ettari residui di terreni ex ademprivili, ne risultavano venduti 74.351 in provincia di Cagliari e 46.025 in provincia di Sassari. Gli acquirenti furono in genere proprietari facoltosi, che in qualche circostanza crearono aziende agro-zootecniche moderne di considerevoli dimensioni, come accadde ad esempio nella montagna del Marghine, dove l’ingegnere inglese Benjamin Piercy, a partire dal 1878, realizzò un’azienda moderna e produttiva. Alla fine del secolo, nel clima del nuovo orientamento governativo che incoraggiava la colonizzazione delle campagne e adottava la cosiddetta “legislazione speciale”, venne istituita una Giunta d’arbitri per la risoluzione dei contenziosi legati ai terreni ex ademprivili e contemporaneamente quelli rimasti invenduti venivano consegnati alla nuova istituzione delle Casse ademprivili, cui veniva demandato il compito della loro gestione. I terreni furono divisi in due categorie: per il rimboschimento e per l’enfiteusi. Nel primo trentennio del Novecento il problema era ancora vivo: con legge 8 ottobre 1920 le Casse ademprivili furono trasformate in Casse provinciali di credito agrario e nel 1927 venne creato il Commissariato per gli usi civici della Sardegna.
[1] Ivi, p. 110.
[2] Cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, Torino, Alliana e Paravia, 1825-1827, 4 voll.; Idem, Storia moderna della Sardegna dal 1773 al 1799, Torino, Favale, 1842, 2 voll. (vedi ora entrambe le opere a cura a cura di A. Mattone, Nuoro Ilisso, rispettivamente 1996, 3 voll.; 1998).
[3] Cfr. P. Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, Torino, Chirio e Mina, 18387-1838, 3 voll.
[4] L’Angius fu autore della gran parte delle ‘voci’ del Dizionario di G. Casalis (1833-1856) nonché redattore unico della rivista Biblioteca sarda (1837-38).
[5] Cfr. P. Martini, Biografia sarda, Cagliari, Reale Stamperia, 1838-1839, 3 voll.; Idem, Storia ecclesiastica di Sardegna, ivi, 1839-1841, 4 voll.
[6] L. Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento, cit., p. 106.
[7] Ivi, p. 138.
[8] Ivi, pp. 139-40.
[9] Ivi, p. 147.
[10] Ivi, pp. 211-212.
[11] Ivi, p. 254.