Il culto di Hitler. Una feroce e gentile divinità dell’odio, di Sergio Romano
Una nuova biografia (L’ascesa 1899-1939, Mondadori, di Volker Ullrich)indaga sulle ragioni che indussero il popolo tedesco a seguire il Führer. Era un bravo attore, che certe volte appariva brutale e altre ammaliante. Ma soprattutto riuscì a suscitare intorno alla sua persona un culto diffuso e molto intenso di natura religiosa.
Dopo avere scritto l’ultima delle 936 pagine (con note e bibliografia) di Hitler. L’ascesa 1899-1939 (Mondadori), Volker Ullrich, storico e giornalista della «Zeit», ha deciso di aggiungere una introduzione in cui ha spiegato perché il suo lavoro è diverso da quello dei suoi principali predecessori. Nelle biblioteche tedesche le opere su Hitler sono 120 mila, ma i maggiori biografi del Führer, prima di Ullrich, sono stati almeno quattro, di cui due (Konrad Heiden e Joachim Fest) tedeschi e due (Alan Bullock e Ian Kershaw) inglesi.
Bullock lavorò principalmente sulla documentazione prodotta dal processo di Norimberga, pubblicò la sua
biografia ( Hitler. Studio sulla tirannide) nel 1952, e disegnò il ritratto di uno spregiudicato opportunista, affamato di potere. Heiden, corrispondente da Monaco per la «Frankfurter Zeitung» dal 1923 al 1930, descrisse principalmente il primo atto dell’ascesa politica di Hitler. Fest, condirettore della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», si servì largamente della testimonianza di Albert Speer, con cui aveva stretto un rapporto amichevole quando l’architetto del Führer stava scrivendo le sue memorie nella prigione berlinese di Spandau, dove trascorse i venti anni della sentenza inflittagli nel 1946 dal tribunale di Norimberga. Il grande libro di Kershaw (due volumi apparsi nel 1998 e nel 2000) ha largamente approfittato di nuovi documenti, fra cui i diari del ministro della Propaganda del Reich Joseph Goebbels. Ed è fra le biografie di Hitler quella che ha prestato maggiore attenzione al contesto internazionale e al clima sociale della Germania negli anni del suo potere.
Tutti i biografi di Hitler si sono posti le stesse domande. Tutti hanno cercato di capire perché un uomo così orribile abbia conquistato la cieca obbedienza di una delle nazioni più colte d’Europa. Conosciamo il suo fascino oratorio, sappiamo con quale abilità sapesse fingere, mentire e sfruttare le umilianti condizioni che i vincitori di Versailles avevano imposto ai suoi connazionali. Sappiamo anche che le vittorie fanno sempre proseliti e che quelle delle forze armate tedesche nella prima metà della Seconda guerra mondiale furono effettivamente sbalorditive. Ma nessuna giustificazione è convincente e nessuna tesi ha completamente soddisfatto la nostra curiosità.
In uno dei migliori capitoli del suo libro Ullrich cerca di spiegare l’impenetrabilità e il successo di Hitler descrivendo lungamente la sua continua doppiezza. Poteva sembrare capace di nobili sentimenti, ma in altre occasioni dava prova di una spietata ferocia. Poteva discutere e argomentare con finezza, ma parlare in altre circostanze con una primitiva banalità. Poteva essere un «demagogo urlante» e, in altri momenti, mostrarsi cortese, persuasivo, ammaliante. I suoi baffi sembravano a prima vista ridicoli, ma le persone, quando lo incontravano, erano affascinate dall’azzurro dei suoi occhi e dalla bellezza delle sue mani.
Era certamente un grande attore, pronto a indossare la maschera che meglio si adattava alle esigenze del momento. Ma una natura così abilmente camaleontica rende il caso Hitler ancora più misterioso. Possiamo comprendere che queste doti lo rendessero tatticamente imbattibile. Ma è difficile comprendere come questo manipolatore di idee e sentimenti fosse anche oggetto di culto e devozione. Per dare una spiegazione a queste contraddizioni Ullrich, in un altro capitolo, ricorre alla religione.
Gli incontri annuali di Norimberga non erano tradizionali congressi di partito. Approfittando dell’abilità scenografica di Albert Speer e di una grande sacerdotessa (la regista cinematografica Leni Riefenstahl), Hitler trasformò Norimberga in una specie di Lourdes marziale visitata da legioni di pellegrini armati, dove il redentore della patria appariva ai fedeli con i tratti di un nuovo Messia. Il rapporto dei tedeschi con il loro Führer ha tutte le caratteristiche dei rapporti di culto e devozione. I suoi connazionali parlano di lui come di uno «strumento nelle mani di Dio», sommergono la cancelleria del Reich con lettere che gli chiedono di essere il padrino dei loro figli. Nel Paese dove il saluto abituale, in alcune regioni, invoca il nome di Dio (Grüss Gott, Dio ti saluti), quello universalmente adottato durante il Terzo Reich ( Heil Hitler) sostituisce il nome di Dio con quello del Führer. I suoi busti di gesso troneggiavano in tutti i luoghi pubblici: bar, scuole, ristoranti, uffici. Gli archivi dell’anagrafe registrano casi grotteschi come quello dell’uomo che voleva dare a sua figlia il nome di Hitlerine (l’ufficiale di stato civile gli consigliò di chiamarla Adolfine). Hitler se ne compiace e osserva che soltanto Martin Lutero, nella storia tedesca, è stato oggetto di tanta venerazione.
Conviene ricordare, tuttavia, che il fenomeno non è soltanto tedesco. Quando cominciarono a promettere salvezza e felicità, le ideologie politiche divennero religioni civili e i loro leader altrettanti profeti. Mussolini, Lenin, Stalin, Mao e i loro imitatori hanno riempito le piazze, incantato le folle, dato il loro nome a migliaia di bambini e, quando parlavano al popolo, erano circondati da «sacerdoti» dei rispettivi partiti che assicuravano la solenne esecuzione delle liturgie con cui erano accolti. Ma il culto di Hitler in Germania ha toccato vette più alte e ha avuto una più spiccata connotazione religiosa.
Nel suo libro Ullrich racconta il caso di un uomo che, durante una visita di Hitler ad Amburgo, era riuscito a scavalcare il cordone della polizia e aveva toccato la mano del Führer. Subito dopo «prese a ballare qua e là come impazzito continuando a gridare “Gli ho stretto la mano! Gli ho stretto la mano”». Un diplomatico tedesco che fu aiutante personale di Hitler, Fritz Wiedemann, commentò la scena scrivendo: «Se quell’uomo avesse dichiarato che prima era paralitico e che ora riusciva di nuovo a camminare non mi sarei meravigliato, e la folla gli avrebbe certamente creduto».
Da Il corriere della sera, 19 maggio 2019